Prima di giungere al lavoro di A. Badiou con il quale chiuderemo questa trilogia platonica, le cui puntate precedenti sono qui e qui , vedremo altri due aspetti del ragionamento che siamo andati sin qui facendo. Il primo sarà una finestra sulle vicende interpretative della Repubblica negli sviluppi del secolo scorso. Il secondo sarà una messa in luce più specifica del concetto di utopia e progetto, in Platone. Allora, potremo giungere a dire del lavoro del platonico francese e chiudere con un sintetico bilancio complessivo che spiegherà anche il perché di questo piccolo studio, per noi che c’interessiamo di complessità.
H) INTERPRETAZIONI della REPUBBLICA. Una sintetica ricostruzione del dibattito novecentesco intorno a questo testo, è riportato qui da F. Fronterotta. Abbiamo già precedentemente commentato come l’accusa a Platone, di aver col suo pensiero precorso i totalitarismi del novecento, sia in parte inconsistente. Più che altro, in questa tesi, ci sembra fallace l’analisi del totalitarismo e delle sue possibili cause. Oltretutto, se ai tempi dell’accusa di Popper (1945) il liberalismo pseudo-democratico poteva ancora promettersi virginalmente come non totalità anti-totalitaria, nell’epoca odierna fatta di correzioni strutturali imposte dai delegati imperiali del sistema mercatistico-monetario, lo potrebbe fare con molta minore credibilità. Quello che trasforma la civiltà della preghiera nell’Inquisizione, la speranza di un mondo migliore in un mondo grigio, chiuso e paranoico, l’innocenza dello scambiare “liberamente” cose con cose di Montesquieu nella dittatura delle logiche del denaro, non è evidentemente l’ideologia, ma qualcos’altro che i filosofi, sempre meno propensi ad occuparsi di Interi, fanno fatica a capire. Soprattutto quelli che non vogliono mettere in gioco il concetto di gerarchia semplice a governo dei sistemi umani complessi, forma che in versioni più hard e più soft, domina un ciclo di lunga durata che si identifica con le società complesse in quanto tali, da almeno 8-10.000 anni. La più antica a forse migliore analisi sulla degenerazione totalitaria, la troviamo proprio nel testo incriminato, la Repubblica. Essa si forma quando il disordine o la minaccia del suo eccedere e la disfunzionalità che s’accompagna, portano ad una richiesta urgente, acritica e di vasto sentire, di un ordine contenitore-riparatore, non meglio specificato. Lì si ha un inizio, l’inizio di un progressivo irrigidimento che tanto più si irrigidisce tanto meno funziona, tanto più si irrigidisce ulteriormente perché così pensa di prevenire il proprio collasso. Poi collassa. La degenerazione totalitaria è sempre la resistenza cieca, sorda, apriori, ad un cambiamento profondo di cui si ha spavento e paura.
La difesa di Platone da Popper con mossa del cavallo ermeneutico per la quale non si giudica uno ieri con i concetti dell’immagine di mondo dell’oggi, è convincente solo in parte. Sicuramente ai tempi di Platone il concetto di liberalismo moderno ed individuo era estraneo in forma strutturale, ma se il liberalismo popperiano era impensabile, la democrazia era in pieno atto e non nella forma pallidamente imitativa della modernità, ma nella forma piena e storicamente più rilevante. Abbiamo già detto che quella dei tempi di Platone non era la democrazia dei tempi di Clistene e Pericle ma Platone è con tutte le sue forze anti-democratico in assoluto, c’è poco da fare. Avrebbe potuto criticarla, corroderla con gli acidi critici più solventi, radiografarla con l’acribia che gli è propria, ma poi avrebbe certo potuto fare una prescrizione curativa. Invece Platone ritiene la democrazia una forma impropria del Bene proprio nel suo assetto strutturale, incurabile per ragioni forti e chiare, quali si evincono dalla sua filosofia secondo quanto da noi sostenuto nell’articolo precedente. E’ invece curabile la monarchia e la tirannide, l’aristocrazia ed al limite anche l’oligarchia se le si toglie il denaro e si mette il sapere del Consiglio notturno delle Leggi, qualsiasi cosa, ma la democrazia, no! Del resto, lo stesso Popper, pensa quella che lui chiama democrazia, come controllo popolare del fatto che i governanti “non degenerino”, il che nulla ha a che fare con il concetto proprio di democrazia a meno che non si voglia intendere “cratos” non come potere pieno della decisione politica, ma come il porre dei limiti alla decisione politica di un ristretto gruppo. Ma questo è elitismo delegato, non democrazia. Così, più che difendere Platone da Popper, va posto anche questo secondo sotto la luce critica della mancanza di fiducia nell’umana capacità di costruire un vivere associato la cui organizzazione non è delegata ad un ingegnere sociale, ma neanche alla mano invisibile che genera le sue élite di comando. Il punto insomma è sempre autonomia vs eteronomia di qualsiasi tipo.
