CONTRO PLATONE. L’Uno e il Complesso.

Il pensiero complesso, incontra difficoltà strutturali a farsi strada nel canone occidentale. I motivi di questa difficoltà si devono per gran parte alle forme portanti del sistema di idee che strutturano questo canone. Le gettate iniziali di queste forme  si trovano nel pensiero platonico[1].

Il cuore dell’impianto platonico[2], impianto che afferma l’essere pieno solo del mondo intelligibile (Io) e non di quello sensibile (Mondo), risponde a quattro punti ritenuti problematici: i) il problema del molteplice che viene ridotto ad Uno; ii) il problema del divenire e transitorio che viene ridotto al permanente ed eterno; iii) il problema del relativo che viene ridotto all’assoluto a partire dal concetto di verità; iv) il problema generale del disordine che viene ridotto dall’ordine fisso della gerarchia. L’Uno (il Bene), vero, eterno, assoluto, a capo di una gerarchia discendente è l’impianto finale che istruisce l’immagine di mondo dell’ateniese.

978880619350MEDPlatone si trovava in un momento storico particolare, un momento di transizione che infine condusse alla fine del concetto di polis. Tra la morte di Platone e la sconfitta di Cheronea (-338) che sancirà la fine dell’autonomia (e della centralità) ateniese e con essa della vigenza del concetto di polis nella Grecia tutta, passa solo un decennio. Platone non era individuo privo di ambizioni, anche politiche, e l’intera sua filosofia, come pensiero e come pratica, può esser inteso come un ultimo, disperato, tentativo di resistere al collasso del sistema. L’Idea prende il posto di Mondo. Questa idealizzazione prende una forma tanto più estrema ed astratta, quanto più la situazione contingente rimanda una immagine della realtà sconfortante e lontana dai propri giudizi di valore[3].  Così, l’aristocratico Platone, discendente da antica famiglia dei tempi dei re e dei signori di cui rimembra con malinconica nostalgia la felice condizione di semplicità ed ordine, parente stretto di due dei Trenta tiranni, sufficientemente ricco da non aver plebee preoccupazioni mondane, propenso alla mitizzazione, visceralmente anti-democratico, profondo conoscitore dell’insieme del pensiero filosofico a lui precedente e coevo, nonché di quello religioso, si erge a baluardo contro l’incipiente dissipazione entropica del suo mondo.

Irritato dal fisicismo ionico, angustiato dal divenire eracliteo, inorridito dal pluralismo empedocleo, deluso da Anassagora ed indispettito da Democrito che mai nominerà nelle sue opere, inviperito dai sofisti, Platone cuce una sua personale e mitizzata ipostasi di Socrate, con infrastrutture pitagoriche, dialettica eleatica revisionata, miti orfici, misteri eleusini e forse non solo[4]. Ne viene fuori un sistema compatto, triangolato sugli assi ontologici – gnoseologici – etico/assiologici, un tutt’uno ideale che deve sovraordinare il tutt’uno reale.

Nella cultura occidentale, Platone è un gradino appena sotto Gesù Cristo quanto ad unanimità di giudizio positivo, estatico, entusiasta. Guarda il caso, è l’unico filosofo antico di cui ci è pervenuta l’intera opera. cop (1)fr89Via la ripresa neo-pitagorica e medio-neo-platonica,  previa ispirazione anche di  Paolo di Tarso, arriverà ai padri della Chiesa cristiana, ad Agostino. Innerverà il canone cristiano ma poi resusciterà in veste rinascimentale e poi idealista-romantica, toccando Cambridge e certa filosofia britannica più di quanto si pensi ed ispirando il logicismo fregeano e parte della nascente filosofia analitica, poi sino a Gadamer e Derrida. L’apriorismo genetico gli è amico, così come il vasto platonismo matematico (Cantor, Russell, Godel).  Con i suoi giudizi sulla certezza della conoscenza aritmo-geometrica, la convinzione nella vita eterna, con la sua separazione tra mondo vile, io razionale e meta ideale posta nel blu dipinto di blu, con la sua convinzione che gli uomini abbiano bisogno di essere comandati dai pochi che sanno (le élite), con la sua certezza nella Verità, Unica-Semplice-Assoluta, continuerà per secoli ad esercitare il ruolo di Grande Padre del modo occidentale di pensare Io, Mondo e loro relazione.

Questi giudizi così poco conformisti ed empatici, non cancellano certo la sua decisa grandezza complessiva anche se non abbiamo testi precedenti (ma neanche quelli immediatamente successivi) con i quali compararla. Sicuramente, letta e studiata a fondo, la sua opera completa è assai più problematica ed aperta di quanto non abbiano sedimentato certe sue interpretazioni.  copLe certezze biografiche scarne ed incerte. La famosa Lettera VII, viene data per originale più per i contenuti ritenuti essenziali alla stessa comprensione di Platone, che per accertata convinzione filologica. Quando Aristotele riporta qualcosa di lui e dell’Accademia si sospetta una perdita di lucidità che porta al travisamento (come possa perdere lucidità e travisare Aristotele che passò venti anni nell’Accademia e non un critico che legge l’opera scritta più di venti secoli dopo, è un mistero). Diogene Laerzio è un altro che quando proprio non si sa cosa dire viene citato, mentre quando racconta cose che non quadrano con le idee a priori che ci facciamo a sostegno delle nostre impalcature interpretative, diventa un “pettegolo”[5].

Quando si legge la sua intera opera e si scopre che su molte cose ha detto tutto ed il suo contrario, che tutta la sua opera è alla ricerca di definizioni delle essenze, delle fatidiche “Idee” al cui punto non arriva mai in modo chiaro e conclusivo, che i vantati dialoghi sono per lo più estenuanti contorsioni logiche monologanti appena intervallate da ammirati “Dici bene o saggio Socrate!”, che lo stile di scrittura ondeggia come se il ventriloquo di Socrate fosse preda di multiforme personalità, che mai e per nessuna ragione egli appare in una asserzione e si nasconde dietro un Socrate simbolico (ma con vistose eccezioni al format), possono venirvi dei dubbi[6]. Ma se cercate di colmarli leggendovi le tonnellate di saggi “critici” composti in suo onore, rimarrete con la convinzione che forse voi il fenomeno Platone, non siete proprio in grado di capirlo. cover-frontecf4Le aporie inconcluse sono per farci capire che non capiamo niente, i cambi repentini di idee sono solo dialettica che simula il non essere di concetti di cui così si rinforza l’essere, quando proprio non si può far pace con le contraddizioni allora ha cambiato idea perché ogni pensatore ha un suo sviluppo storico (W. Jaeger), la poliedricità stilistica è la grande capacità virtuosa di un maestro della parola e della sintassi. Se poi, seguendo Leibniz che invocava qualcuno che mettesse un po’ d’ordine nel guazzabuglio labirintico di questi trentacinque dialoghi (di cui alcuni sospettati di inautenticità), vi rimane un irriducibile dubbio sulla forma complessiva dell’impianto del pensiero del “divino”, non vi preoccupate. Avete sempre la possibilità di ritenere i dialoghi delle opere essoteriche la cui variabilità è funzione dei diversi target, dei “dico-non-dico” il cui nocciolo starebbe in dottrine non scritte (esoteriche) che però si possono ricostruire seguendo la Scuola di Tubinga e Milano.

imagesMa noi non siamo qui a  scrivere una nuova interpretazione di Platone che andrebbe ben oltre le nostre finalità ed anche capacità. Vogliamo rimanere stretti ad una analisi comparata tra pensiero platonico e pensiero della complessità (ciò che noi auspichiamo possa essere un pensiero della complessità), per notare quanto spesso e di quanti gradi si verifichino scostamenti. La conclusione annunciata sarà che il pensiero complesso che unico può darci speranze di adattamento alla grande complessità del mondo nel quale ci è capitato vivere, è geneticamente alieno-repellente all’impianto platonico. Dalla notazione di quanto il pensiero occidentale è informato nelle sue strutture portanti di platonismo diretto o indiretto, totale o parziale, dedurremo da dove cominciare per aprirci una nuova condizione di pensabilità per un nuovo canone[7].

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Platone affronta il dramma della relazione Io – Mondo dei suoi tempi, inventando una religione, la religione delle Idee. Questo cosmo perfetto vien posto in mezzo tra Io e Mondo e diverrà il modello di tutte le future teologie razionali. cop (1)vbIl Mondo ne deriva per approssimazione (partecipazione, somiglianza, imitazione), l’Io vi tende con energia erotica. In pratica è il tipico triangolo (triangoli e piramidi sono la “geometria delle passioni” della mente platonica[8]) che racchiude un cosmo perfetto, immateriale, immutabile, semplice, unitario ed unificato al vertice, la cui punta estrema è la monarchia del Bene (o Uno). Il Mondo ne deriva per corruzione ed in modo confuso (la confusione che avvertiamo nel dato empirico), l’Io vi tende come tende a Dio. Il cosmo perfetto neutralizza: le presunzioni democratiche di uguaglianza poiché non a tutti è permesso elettivamente di partecipare della perfezione; la relativizzazione sofista poiché questo cosmo è perfetto in sé per sé e non è soggetto alla variabilità dei punti di vista; l’impermanenza eraclitea poiché il suo ordine è eterno ma soprattutto -immutabile- ed il divenire una degradazione dell’essere; il pluralismo empedocleo poiché ogni Idea è una-semplice-non scomponibile e racchiude in sé tutte le sue maldestre copie che vediamo nel Mondo[9]; il fisicismo e l’atomismo perché questi sono solo fenomeni sbiaditi del regno perfetto e terso del soprasensibile accessibile a quel frammento di divino che è l’Intelletto umano.

E’ propriamente il mondo divino che ha dato mandato a Socrate di esserne il profeta, Platone di esserne il sacerdote (il Paolo di Tarso), l’Accademia di esserne la chiesa, il Bene di esserne l’Assoluto, il demiurgo (la prima comparsa di una forma approssimativamente monoteistica nella tradizione greca) di esserne il mediatore efficiente, l’anima umana di aspirarvi come si aspira al paradiso, la verità di esserne la destinazione finale[10], l’aritmo-geometria (sacra) di esserne la sintassi formale[11], la dialettica (discendente ed ascendente) di esserne la preghiera[12] e rito del dialogo nell’ecclesia umana. Con la morte che sarà liberazione dalla momentanea caduta nella vita, il calco per il cristianesimo è pronto per l’evoluzione paolina – neo platonica – patristica.

GFxYXoVIagWn-mLo penso, dunque è”[13], questa è la nevrosi idealista, darsi ragione da soli nel privato del propri pensiero. Scollegare il pensiero dal Mondo (“fuga nei Logoi” secondo l’espressione di Socrate in Fedro 99e)  e porre questo secondo a dipendenza del primo in un impeto di nevrosi demiurgica. Dare ragione (in quanto razionale) alla disperata tensione che scacci la consapevolezza della vita a termine che affligge l’auto-coscienza umana ed al contempo, creare il fondamento per la naturalità di ogni gerarchia trascendente. Risolvere la reiterazione inquietante della domanda “e prima?, e prima?” sconfinando nell’eterno da una parte e ponendo il principio nella mani di un artigiano divino, dall’altra. Dar ragione del moto come desiderio di stare immobili, del molteplice come singolarità -momentaneamente- degenerata. Rassicurare sul fatto che il Tutto-complesso è solo parvenza, in “realtà” è semplice.

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L’impianto platonico stabilisce alcune linee che nel loro riprodursi e riprodursi nei secoli del pensiero occidentale, anche e ben oltre i nebulosi confini della filosofia, diverranno armatura portante della nostra immagine di mondo.

Principio di riduzione. L’unione tra ciò che noi pensiamo del  come la cosa è e del come la cosa deve essere ed è bene che sia, porta a scambiare il nostro riduzionismo naturale, dovuto a ragioni di economia cognitiva a fronte dell’immensità del conoscibile, con una legge delle cose, del come sono e del come è giusto che siano. 9788884925473gIl complesso è apparente, in realtà è semplice. Poco ed i Pochi che lo sanno, ordinano il Molto ed i Molti che non sanno. Legioni di pensatori hanno operato all’ombra di questa verità ritenuta auto-evidente senza domandarsi se la “cosa in sé” accettasse davvero questa riduzione, occultandone i bordi in eccesso, le anse non combacianti, le emergenze prorompenti dalle interrelazioni, quadrando i cerchi e cerchiando i quadri, fregandosene del minimo principio di corrispondenza. Il sovra-uso di analogie e di miti, porta a conferme di “vedi, è così perché anche qui è così” (A=B, C=B stante che -implicitamente, ma falsamente- C=A), non tenendo in alcun conto la parametrabilità delle cose e dei contesti, mischiando pere con mele. Il riduzionismo cartesiano, poi scientifico, è figlio dell’essenzialismo platonico.

Idealismo semantico – sintattico. L’idealismo semantico è quello di certa filosofia che usa il concetto non come uno strumento di riduzione necessaria (da relativizzare nella sua verità e da salvare più che altro nella sua utilità), ma come sintesi del vero. Producendo concetti con parole e ritenendoli mattoni solidi, si può poi edificare qualsiasi edificio e darselo come destinazione concreta, immodificabile, vero in sé, reale perché ideale, quindi razionale. L’idealismo sintattico è quello di certa logica e matematica per la quale non solo queste sono l’unica guida sicura alla composizione delle idee in sistemi di pensiero, ma lo sono, perché è il mondo che è-fatto-proprio-così.

cop (1)r45mRifiuto dell’impermanenza. Dare dignità filosofica alla pulsione umana di negare la morte è la più pietosa bugia che il nostro primo tratto del pensiero che pensa se stesso (quello che arriva fino alla modernità) ha difeso con pervicace disonestà intellettuale. Nulla in natura sembra che continui ad essere in eterno o all’infinito. Tutto ciò di cui abbiamo avuto ed abbiamo esperienza, ci dice il contrario. In tutto il mondo ed in tutti i tempi, la pietosa bugia riappare in mille forme. Dalla comparazione tra questa universale credenza e la sua continua e sistematica falsificazione nell’esperienza, avremmo dovuto trarre considerazioni sul perché la pensiamo, qual è il prezzo cognitivo ed esistenziale del dirci vero ciò che palesemente non lo è. Questo atto mancante ci avrebbe altresì responsabilizzato sul come far della vita l’unica cosa che conta veramente per noi, non sprecandola e non riempendola di “attesa della morte”, immersa in diluvi di parole.

Rifiuto del divenire. L’ostinata negazione della morte, necessita della svalutazione di quell’essenza ontologica invisibile che porta tutte le cose a trascorre il tempo da un punto prima ed un punto dopo, prima e dopo dei quali le cose e noi stessi, non siamo. 9788833905990Non curare il divenire significa resistergli in modi paradossali, significa subirlo e non guidarlo, significa rifiutare il cambiamento e non auspicarlo. Significa perdere visione storica dell’umano, relativizzarne i contesti temporali, essere pronti a ridiscutere le verità eterne, recalcitrare ottusamente per non seguirne il flusso, fissare lo sguardo all’indietro. Questa è una delle massime frizioni che creano attrito tra noi ed il flusso del Mondo, aggravata dalla ostinata difesa di istituzioni umane che come tutte le cose, cambiano, deperiscono, muoiono. Freni immobilizzanti che in alcune congiunture creano i presupposti del disadattamento. Disadattamento, che nel rifiuto della realtà che inesorabilmente diviene “altro”, porta alla morte delle civiltà e delle civilizzazioni con “noi” dentro.

Rifiuto della molteplicità e dell’Altro. Negare la molteplicità ha ritardato la nostra evoluzione cognitiva (e sociale) ad abituarsi a lavorare con più variabili sapendo che, per quante ne possiamo maneggiare, molte altre rimangono fuori delle nostre possibilità cognitive. download45t6La molteplicità è negli individui stessi unitariamente concepiti, è tra gli individui e le loro forme sociali, tra gli individui e le cose, tra le cose e le parole e tra le parole ed i pensieri degli individui che coscientemente si “sentono” Uno. I vari gradi di questa molteplicità sono sovente ridotti a due, al problema di ciò che è fuori di uno (il suo non essere) ma non reciprocamente per ogni cosa che è. Ognuno di noi è Altro per l’Altro. La molteplicità negata è la premessa per l’impero dell’Uno, del Vero, dell’Assoluto come rifiuto del dialogo con l’Altro, della sua opinione rispetto alla nostra, del relativo. Questo è un retaggio antico, una condizione che potevamo permetterci quando sul pianeta eravamo pochi e lo spazio tanto, quando una guerra, il dominio, il potere della coercizione infine, risolvevano il dilemma su chi avesse ragione. Oggi, è un pensiero fortemente disadattante. Il pensiero dell’Uno ha una geometria sempre verticale, mai orizzontale, mai diagonale, mai tridimensionale, mai concava o convessa. Essa è statica e mai dinamica. Soprattutto, essa è priva del ruolo ontologico della relazione.

Gerarchia semplice e fissa come unica forma per domare il complesso. Il pensiero sociale e politico di Platone riflette la piccola inflazione di complessità che si verificò ai suoi tempi, elaborando prima tramite il re-filosofo, poi tramite leggi – consiglio notturno, una piramide gerarchica che impone ordine al disordine. h9uqFxndlCzy-mAltrettanto farà nell’intellegibile con l’Uno in quanto “re del tutto” (Lettera II, 362 e). L’élite è l’unica che contempla l’Universale, perché i Tutti sono impegnati nella “giusta e necessaria” divisione del lavoro, cioè nel Particolare. L’élite filosofica, dei guardiani armati, dei saggi, dei politici, è la stessa forma del potere dei re e sacerdoti del passato, del Senato ed imperatore romano, dei Signori medioevali, delle monarchie aristocratiche, di quelle parlamentari, delle avanguardie leniniste, dei massoni architetti del mondo, dei possessori dei capitali, dei vari -padroni del mondo- investiti di forza divina o armata o economica o razionale o tutte e quattro. Non è certo responsabilità di Platone che questa sia la forma quasi-unica del modo col quale l’Occidente ha dato ordine al complesso. Ma è anche sua responsabilità, se gli vogliamo attribuire la grandezza che siamo soliti attribuirgli, non aver accettato che se la democrazia dei suoi tempi certo non funzionava, la sua “forma ideale” era in realtà, l’unica via che permettesse l’autoadattamento virtuoso di un complesso (la società umana) al Complesso (il Mondo). Invece della Repubblica delle piramidi, avrebbe potuto indagare una utopia veramente comunitaria ma la sua antropologia pessimista derivata dal suo aristocraticismo, portava necessariamente ad altri esiti.

ripensando-platone-e-il-platonismo-142070Negazione dei contesti e delle relatività. Il rifiuto del molteplice e del divenire,dell’incertezza e dell’indeterminazione, del convenzionalismo che unico effettivamente permette di dialogare sul serio, del plurale e del materiale co-essenziali con l’ideale ed il singolare, il voler affermare l’unilaterale propria verità declamandone l’oggettività, è la “piega” che Platone ha dato allo sviluppo della successiva riflessione[14]. Certo la responsabilità più che sua è del canone interpretante successivo, ma noi dobbiamo riferirci alle fondazioni per minare la stabilità dei soprastanti città ideali che la tradizione ha costruito. La Verità non è Una, non è Semplice, non è Assoluta, da qui occorre ripartire per trovare un nuovo modo di pensare Io e Mondo.

Impossibilità della consapevolezza diffusa. Le olimpiadi dell’essenza umana talvolta mostrano uomini d’oro (pochi), talvolta d’argento (qualcuno ma non tanti), talvolta di bronzo (tanti). Ma se è per questo, gli uomini non sono sempre d’oro-argento-bronzo in tutti gli aspetti ed oltre a questa classificazione stretta, sono anche di ferro, di idrogeno, di ossigeno e carbonio. Gli elementi vanno oltre la metallurgia ed in natura sono più di novanta. Come adattare questa varietà complessa in un sistema auto-cosciente che le comprenda in modo equo – dinamico – funzionale, senza immaginare “leggi” eteronome, di modo che questo sistema possa adattarsi ai livelli crescenti di una chimica complessità sempre più ingarbugliata e tendente al caotico è il problema attuale che ha in carico una filosofia dell’umano. A questa ricerca del pensiero, Platone risulta non solo in gran parte estraneo, ma opposto. Il suo sistema di pensiero che geneticamente perimetra le condizioni di pensabilità di altro, coincide con un periodo del mondo che faremmo bene a ritenere terminato. Forse, dopo ventiquattro secoli, dobbiamo chiudere un’era ed aprirne un’altra.

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product-4474418Non promuoviamo un “parricidio” di Platone perché non proviamo nessuna pulsione edipica verso la Verità. Misurarsi con la sua tradizione in forma critico-negativa però, può aiutarci a capire meglio da cosa dobbiamo prendere le distanze. La attuale crisi del modo occidentale di stare al mondo, non è solo la crisi del capitalismo. S’illude chi pensa senza profondità storica.

Il capitalismo viene, tra l’altro, dall’imperialismo coloniale del XVI° secolo, il quale è l’esportazione della guerra di tutti contro tutti vigente lungo tutto il Medioevo, il quale subentra all’imperialismo romano, il quale fa meglio ed in grande ciò che fece nella sua fiammata conquistatrice Alessandro, il quale è colui che dà soluzione alla crisi di crescita delle poleis greche. Il tutto come una storia che varia intorno all’invariante: il dominio dei Pochi su i Molti. Dovremmo tornare a quel bivio[15] e vedere quale altra strada presentava la biforcazione, perché è quella la strada che, unica, può portarci ad un diverso modo di stare al mondo. La strada che non abbiamo percorso. Quella crisi ebbe quegli esiti anche per l’impossibilità di dare una alternativa alla gerarchia nei gruppi umani. Gerarchia che proviene come schema ordinante, dal profondo del tempo, dalle prime forme di organizzazione delle prime società complesse. Tra pochi o pochissimi si trova più facilmente l’ordine e quel primo sistema ordinato funge da potere intenzionato a dare ordine a tutto il resto. Così nel sociale, così nel mentale. Di questo schema, il sacerdote piramidale Platone è l’eterno cantore.

I compiti per il nostro pensiero sono di enorme proporzione, di proporzione epocale. Più tardi comprenderemo l’esigenza di questa radicale rifondazione , meno possibilità avremo di soluzione.

Altri tre articoli su Platone rinvenibili sul blog: 1), 2), 3).

L’articolo è pubblicato anche su: sinistra in rete

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[1] La fondazione è il primato del tempo ovvero ciò che viene fatto per primo ha conseguenze decisive per ciò che verrà fatto dopo.

[2] Il pensiero platonico è assai vasto ed articolato e non necessariamente sistematico, dacop 9o7b cui le possibilità per una eterna re-interpretazione. Per “cuore” ci si riferisce a ciò che si ritiene la matrice essenziale, ciò da cui anche il resto scaturisce ed a cui tutto il resto, risponde nelle forme logico-strutturali.

[3] F. Nietzsche nella sue giovanili lezioni di Basilea, su Platone: “L’uomo dei concetti giusti vuole giudicare e governare: credere di possedere la verità rende fanatici. Questa filosofia partiva dal disprezzo della realtà e degli uomini: essa ben presto rivela una tendenza tirannica” F. Nietzsche, Plato amicus sed, Introduzione ai dialoghi platonici, Bollati Boringhieri, Torino, 1991.

[4] E’ tesi (non solo di chi scrive), che la struttura del Timeo, ricalchi in parte, l’idea alla base dell’Antico Testamento, udita di rimbalzo o in diretta in quel viaggio in Egitto che non si sa se Platone effettuò davvero o meno. Ci riferiamo al demiurgo, ovviamente, oltre che all’atmosfera da “Genesi”. Il richiamo all’autorità di Solone da cui provverrebbe la storia raccontata nel Timeo, come di storia da lui riportata da un incontro in Egitto, direbbe e non direbbe di questa possibile origine. Per lungo tempo, nel Medioevo, il Timeo sarò l’unico testo direttamente accessibile di Platone. 9788843033096Sempre in Egitto, Platone avrebbe potuto avere contatto con il filone antichissimo della sapienza sacerdotale, come prima di lui Pitagora. Diogene Laerzio, apre le sue Vite dei filosofi, riportando notizie di una lontana origine di un canone sapienziale (poi, in parte confluito nel Corpo Ermetico), antico quattro-cinquemila anni prima dei tempi di Platone. Questo canone amalgamava linguaggio-scrittura con aritmo-geometria e cosmo-magia. Ne parla anche Giambilico il quale vi vede le radici del pitagorismo-orfico e vi fa riferimento Platone stesso, di nuovo, nel Timeo. Per altro, Platone si occupa di egiziani e delle “antiche radici” del sapere anche in Fedro, Filebo e nell’ Epinomide. Anche Aristotele vi fa riferimento in Metafisica sostenendo che matematica-geometria-astronomia originavano da lì anche seguendo Isocrate che sosteneva che la “philo-sophia” (la prima comparsa certa nei testi greci del termine è appunto in Isocrate) fosse stata insegnata dagli egizi a Pitagora e da questi importata nell’ambito greco. Marx giudicò l’intera Repubblica, una idealizzazione del sistema delle caste egizie piantato sulla divisione del lavoro e si noti che nel Busiride di Isocrate (scuola ateniese concorrente con quella platonica), composto prima le ipotetiche prime stesure di Repubblica, questo richiamo alle tradizioni egizie è del tutto esplicito e chiarificatore.  Da Erodoto a Pausania, sono decine le testimonianze antiche di questa discendenza. Ma la rifondazione della tradizione occidentale ariano-romantica, che si sovrappose a quella ebraico-cristiana (sostenute anche dalle infatuazioni rinascimentali, non meno euro-centriche) , tese a recidere tutti i legami con ciò che proveniva da prima del -700, -800 (non si va più in là di Esiodo-Omero, tra l’altro, posdatati). Il simbolo dell’Occidente è Atena (non a caso bionda e con gli occhi azzurri in alcune versioni), nata già adulta ed armata. La narrazione delle origini della filosofia dagli Ioni di Mileto, segue questa impostazione di -Greci principio d’Occidente non principato (ex nihilo)-.

[5] Diogene Laerzio (Vite dei filosofi, Vol I, Laterza, 2003) ad esempio, riferisce che Aristosseno (peripatetico) affermava che larghe parti della Repubblica, fossero  state diciamo così “copiate” dalle Antilogie di Protagora. Lo stesso di Aristosseno avrebbe affermato Favorino di Arles (ma il giudizio era forse interessato essendo un neo-sofista).

Platone fa raccontare proprio a Protagora (nell’omonimo dialogo) il mito del senso della giustizia distribuito da Ermes per conto di Zeus a “tutti quanti”, proprio quel senso della giustizia che fa da filo rosso alla ricerca della Repubblica. Ma quel filo rosso che Protagora immagina legare “tutti quanti” e che porta alla democrazia, nell’elitista Platone diventa il fiocchetto che premia uno solo: il re-filosofo, l’Uno-Bene. cop 6yh98Nella nota precedente abbiamo citato il Busiride di Isocrate (scritto un decennio prima della Repubblica e che si trova su Google libri nell’edizione di Labanti del 1813, da pg.61) dove il sistema della divisione del lavoro, con tanto di custodi guerrieri e filosofi-re è presentato in forma esplicita. Pare fosse generalmente noto, ai suoi tempi, che Platone avesse tratto quella costruzione dalla tradizione egizia e che lo stesso Platone, indispettito da questi rilievi, invertì la causalità storica nel Timeo, affermando che gli egizi discendevano da più antichi greci.

DL poi, riferisce anche che, ancora in vita, Socrate avrebbe esclamato “Per Eracle! Quante menzogne mi fa dire il giovinetto” all’ascolto di una pubblica lettura di Platone.

[6] C’è anche la possibilità che l’autore Platone possa essere sfumato e che i dialoghi, in taluni casi, riflettano esercizi dialettici collettivi in seno all’Accademia. Questo, oltre a riquadrare le numerose incongruenze delle opere scritte, metterebbe nella giusta posizione il filosofo che non credeva più solo bastante l’insegnamento orale ma non credeva possibile divulgare l’intero suo pensiero nella forma scritta. L’idea che l’Accademia fosse un think tank di cui Platone era il perno, non è stata portata alle estreme conseguenze come via interpretativa. Eppure le numerose aporie, il tornare indietro su certe convinzioni, il mutare angolo visuale su problemi già nettamente definiti diversamente, troverebbero così una sistemazione logica ed oltretutto, un accordo con ciò che lo stesso Platone dice più volte a proposito della comunità di pensiero, del dialogo-dialettica, dell’orale-scritto, sulla ricerca sempre aperta, nonché dar ragione della sua poliforme discendenza (dogmatica, scettica, teologica) etc. . Inoltre la struttura dell’Accademia non era sul modello Cristo e dodici apostoli, c’erano filosofi fatti e formati con idee in parte diverse da quelle di Platone e non solo “discepoli”. Ad esempio, il famoso “argomento del terzo uomo” che inizia la discussione del Parmenide, dialogo nel quale appare un “giovane Aristotele” che l’autore si premura di specificare essere non colui che poi sarà filosofo, è proprio l’argomento con il quale l’Aristotele filosofo a noi noto, inaugura la sua critica radicale al sistema delle Idee in Metafisica. L’ipotesi interpretativa sulle “dottrine non scritte”, si accorderebbe con questa ipotesi generale.

canfora vf4[7] Ricostruire questa vasta influenza non è qui possibile. Per farsene una idea, si dovrebbero seguire le linee dirette (quelle rintracciabili nella Storia della filosofia “ufficiale” ma anche in quella sotterranea che rimbalza dall’ermetismo alla Kabbalah, alle varie riprese del neoplatonismo pitagorizzante, di certa magia “bianca” e dell’alchimia fino a Newton) ma anche quelle indirette poiché ad esempio, la separazione mente-corpo (attribuita nel moderno a Descartes) ebbe effetti più ampi di quanto non si legga in filosofia, così per il concetto di “anima” e per molto misticismo cristiano. Così per l’atteggiamento idealista o la convinzione che vi sia una meta-struttura matematica del mondo che ritorna con la celebre dichiarazione di Galilei sul libro della natura. Così per tutte le forme di elitismo dei migliori (che troviamo addirittura in Nietzsche che passa altresì per un suo critico) che ricorrono dai Rosacroce alla moderna Massoneria o per l’assunzione di una “etica dalla natura”. Comunisti della domenica hanno addirittura trovato corrispondenze tramite lo statuto dei “guardiani” della Repubblica, il monumento concettuale ad ogni forma di società iper-gerarchica.

[8] La piramide è un apriori che Platone riceve dalla mistero-aritmo-sofia pitagorica, la quale, a sua volta, la trae probabilmente dall’antica sapienza sacerdotale egizia. Ciò che è (ontologia – livello base) è oggetto della nostra conoscenza (gnoseologia – livello intermedio) ed entrambi tendono all’ Uno – Bene (assiologia – livello cuspide). E’ questa la longeva metafora di orientamento delle relazioni Io – Mondo (l’Io si impone sul Mondo) ed Io – Altri (alcuni Io s’impongono “naturalmente” su gli altri) che intesse il modo occidentale di stare al mondo. A seconda che il “sacerdote della piramide” parli di Re, Dio o Idea, diventa politico, teologo o filosofo.

[9] Sul vantato “parricidio” di Parmenide (Sofista) chi scrive ha idee personali. In verità non ci pare Platone si riferisse allo stesso oggetto del pensiero parmenideo. 444442In Parmenide l’essere che è Uno e non può -non essere- è l’olon, il Tutto. Il Tutto è Uno e siamo noi a suddividerlo in contraddizioni oppositive (posizione non diversa da quella di Eraclito che però parlava di logos). Platone invece ha tutt’altro problema, quello di contrastare gli assurdi sofistici i quali però, come poi Platone, si riferivano all’Uno individuale, alla specifica cosa che è o non è. Il perché la critica conformista sia unanime nel ripetere e ripetere di questo presunto “parricidio”, solo di sfuggita citando la differenza non da poco tra “essere assoluto” ed “essere relativo”, rimane un mistero dell’ermeneutica platonica.

[10] Si noti l’assurdità del ragionamento ripetuto senza piega in tutte le sinossi critiche su Platone: poiché ciò che diviene è non essere e del non essere non ci può esser conoscenza, allora… . Ma noi nel Mondo non partecipiamo all’astratto campionato della conoscenza, noi abbiamo la facoltà conoscitiva per conoscere il Mondo, è la conoscenza a doversi piegare al Mondo, non il Mondo ad essere ibernato, unificato, semplificato per entrare nelle formine delle nostre ridotte facoltà cognitive. Tra i tanti miti proposti dall’ateniese, ci sarebbe stato bene il Letto di Procuste. Infine, per recidere ogni possibile relazione tra Io e l’orrido Mondo, quando giungiamo alla verità non è perché l’apprendiamo nella relazione tra noi e Mondo, ma è perché ci “ricordiamo” (anamnesis) di essere frammenti di eternità momentaneamente caduti, angeli smemorati di passaggio nel Purgatorio terrestre. Questa “favola bella” c’illuderà per secoli, lasciando il campo ai Pochi intenzionati e decisi che costruiranno il paradiso in terra per loro, su quello che è  l’inferno per noi.

storiae4b[11] Si noti che poiché solo delle Idee e degli enti aritmo-geometrici è possibile conoscenza certa e vera, con ciò s’impone il doppio canone dell’idealismo semantico (filosofico) e sintattico (matematica). Tutto il moderno matematicismo (e molto logicismo) è fondamentalmente idealista. La più recente versione di ieratica casta sacerdotale del Vero come è vero che 2 + 2 fa 4, sono gli economisti i quali dicono senz’altro la verità interna (corrispondenza auto-logica dati gli assiomi di partenza) nei loro algoritmi descrittivi e predittivi. Peccato che la loro verità non abbia alcuna attinenza con la realtà. Come per i preti del Medioevo, accendendo la televisione ed ascoltando questi Grandi Interpreti del Mondo, si  può assistere a quel rito apparentemente inspiegabile che è la “sospensione di massa del buon senso”. Come nelle prediche medioevali, la Provvidenza non è che non funziona più (la mano invisibile del mercato), siamo noi peccatori a neutralizzarne l’azione perché commettiamo troppi peccati (debiti, lavoriamo troppo poco, siamo troppo rigidi socialmente, non ci predisponiamo al sacrificio).  Pentiamoci! Forse certi annunci squillanti come quello di Weber sul disincanto o quelli di Nietzsche sulla morte del dio, hanno celebrato eventi della forma ma non della sostanza. Il pensiero magico-teologico non è solo una forma culturale ma anche genetico-mentale.

[12] La dialettica platonica è la riforma del dialogo. Dialogo è logos tra due, è intrinsecamente relazione, la verità è intrinsecamente relativa ai due ed alle loro facoltà di accordo, all’accettazione della convenzione che li lega. La dialettica platonica è mostrata come dialogo, ma in realtà è un docente (Socrate) che invita un discente, ad usare la scala “apri-chiudi” dei concetti, salita la quale si giunge alla “Verità”. cop n78tùLa dialettica platonica è come il cursore delle cerniere lampo. A scendere apre due corsi (di cui uno da non seguire, l’altro sì), a salire, unifica i due in uno, fino all’uno più Uno che c’è, il Bene. La dialettica hegeliana è solo all’in su e promette, semplificando, che da A e non A venga fuori B. Da un certo punto di vista sono utili al pensiero inter-soggettivo ed alla relazione conoscitiva di Io e Mondo, tutte e due. Diventano dis-utili quando si assumono come metodo unico ed infallibile per coartare il Mondo alle nostre esigenze di dominio cognitivo. Nel trattarli come “strumenti” o come “leggi del pensiero” passa la differenza tra la loro utilità e la loro dis-utilità.

[13] In generale quel pensiero che “…obbliga l’anima a servirsi della pura intelligenza per attingere alla verità in quanto tale” Repubblica, VII 526B.

[14] C’è una differenza essenziale tra il Socrate storico e il Socrate del ventriloquo Platone. Quello platonico parla solo ad una ristretta cerchia di “eletti” in grado di partecipare ad un dialogo chiuso entro delle convenzioni condivise. Quello storico parlava al mercato, curava la polis non l’élite della polis. Nel rimproverare a Socrate la sua liberalità ingenua, il suo pensare di poter parlare del Tutto con tutti, invece che coi Pochi, Platone mostra di non aver compreso affatto l’idealità sincera e popolare della missione socratica.

[15] Per spendere una ultima, positiva, parola su Platone, bisogna dargli atto che una nuova consapevolezza emerse nel suo pensiero laddove ipotizzò la necessità di una sorta di federazione delle poleis, della fine della guerra interna in Grecia, di un ordine appunto “complesso” in luogo della riduzione ad Uno quale poi opererà Alessandro. 21237_17127_popper1_ImagePer altro convinzione dei suoi tempi, condivisa da Isocrate. Purtroppo questa intuizione non poteva retroagire sulle sue idee sull’ordine sociale perché la sua costituzione aristocratica, confliggeva con questo pensiero. Inoltre, Platone come molti pensatori politici (ad esempio Marx), non è poi così utopico come si ritiene. La parte politica di un pensatore è sollecitata sempre dalla contingenza. La disfunzione democratica e tirannica per l’Atene platonica, darsi leggi e costituzioni scritte e certe in luogo dell’arbitrio dell’Uno per Aristotele, il buono e cattivo governo dei principati per il Machiavelli, il tutti contro tutti dei clan anglosassoni per Hobbes, dar ragione della proprietà come diritto di natura a sostegno della legittimità del Bill of Right per Locke, la tensione strutturale delle ineguaglianze per Rousseau, tensioni non risolte che poco dopo sfoceranno nella Rivoluzione francese, il ritardo nella costituzione di uno stato unitario nella Germania di Hegel, l’opportunità di infilarsi nel turbinio rivoluzionario di metà XIX° secolo per dar soluzione dell’infinito problema del dominio dell’uomo sull’uomo per  Marx. Il filosofo politico, anche il filosofo utopico con un programma di cambiamento radicale, come ogni uomo, vorrebbe vedere le soluzioni in atto, vorrebbe vedere il suo pensiero agire al presente, ma la complessità dei cambiamenti, maggiore tanto maggiore è l’entità e profondità del cambiamento richiesto, gli nega questa possibilità. Il filosofo utopico, che è una specie del genere “politico”,  è al servizio di una lontana posterità, ma raramente riesce ad estraniarsi dalla sua contemporaneità. Così come i fenomeni si leggono nella “lunga durata” (F. Braudel) in ciò che sono stati, dovrebbero esser immaginati nella lunga durata per ciò che si auspica potranno o dovranno essere. Dal dominio dell’uomo sull’uomo non se ne esce facendo la rivoluzione.

Informazioni su pierluigi fagan

64 anni, sposato con: http://artforhousewives.wordpress.com/, due figli, un gatto. Professionista ed imprenditore per 23 anni. Negli ultimi venti e più anni ritirato a "confuciana vita di studio", svolge attività di ricerca multi-inter-transdisciplinare da indipendente. Il tema del blog è la complessità, nella sua accezione più ampia: sociale, economica, politica e geopolitica, culturale e filosofica. Nel 2017 ha pubblicato il libro: Verso un mondo multipolare, Fazi editore. Ogni tanto commenta notizie di politica internazionale su i principali media oltre ad esser ripubblicato su diverse testate on line. Fa parte dello staff che organizza l'annuale Festival della Complessità e pubblica su specifiche riviste di sistemica. Tiene regolarmente conferenze su i suoi temi di studio, in particolare sull'argomento "Mondo e complessità". Nel 2021 è uscito un suo contributo nel libro collettivo "Dopo il neoliberalismo. Indagine collettiva sul futuro" a cura di Carlo Formenti, Meltemi Editore. A seguire: "Europa al bivio. Tra radici e sfide" a cura di Vincenzo Costa, Marcianum press, 2024 Venezia e "L'era multipolare: competizione o cooperazione" a cura di Gabriele Germani, La Città del Sole, 2024, Napoli.
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4 risposte a CONTRO PLATONE. L’Uno e il Complesso.

  1. Marco ha detto:

    Buongiorno,
    mi sono imbattuto casualmente nel Suo blog.
    Mi ha subito colpito la Sua scelta esistenziale, sintomo di intelligenza e di onesta esigenza di ricerca (che dovrebbe essere propria di ciascun uomo, in quanto platonicamente “filosofo” nella sua essenza ovvero cercatore del sapere e quindi della verità… mentre la società esige meri “esecutori” e “strumenti” del sistema – quale che sia tale sistema – i quali deleghino, da un lato, ad autorità terze e nei giorni non-lavorativi la gestione del mondo spirituale, cioè della essenza intima dell’esser-uomo, e dall’altro alle scienze particolari il responso sulla verità del mondo fisico):

    Ciò detto, non convengo su vai punti del Suo scritto, e mi permetto di esprimere le mie perplessità (cercherò di leggere il più possibile dal Suo blog, per ora prendo in analisi il presente articolo).
    Sono anch’io uno che ha studiato e si interessa di filosofia. Non sono nessuno di speciale.

    Allora, anzitutto, non condivido una visione (spesso invalsa) di un Platone “dualista” o, viceversa, “riduzionista”.
    In Platon e, a mio avviso, non vi è un “mondo” qui ed un “intelligibile” là… la, dove?
    Il termine utilizzato da Platone è emblematico: iper-uranio, ciò non “nel cielo” ma “oltre il cielo” stesso… ossia, l’intelligibile (le idee quali condizioni di possibilità e di pensabilità di questo “mondo”) non può stare in alcun luogo, né terra né cielo, cioè non sono determinabili come un “qualcosa”, in senso cosale o locativo, perché sono principi determinanti (non determinabili).

    Sarò un po’ schematico, per non essere prolisso, ma spero di farmi intendere.
    Riprendo alcuni Suoi passaggi, e appongo una mia riflessione.

    Intanto, il mondo ideale non coincide con l’Io: è colto dall’io ossia dal pensiero del soggetto, ma non come una sua “produzione” bensì come una sua “invenzione” (in senso latino, invenire = trovare, vedere quel che è).
    L’immagine, più chiara di ogni mia parola, che utilizza Platone stesso nella Resp. è quella della luce: è in virtù della luce (idea) che sia strutturano tanto il soggetto (pensiero, io) quanto l’oggetto (il pensato, le cose conosciute, empiriche od anche ideali… anche per le seconde, vi è una luce suprema, quella dell’Uno-Bene cioè della unità-con-sé ovvero della identità-con-sé senza di cui nulla, cosa o concetto sarebbe pensabile e definibile)

    Inoltre, Uno, Vero, Eterno, Assoluto… non “riducono” sopprimendo rispettivamente Molteplice, Errore, Divenire, Relativo.
    Ne costituiscono la condizione di possibilità, il fondamento richiesto necessariamente.
    Vale a dire: “Molteplice, Errore, Divenire, Relativo” assolutizzati, autonomizzati non sussisterebbero.
    O, viceversa: è possibile cogliere il “Molteplice, Errore, Divenire, Relativo” solo NEL “Uno, Vero, Eterno, Assoluto…. cioè non si tratta di due atti di intellezione (in cui uno sopprima l’altro) ma di un MEDESIMO atto di pensiero.

    Altro appunto:
    la spiegazione del pensiero di un filosofi sulla base della sua situazione storica, delle sue vicende personali ed esistenziali (come, per dire, del suo presunto inconscio) non sono spiegazioni accettabili, perché non sono rigorose: dove sta il nesso necessario di causalità tra la situazione politica ateniese ed il pensiero di Platone? dove sta il vincolo innegabile tra le ambizioni personali dell’uomo-Platone con il pensiero di Platone, che è bensì portato alla luce ed espresso dall’uomo-Platone ma, in quanto pensiero, NON risponde alle esigenze dell’uomo bensì alla logica ferrea del Logos (“Non ascoltando me, ma il Logos… diceva Eraclito; “Laddove il Logos come vento ci conduce, là dovremo dirigerci” scrive lo stesso Platone).

    Platone “propenso alla mitizzazione”?
    Ma se i suoi miti sono quanto di più difficile da spiegare sino in fondo per il pensiero “logico” (cfr. il mito della Caverna)
    Platone “visceralmente anti-democratico “?
    Come potrebbe asserire che “ogni uomo è filosofo” se ritenesse che solo alcuni fossero “predestinati” alla visione della verità? Certo, non basta essere uomini fattualmente (uomini “già fatti”, così come ci troviamo ad essere…) per realizzare la propria umanità, la propria “vera” umanità: è richiesto uno sforzo di “purificazione”, che tutti possono fare, ma debbono farlo ciascuno autonomamente, nessuno può farlo per conto terzi.

    “[…] con la sua convinzione che gli uomini abbiano bisogno di essere comandati dai pochi che sanno (le élite)”
    Non dimentichi che la polis (ed il suo governo) sono un riflesso della Psyché per Platone: quindi gli aristoi (migliori, élite) sono una immagine della parte migliore (razionale) della anima di ciascuno di noi… non sono un’avanguardia leninista!
    Inoltre, i governanti-filosofi per lo più non hanno alcun interesse per il potere, e dovranno spesso venire costretti ad assumere il governo.
    Ed essi stessi non sono dei predestinati o aristocratici per patrilignaggio o per ius sanguinis, ma sono stati educati duramente allo studio e alla ricerca della verità… alla “visione dell’intero” direbbe Platone (e tale visione, in ambito pratico, è propria appunto della techne basiliké che è l’arte della politica… altro che economisti al governo, o economia – oikos-nomos, governo dell’ambito privato, luogo dei bisogni e non della libertà – come unico criterio dell’agire politico!).

    “[…] con la sua certezza nella Verità, Unica-Semplice-Assoluta”
    Primo: certezza non coincide affatto con verità (certezza è ritenere-per-vero soggettivamente, verità è innegabilità oggettiva), quindi la locuzione “certezza nella Verità” è ambigua, se si fa della verità un “contenuto” dell’esser-certi.
    Secondo: non è un a”decisione” di Platone l’essere unica-semplice-assoluta da parte della Verità!
    Lei ammette verità plurali (molte, complesse, relative)? Ebbene, per quale ragione e con quale diritto le denomina tutte identicamente “verità”? se non in virtù del riferimento ad una Verità unica ed assoluta.
    Tutto è relativo? Ebbene, tutto tranne questa affermazione, che quindi è contraddittoria (afferma in senso assoluto la relatività di ogni affermazione).
    Si badi: ciò non significa che la Verità sia conoscibile-determinabile… significa “soltanto” che è necessaria.
    Appunto, necessaria in sé, non perché così volle Platone.

    “Sicuramente, letta e studiata a fondo, la sua opera completa è assai più problematica ed aperta di quanto non abbiano sedimentato certe sue interpretazioni.”
    Appunto!

    ” tutta la sua opera è alla ricerca di definizioni delle essenze, delle fatidiche “Idee” al cui punto non arriva mai in modo chiaro e conclusivo, che i vantati dialoghi sono per lo più estenuanti contorsioni logiche monologanti appena intervallate da ammirati”
    Appunto… la sua opera è autentica ricerca, libera critica problematica.
    Non è una summa dogmatica!
    Il dialogo non è solo forma, ma è sostanza: costringe i lettori anche odierni a rifare il percorso speculativo, di ricerca, che svolse Platone (dialogando con se stesso).
    E, magari, a problematizzare lo stesso detto e scritto platonico.

    “dei “dico-non-dico” il cui nocciolo starebbe in dottrine non scritte ”
    Ecco il punto.
    Ed ecco il fraintendimento storiografico, causato da un approccio non integralmente teoretico alla filosofia di Platone (e di chiunque altro).
    Non ha alcun senso cercare in sede storiografica “agrapha dogmata” tenuti nascosti dall’autore… le dottrine non-scritte sono le dottrine non-scrivibili, cioè solo IL pensiero che ha scritto le dottrine scritte!
    Il pensiero non può tradursi mai interamente in uno scritto (Gentile direbbe: il pensiero-pensante è sempre soggetto e non sarà mai oggetto cioè un pensiero-pensato)!
    La Epistola VII è chiarissima, in tal senso.
    La indefinibilità dell’Uno-Bene altrettanto.

    Un pensiero più “complesso” del pensiero platonico ed insieme più “semplice” (quanto al fine a cui esso tende) è difficile da reperire.
    Consideri dialoghi come il “Sofista” o il “Parmenide”…
    Il Suo ragionamento di seguito è, sul piano logico, un diallele o una petitio principii: “La conclusione annunciata sarà che il pensiero complesso che unico può darci speranze di adattamento alla grande complessità del mondo nel quale ci è capitato vivere”.
    Dunque, Lei sostiene che il pensiero debba essere complesso perché la realtà è complessa…
    Ebbene, cosa Le dice che la realtà è complessa?
    Dovrebbe dirglielo il pensiero della realtà… ma per Lei prima viene la realtà (che sarebbe complessa, ma non si capisce come si possa venirlo a sapere), e poi il pensiero che sarebbe autentico pensiero solo adeguandosi alla previa complessità della realtà, corrispondendo così al suo termine intenzionale (cioè la realtà).
    Ossia, sintetizzando:
    il pensiero deve essere complesso perché la realtà è complessa [solo così è autentico pensiero], ma che la realtà sia complessa me lo rivela solo il pensiero [in che modo, non si sa… visto che il pensiero non è ancora autentico, finché non si fa complesso…].
    Dovrebbe, allora, essere una intuizione immediata: ma intuizione è propriamente “pensiero non-complesso”….
    Mi aiuta a venirne a capo?

    =================

    “Platone affronta il dramma della relazione Io – Mondo dei suoi tempi, inventando una religione, la religione delle Idee.”
    Ora, non so cosa Lei intenda per “religione”, ma se si intende, sul piano gnoseologico, un corpus dottrinario dogmatico, allora la teoria delle idee sono l’esatto opposto.
    “Idea” significa semplicemente “visione”.
    La teoria delle idee non è una sovrastruttura che copre il mondo, sono la visione concreta (vera) del mondo come tale.
    Non un punto di vista parziale o ipotetico o dogmatico sul mondo, ma ciò che mi rende visibile ed intelligibile il mondo come tale.
    Sono la “struttura” del mondo, la trama logico-ontologica nella quale ogni possibile “mondo” può darsi… per ciò, la “struttura” (condizione di possibilità) del mondo trascende il mondo, ovvero non coincide con il mondo che, di volta in volta, ci troviamo davanti!

    “non a tutti è permesso elettivamente di partecipare della perfezione”
    Certo, lo spiegavo sopra… se uno non si sforza di elevarsi, non gli può venire garantita l’elevazione (è libero di restare ad un livello più basso, nessuno lo discrimina).
    Ma tutti, se si rendono conto di “doverlo” fare, possono elevarsi, cioè realizzare la propria essenza, cercare la Verità che è anche la “mia” verità cioè la verità del mio essere, del mio esistere!
    Il maestro filosofo (così anche il governante filosofo) non impone nulla a nessuno, non perché non voglia… ma perché non può: se non avessi dentro di me tale esigenza di verità, nessuno potrebbe infondermela, questo il senso della maieutica.
    La quale risveglia l’esigenza di elevazione ma non la compie, perché l’atto di elevarsi è disponibile a chiunque ed è sempre e soltanto possibile in prima persona.

    ““Lo penso, dunque è”[13], questa è la nevrosi idealista, darsi ragione da soli nel privato del propri pensiero. Scollegare il pensiero dal Mondo…”
    Nient’affatto.
    Non dar-si ragione, ma dare ragione di tutto ciò che si dice (non lasciare nulla di presupposto, fuori questione: questi sono i Logoi, non una fuga dalla realtà!!!)
    La realtà non è perché la penso, ma è solo mediante (attenzione ai termini!) il pensiero.
    Ciò che intendessi affermare “saltando fuori” dal pensiero, sarebbe mero presupposto, dogma, religione… i quali non valgono per sé, ma per chi li afferma (questi sono anti-democratici, non la verità nella sua assolutezza!).

    “Dar ragione del moto come desiderio di stare immobili, del molteplice come singolarità…”
    Di nuovo, per nulla.
    Come dicevo: l’immoto è condizione di pensabilità del movimento.
    Un movimento assoluto è una contraddizione: in quanto assoluto dovrebbe diventare anche non-movimento.
    Un relativo assoluto è tanto relativo quanto assoluto: contraddizione.

    Quando Lei pensa al movimento di qualcosa, deve “tener fermo questo qualcosa come soggetto del divenire, altrimenti se questo qualcosa divenisse altro-da-sé, non vi sarebbe nemmeno movimento (ma, al più, stati di cose frammentari, irrelati, fotogrammi sconnessi).

    “Principio di riduzione. L’unione tra ciò che noi pensiamo del come la cosa è e del come la cosa deve essere ed è bene che sia, porta a scambiare il nostro riduzionismo naturale, dovuto a ragioni di economia cognitiva a fronte dell’immensità del conoscibile, con una legge delle cose, del come sono e del come è giusto che siano. Il complesso è apparente, in realtà è semplice””
    Se c’è qualcosa di inconoscibile… è proprio il Semplice, l’Assoluto!!!
    Mi dica: che definizione fornisce Platone dell’Uno-Bene?
    Le rispondo io stesso: non la dà.
    Perché esso è il principio di ogni possibile definizione, conoscenza.
    D’altra parte se l’assoluto è ciò che è in sé,non determinato da altro da sé, è chiaro che non può essere oggetto di conoscenza (“oggetto” è per def. ciò che è determinato da un soggetto)… ogni conoscenza sarà costitutivamente insufficiente e ci spingerà a altre conoscenza, asintoticamente rispetto all’Assoluto-Semplice-Vero.
    Nella consapevolezza che ogni sapere (conoscenza) non è e non può essere IL sapere (conoscenza della verità): nella consapevolezza (democraticissima, egalitarissima) che tutti ci troviamo in un Sapere di non sapere.

    “Producendo concetti con parole e ritenendoli mattoni solidi, si può poi edificare qualsiasi edificio e darselo come destinazione concreta, immodificabile, vero in sé, reale perché ideale, quindi razionale”
    Il Concetto non è una realtà fattuale vs un’altra realtà fattuale, è il coglimento della “”struttura razionale (=Intelligibile)” di ogni realtà che possa darsi, realizzarsi.
    La “razionalità” della realtà spesso non coincide con la realtà esistente: se, esempio banale, una casta al potere non ha più il consenso del popolo perché si è scollata dalla logica del momento storico, essa sarà di fato ancora al potere ma, realmente-razionalmente, è già un potere finito, superato.
    Pensi alla Rivoluzione francese… ma molti sono gli esempi.

    “Rifiuto dell’impermanenza. Dare dignità filosofica alla pulsione umana di negare la morte è la più pietosa bugia che il nostro primo tratto del pensiero che pensa se stesso (quello che arriva fino alla modernità) ha difeso con pervicace disonestà intellettuale. Nulla in natura sembra che continui ad essere in eterno o all’infinito. Tutto ciò di cui abbiamo avuto ed abbiamo esperienza, ci dice il contrario. ”
    Quale “”esperienza”?
    Sensibile, intellettiva?
    Vede che, ancora una volta, dà per scontato (presupposto) ciò che scontato non è… esattamente quello che Platone mai fa.
    Anche qui, non intendo esser cerro io l’esegeta di Platone, ma non ritengo che il pensatore ateniese intendesse l’immortalità dell’anima come il permanere di una sostanza (anima) dopo la morte.
    Penso che intendesse, piuttosto, rilevare (razionalmente) che il principio di autoconscienza (quello che Lei, riduttivamnete definisce “pensiero che pensa se stesso” come se fosse un prigioniero di una stanza a specchi… autocoscienza non è oggettivare-se-setssi, ma è presenza-di-sé a se stessi o meglio è essere se stessi come essere-presenti-a-sè), dicevo intende anima ovvero autocoscienza come un principio inderivabile (ossia originaria, è da sempre senza inizio né fine) da ciò che in esso ricade (da ogni suo contenuto: mondo, corporeità…etc).
    Senza autocoscienza, nulla potrebbe apparirmi… ma, allora, è l’autocosceinza che permette l’apparire di ogni contenuto (e non il contenuto a rendere possibile, a fondare, l’autocoscienza).
    Quindi se l’autocoscienza p il fondamento del mio mondo e del mio corpo (Platone: “uomo è un’anima che si serve di un corpo”, ossia il corpo è interno all’anima, per così dire, non viceversa), allora il fondamento non potrà subire alcun danno dal venir meno di ciò che essa fonda, non ne seguirà cioè il destino.
    Detto altrimenti: per morire come autocoscienza, dovrei essere cosciente del mio morire… ma, se sono cosciente, non muoio, ergo non posso “assistere” alla (essere cosciente della) mia morte, ma se non ne sono cosciente, essa per me non è, cioè non mi riguarda.
    Ma – si badi – la coscienza NON coincide con il soggetto singolo cosciente.
    Anzi, il soggetto cosciente ricade esso stesso nella coscienza (che chiameremo trascendentale, assoluta) perché anche questo soggetto può divenire oggetto, contenuto della cosceizna: infatti, io posso essere cosciente d me come soggetto determinato esistente, ma nella misura in cui mi faccio oggetto postulo una coscienza che mi eccede in quanto singolo soggetto empiricamente esistente e pensante.
    Ciò che non potrò mai fare oggetto di coscienza è la coscienza stessa (l’esser-cosciente), cioè il pensiero autocosciente.
    Il mio io finisce, la coscienza no (perché “precede” logicamente e ontologicamente il mio stesso io, solo “per” la e “nella” coscienza io posso pensare anche me stesso… almeno quel “me” determinato, empircio, questo-qui-che-sono, adesso mentre scrivo, e so di essere questo-qui-che-scrive).

    “Questo atto mancante ci avrebbe altresì responsabilizzato sul come far della vita l’unica cosa che conta veramente per noi, non sprecandola e non riempendola di “attesa della morte”, immersa in diluvi di parole.”
    Infatti, Platone non ha mai parlato di un avita “dopo” la morte (neppure Cristo, a ben vedere… e lo dico da non credente), ma di un avita “oltre” la morte.
    Cioè un principio vitale, una dimensione (chiamiamola anima, spirito, pensiero, coscienza…) che non coincide mai con la vita vissuta, con la fattualità, con le configurazioni e le dimensioni dell’esistenza c.d. “concreta”, materiale, empriica.

    “Rifiuto del divenire. L’ostinata negazione della morte, necessita della svalutazione di quell’essenza ontologica invisibile che porta tutte le cose a trascorre il tempo da un punto prima ed un punto dopo, prima e dopo dei quali le cose e noi stessi, non siamo.
    9788833905990
    Noncurare il divenire significa resistergli in modi paradossali, significa subirlo e non guidarlo, significa rifiutare il cambiamento e non auspicarlo. Significa perdere visione storica dell’umano, relativizzarne i contesti temporali, essere pronti a ridiscutere le verità eterne, recalcitrare ottusamente per non seguirne il flusso, fissare lo sguardo all’indietro.”
    Nient’affatto.
    Significa, al contrario, abbracciare con lo sguardo il divenire in quanto tale, significa non essere contenuti nel limite del finito che segna il divenire, ma essere proiettati sempre oltre ogni limite, ma senza rimuoverlo, nasconderlo, celarlo… ma stare-sul-limite essendone coscienti (e la coscienza è oltre-passamento del limite, in senso hegeliano: negandolo e conservandolo, non eliminandolo o annullandolo).
    La coscienza, senza di cui, nessun limite apparirebbe tale, non può subire il limite di cui è coscienza: io vedo (sono cosciente di ) qualcosa se sono distinto da quella cosa che vedo, se non sono tutt’uno con essa, quindi non ne sono condizionato nel senso di dipendente.

    “Disadattamento, che nel rifiuto della realtà che inesorabilmente diviene “altro”, porta alla morte delle civiltà e delle civilizzazioni con “noi” dentro.”
    Emanuele Severino (di cui non condivido il pensiero, per molti aspetti) Le direbbe che è proprio il “diventar altro” che implica la morte:
    che A divenga B, implica che A si annulli come A cioè muoia (ovvero non sia più se stesso) e risulti essere B.

    Ma per Platone il divenire-altro, lo stesso esser-altro si svolge tutto nell’essere, perché il non-essere non è altro dall’esser ma altro nell’essere, cioè è un essere-diverso: in questo avviene il c.d. “parricidio” di Parmenide, del monismo ontologico eleatico. (Noto che in tale “parricidio” Platone non aveva minimamente in mente di “uccidere” metafisicamente l’Essere parmenideo (la cui assolutezza permane nell’iperuranio platonico in particolare al suo vertice che si colloca “epekeina tes ousias” cioè “oltre ogni sostanza (o determinazione, o presenzialità)”… più assoluto di così!), bensì di “uccidere” l’uccisione parmenidea del mondo, delle differenze, delle diversità… che, appunto, Platone salva come non-essere relativo cioè come essere-altro, come negazioni interne all’Essere e non opposizione assoluta all’Essere (che, appunto e giustamente, Parmenide escludeva).
    E la diversità è illimitata e d illimitabile (negare la diversità è far esser un altro diverso, cioè ancora diversità).
    Se questo Le sembra riduzionismo… o “rifiuto della molteplicità e dell’Altro” !!??

    ” La molteplicità negata è la premessa per l’impero dell’Uno…”
    La molteplicità “si nega” in un solo modo: assolutizzandola.
    Se vi fosse solo il Molteplice, non vi sarebbe nemmeno il Molteplice… perché se ogni molteplice è “altro dal proprio altro”, significa che ogni altro “nega” il proprio altro, e reciprocamente: ossia imploderebbe in una negazione di tutti verso tutti (= una autonegazione del tutto), e nessuno potrebbe “porsi”, cioè sussitere concretamente, perché dipenderebbe dall’altro e l’altro dipenderebbe da ciascuno, in un circolo vizioso.
    Il Molteplice si pone nell’Uno, e questo rende appunto possibile quello, altro che esclusione! (lo “salva” dalla contraddittorietà autonegativa che lo dissolverebbe, esso fonda il “ruolo ontologico della relazione”!).
    L’Uno è il verticale senza di cui non vi sarebbe nessun orizzontale!
    Lei riesce a pensare l’orizzontale in sé?

    “[…] una piramide gerarchica che impone ordine al disordine”
    Di nuovo, si tratta di un rapporto dialettico, ultra dinamico, vitale e vivente.
    Non è possibile pensare al puro (assoluto) disordine, perché pensandolo gli imprimo un ordine (dis-ordine, logicamnete, suppone un ordine di cui sarebbe negazione) , ma d’altra parte, si tratta di un ordine estrinseco, il quale se imposto otterrà un rigetto (negazione) dell’ordine intrinseco delle cose, sicché l’ordine imposto ab extrinseco determinerà un disordine che, in realtà, altro non è che un ri-ordinamento, ma anch’esso non definitivo…e così via.
    Pensi ad un organismo: è un disordine in continuo riordinamento (né disordine né ordine sono mai definitivi o assoluti: assoluto è solo il principio ordinatore – quella che chiamiamo “vita” o “attività” dell’organismo – e tale principio non è nient’altro che l’organismo stesso nella sua interezza viva e vitale, nel suo autonomo autodeterminarsi e superare ogni determinazione che di volta in volta si dà).
    Anche qui, dove starebbe l’irrigidimento, il riduzionismo, l’autoritarimso… non riesco proprio a capire.

    “convenzionalismo che unico effettivamente permette di dialogare sul serio”
    Ma il convenzionalismo è una mera parodia del dialogo: è “mettiamoci d’accordo” mettendo da parte le divergenze… ma il dialogo autentico è proprio sulle divergenze, non è ecumenismo!
    Di più.
    Il dialogo non mira, se è vero dialogo, al prevalere di uno dei dialoganti sugli altri, ma mira SOLO alla verità… mentre il convenzionalismo si “sostituisce” alla verità, ne propone un surrogato a buon mercato (di cui non si sa che farsene se davvero si vuol “pensare”, se non per il quieto vivere, che è esclusivamente “pratico” e “ateoretico” ed è riflesso di una rifiuto di confrontarsi per paura di perdere la propria presunta “identità”, per non mettere in discussione quella forma di assolutismo che è il relativismo delle opinioni personali, perfetto alter ego degli assolutismi dogmatico: e, infatti, non è un caso che tra simili si contrappongano! vanamente).

    “La Verità non è Una, non è Semplice, non è Assoluta, da qui occorre ripartire per trovare un nuovo modo di pensare Io e Mondo.”
    Che ciò si asserito per decreto di un singolo oppure per convenzione, nulla toglie che questa semplicissima verità (che intende negare la semplicità) sia una vuota contraddizione.
    La quale, peraltro, lascia democraticamente aperto lo spazio per una sua negazione anti-democratica, ossia per una (parimenti legittima) affermazione opposta: e questa la si tollererà, nella sua intrinseca intolleranza, oppure no?
    Nell’uno caso come nell’altro, ciò che viene meno è proprio la pretesa democraticità che il “debolismo” epistemico vorrebbe garantirci…

    “Non promuoviamo un “parricidio” di Platone perché non proviamo nessuna pulsione edipica verso la Verità.”
    Per fortuna…

    ” La attuale crisi del modo occidentale di stare al mondo, non è solo la crisi del capitalismo. S’illude chi pensa senza profondità storica.”
    Su questo siamo d’accordo.
    Forse uno dei motivi fondamentali è proprio che questo Occidente attuale è profondamente anti-platonico, senza avvedersi che non si oppone a Platone (in senso efficace, teoreticamente al pari) ma semplicemente crede di poterlo rifiutare.
    Il Capitalismo è ben più figlio di un certo Illuminismo e dell’individualismo (= negazione dell’uno, o sua equivocazione in senso atomistico-assolutistico) politico che del Platonismo, è ben più ateisticamente religioso che filosofico… ma questo è un altro discorso.

    “il dominio dei Pochi su i Molti”
    Platone e neppur eAristotele hanno mai vagheggiato ciò, ma soltanto una costituzione politica capace di rendere “liberi” e quindi “felici” tutti i suoi membri )o almeno quelli che culturalmente all’epoca erano ritenuti cittadini in senso pieno, ma se si supera questo retaggio storico-culturale, potremmo dire idealmente “tutti” i membri dello Stato).

    ———————-

    In conclusione:
    a me sembra che proprio il pensiero di Platone sia complesso in senso vitale (tanto ne contenuti quanto nella forma dialogica, aperta, non definitiva) e sia massimamente complesso per la capacità speculativa di “tenere insieme” Semplice e Complesso, Unità e Molteplicità, Assolutezza e Relatività…
    mentre tal altri pensieri sedicenti complessi, in verità, “riducono” semplicisticamente (cioè astrattamente) la Complessità che vorrebbero rendere, e la riducono proprio contrapponendola alla Semplicità: l’astrattezza è tutta qui, in questa distinzione-opposizione che “presuppone” che il Semplice sia qualcosa che sta di contro al Complesso, e reciprocamente che il Complesso sia di per se stesso autonomamente sussistente.
    In realtà, il rapporto “Semplice – Complesso” è molto più complesso eppure semplice: è una distinzione non analitica (di qua l’uno, di là l’altri), bensì una relazione di tipo “dialettico” (l’uno implica l’altro, ma non stanno sul medesimo piano gerarchico, essendo l’uno il fondamento o condizione di possibilità, l’altro il fondato che è pensabile solo sulla base del fondamento ma che, nel contempo, è richiesto dal fondamento stesso come mediazione per pensare proprio il fondamento nella sua assolutezza e necessità).
    Detto in altro modo: il Mondo delle Idee è la condizione di possibilità (possibilità!, non necessità) ed il fondamento sulla cui base possiamo “vedere” (pensare) questo Mondo sensibile, ma il Mondo sensibile è anche richiesto come ciò mediante cui pensare (“ritornare”, dice Platone in termini mitici-metaforici…ma perché il mondo stesso è un a”metafora” ontologica!) il Mondo ideale, appunto perché quest’ultimo non lo possiamo mai avere “di fronte” come un oggetto, poiché ciò che abbiamo davanti è e sarà sempre soltanto un qualcosa di fisico, sensibile, determinato.
    La “luce” (immagine usata nel Mito della Caverna) non è mai un oggetto della visione, oggetti della visione sono sempre e solo cose illuminate dalla luce: ma è appunto riflettendo su tali cose che “recuperiamo” la consapevolezza della necessità che la luce, nonostante non sia visibile (perché acceca) tuttavia sia e debba essere, quale condizione che rende possibile la visione stessa di ogni oggetto visibile, la visione del mondo empirico.

    Ad abundantiam (contro ogni interpretazione che voglia vedere traccia di “riduzionismo”, “”autoritarismo” nel pensiero platonico):
    cosa indica l’idea dell’Uno-bene quale culmine (o fondamento ultimo ovvero primo, insuperabile) dell’ontologia platonica se non la “intangibile” ed “indefinibile” unicità di OGNI cosa, dall apiù piccola ed insignificante alla più sublime?
    Indica che nessuna cosa nella sua essenza è de-terminabile per altro, in rapporto ad altro-da-sé, ma solo per se stessa (= con riferimento alla propria inalterabile identità e unicità).
    E cosa significa che ogni singola cosa è unica, se non che è irripetibile, irriproducibile, inimitabile… eterne (non sempiterna, ma “eterna”: unico evento senza possibilità di ripetizione)?
    E questo sarebbe riduzionismo…!!?? Questo sarebbe un “letto di Procuste” !!??

    Lei scrive, ridicolizzando ciò che non merita né ridicolizzazione né banalizzazione, perché è molto più profondo e potente di quanto Lei colga o voglia far apparire:
    “[…] quando giungiamo alla verità non è perché l’apprendiamo nella relazione tra noi e Mondo, ma è perché ci “ricordiamo” (anamnesis) di essere frammenti di eternità momentaneamente caduti, angeli smemorati di passaggio nel Purgatorio terrestre. Questa “favola bella” c’illuderà per secoli, lasciando il campo ai Pochi intenzionati e decisi che costruiranno il paradiso in terra per loro, su quello che è l’inferno per noi.”
    Non sussiste, a voler essere rigorosi, “relazione” tra noi ed il mondo, perché il mondo è la relazione tra noi e le cose-in-sé, infatti tale relazione è ciò che in termini gnoseologici chiamiamo “oggetto” (oggettuale) ciò la cosa come appare, fenomenicamente, a noi, ma non la cosa come essa è in sé (oggettivo).
    Ma se Lei toglie quel “ricordo” (immagine che deve essere pensata nella sua concettualità, non banalizzata) della “pianura della verità” secondo la metafora del “Fedro” ossia della “cosa” come essa è veramente (non per noi, ma in se stessa), se Lei toglie la cosa in sé, non avrà neppure la cosa-per-noi, il fenomeno… perché ogni fenomeno (ogni punto di vista sulla cosa) coinciderebbe con la cosa stessa!
    L’idea che il mondo fenomenico, l’oggetto sia il “risultato” della relazione tra noi e le cose è talmente stravagante e superata che le recenti scienze cognitive parlano del percetto come di un “costrutto cognitivo” (appunto come una relazionalità tra soggetto ed oggetto, un elemento modellato dall’attività del soggetto, ovvero di una relazione)…

    Infine, due parole su questa nota:
    “[12] La dialettica platonica è la riforma del dialogo. Dialogo è logos tra due, è intrinsecamente relazione, la verità è intrinsecamente relativa ai due ed alle loro facoltà di accordo, all’accettazione della convenzione che li lega. La dialettica platonica è mostrata come dialogo, ma in realtà è un docente (Socrate) che invita un discente, ad usare la scala “apri-chiudi” dei concetti, salita la quale si giunge alla “Verità”.
    cop n78tùLa dialettica platonica è come il cursore delle cerniere lampo. A scendere apre due corsi (di cui uno da non seguire, l’altro sì), a salire, unifica i due in uno, fino all’uno più Uno che c’è, il Bene.”
    No, due volte no.
    Primo: dialogo come processo del dialogare è evidentemente almeno tra due… ma il dialogo come base, fondamento del dialogare (degli intelocutori) è il Logos stesso che si impone attraverso (dia) il discutere ed il confrontarsi dei dialoganti: in Logos come Dia-Logos precede e rende possibile il dialogare degli interlocutore, dialogare che ha come unico scopo il tentativo di manifestare la Verità oggettiva del Logos stesso dalla consunzione reciproca (confutatoria) delle opinioni doxastiche soggettive.
    Secondo: il doppio (meglio: duplice) movimento diairetico-sintetico della dialettica (distinzione-unificazione9 è tutto necessario e di pari dignità, come lo è l’inspirare e l’espirare per la respirazione.
    E’ un unico respiro (atto) che si esplica in due momenti (non si distingue A da B senza anche sintetizzare A con B sulla base di un quindi comune tra i due, non si unifica A con B se non dopo avere distinto il primo da secondo).

    “La dialettica hegeliana è solo all’in su e promette, semplificando, che da A e non-A venga fuori B”
    Oddio, non proprio così…non è che “venga fuori” qualcosa da qualcos’altro.
    Per Hegel A “è” non-A, A e non-A “sono” B (laddove B altro non è che la verità degli opposti A e non-A).
    Per Hegel il concreto non è né solo A né solo non-A ma nemmeno il solo “risultato” (così lo chiama) del processo del divenire, cioè B: concreto è il risultato insieme all’intero processo che ha condotto a tale risultato.
    Per Hegel ogni finito (determinato) è in sé il proprio opposto, quindi ogni finito è contraddittorio.
    Per questo per Hegel il vero essere (spirito, assoluto) è solo l’infinito.
    Il vero è l’intero, quindi i momenti sono veri solo nell’intero e sono veri solo “morendo” come momenti, superandosi, dileguando.

    “Nel trattarli come “strumenti” o come “leggi del pensiero” passa la differenza tra la loro utilità e la loro dis-utilità.”
    Assolutamneto no.
    La differenza è tra la estrinsecità dello “strumemto” (questo sì che manipola la cosa conoscitivamente, perché lo strumento p funzionale ad uno scopo esterno alla cosa stessa), e la “obiettività” del conoscere vero, della episteme come sapere non soggettivo o strumentale ma come conoscenza incontrovertibile che né uomini né Dei possono negare.
    Il vero sapere non è né utile né disutile o inutile, è semplicemente necessario (senza di esso, non potremmo parlare di nulla).
    Dice Platone “Se non conosciamo l’essenza di una cosa, come potremmo parlare delle sue qualità?”… se non so “che cosa è” ciò di cui parlo (che conosco), di cosa parlo, quali altri discorsi derivati potrò mettare in campo se mi manca il fondamento, il il terreno sotto i piedi?

    “[14] C’è una differenza essenziale tra il Socrate storico e il Socrate del ventriloquo Platone. Quello platonico parla solo ad una ristretta cerchia di “eletti” in grado di partecipare ad un dialogo chiuso entro delle convenzioni condivise. Quello storico parlava al mercato, curava la polis non l’élite della polis. Nel rimproverare a Socrate la sua liberalità ingenua, il suo pensare di poter parlare del Tutto con tutti, invece che coi Pochi, Platone mostra di non aver compreso affatto l’idealità sincera e popolare della missione socratica.”
    E dove starebbe questo “rimprovero”?
    A mio avviso, entrambi si rivolgevano a tutti affinché tutti diventassero “élite”, ovvero dessero compimento alla parte migliore di ogni uomo, la razionalità.

    L’idea del Bene, cui tendere, è sì aristocratica ma la era aristocrazia è l’esatto opposto di ogni élitarismo oligarchico… è la “realtà” (tutt’latro che utopia) dell’ideale regolativo, dell’orizzonte che non è raggiungibile, determinabile o reificabile, ma che è “presente” come guida che orienta ogni (sempre insufficiente e mai definitivo) pensare ed agire.
    Anche qualora tutto fosse male, per aver coscienza che il male è male (privazione del Bene), debbo tener ben presente il Bene.
    Se il Bene è presente anche nella sua apparente assenza, significa che esso è assoluto, che non ha opposizione alcuna, che esso è totalità concreta (per usare un gergo hegeliano): non ha opposti e non si oppone a nulla.
    Il Bene (in senso platonico) non è un “progetto rivoluzionario” o un a”utopia”: è una rivoluzione permanente, è una massima concretezza.
    Realizzando il bene, creo disastri? Può succedere, ma il fallimento è della mia realizzazione, non del Bene (il Bene resta inalterato nella sua purezza cristallina, anche nelle peggiori catastrofi).
    Quanto alle accuse (a mio avviso, infondate) di elitarismo, La invito a rileggere e ripensare il moto della Caverna: ma ripensarlo nella sua integralità… finale incluso (anche in rif. alla Sua chiusa che, paradossalmente mi trova concorde, perché spesso le peggiori sottomissioni dell’uomo da parte dell’uomo sono perpetrate da sedicenti “liberatori” che impongono la libertà… una visione parziale della libertà, una visione come “parte” che ha dichiarato espunto il “tutto”, un “relativo” che ha decretato inutile anzi morto l'”assoluto”: “Dal dominio dell’uomo sull’uomo non se ne esce facendo la rivoluzione”).

    Sperando che queste mie rapsodiche e frettolose riflessioni siano gradite (e magari oggetto di dibattito), porgo cordiali saluti.
    Marco

    P.S.
    Politicamente sono di sinistra pure io, se avesse dubbi… anzi lo sono proprio su basi metafisiche, idealistiche (e non storico-materialiste), e perché considero il pensiero (quello autentico) l’unica liberazione possibile da ogni sovrastruttura, e l’unico incondizionato pur nei condizionamenti socio-politico.economici.
    Ma le opzioni politiche con la teoresi non c’entrano nulla.

    • pierluigi fagan ha detto:

      Le riflessioni di Marco sono senz’altro gradite, molto stimolanti poiché sincere, dialoganti e ben circostanziate. Quanto al dibattito, dovrò rifletterle e trovare il modo di dibatterle. Purtroppo un blog non è la forma ideale per tenere assieme un dibattito su una materia così complicata, cercherò una forma condensata pubblica ma mi riservo una risposta privata più articolata. Nell’intanto, grazie per l’attenzione che ha voluto riservare al mio pensiero, ricambierò appena in grado. Cordialmente…

      • pierluigi fagan ha detto:

        La risposta all’intervento di Marco è stata data oggi (06.08) in forma privata poiché non meno lunga del suo già intenso intervento. Chi fosse interessato può chiederne una copia scrivendo alla mail che compare nel blog. Grazie.

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