Aggiungo che lessi Popper molti anni fa e ricordo poco nel dettaglio del suo “La società aperta e i suoi nemici, vol. I, Armando editore, 2003” , per cui non approfondiremo la sua posizione critica che ci porterebbe troppo lontano e che per altro, come detto, ha dei limiti. Ne ero curioso, non per motivi politici, ma per motivi filosofici. Mi domandavo per quale ragione, in quell’agone rissoso e polemico che è la storia della filosofia, non si trovassero tracce critiche di alcuna rilevanza, nei confronti del “divino” Platone. Sospettavo e sospetto vi fosse un corso principale della filosofia occidentale, pervaso, profondamente innervato, geneticamente condizionato dal platonismo. Lo era senz’altro il neopitagorismo e il neoplatonismo a lui successivi e da lui derivati, lo era Paolo di Tarso, la Patristica, Agostino e poi la Scolastica. Certo la Scolastica si rubrica al contrario come problema di convergere la dottrina con Aristotele ma da cosa era innervata la dottrina? e quanto dissidente era Aristotele da Platone? Soprattutto l’Aristotele neo-platonizzato dagli arabi o da Maimonide. E che dire della filosofia medioevale dei francescani anti-aristotelici anglo-sassoni, platonismo poi ben fervido nella Cambridge del XVII° secolo? E quello fiorentino-rinascimentale o quello di Marsilio Ficino? Già questa è una massa critica di pensati e strutture di pensiero che data millesettecento anni e già di per sé fa eredità trasmessa, anche se in forma certo spurie ed a volte, contorte. Ma non basta. Leibniz con le sue monadi (si veda la lunga, prima nota a pg. 107 della Monadologia, Bompiani, 2001)
? E ciò che perviene ad Hegel via Plotino e soprattutto Proclo ? Non è Hegel un continuatore dialettico, cioè con “superamento”, di parecchio idealismo platonico? E ciò che deriva da Hegel che ha tratti idealistici sebbene amò definirsi un materialismo? o le idee universali addirittura in Schopenhauer? E che dire del matematismo che da Galilei e Bacone arriva a Cantor, Frege, Russell, Hilbert e Godel? O il deismo demiurgico di Newton e il demiurgico evoluzionismo dei creazionisti? E l’innatismo genetico? La divisione mente-corpo talmente canonica da obbligare Cartesio ad infilarla senza giustificazione ed argomentazione nel Discorso sul metodo per poi prendersene la colpa a nome di tutta la precedente tradizione, che poi era platonica ? Insomma senza arrivare al neo-platonico Whitehead per il quale –il corso della filosofia occidentale non era che un serie di note a margine su Platone-, mi sembrava che porre in questione radicale il come l’Occidente pensa il Mondo, non potesse prescindere da una approfondita rilettura critica di cotanta genitorialità, Ed invece? Nulla o poco, proprio perché non è all’ordine del giorno ripensare come l’Occidente ha pensato sino a qui il Mondo e quindi il lavoro del padre fondatore non si tocca. Il solito martellatore universale Nietzsche, qualche femminista (L. Irigary) ed appunto Popper, che non è esattamente un critico dell’occidentalità, ma semmai un suo prosecutore sebbene su fronde anti-platoniche. Poco conosciuta, la lucida analisi dell’utopia reazionaria platonica che condusse E. Bloch che però l’ha seppellita nelle 1500 pagine del suo “Il principio speranza” (pp. 556-560). Molti confusi comunisti platonici farebbero bene a confrontarsi con queste brevi ma nette note del tedesco.
Questo platonismo caratteriale della filosofia occidentale, risulta anche dalle due incredibili interpretazioni date da H.G. Gadamer e quella davvero fantasiosa di Leo Strauss. Costoro sono talmente imbarazzati dalle disposizioni politiche di Platone da una parte e talmente platonici dall’altra, da arrivare a sostenere che le idee politiche dell’ateniese fossero libero svolazzo di una mente aperta alla pura divagazione nell’un caso, addirittura interpretazione “ironica” nell’altro. Potrete leggere nell’articolo di Fronterotta, la contorsione straussiana. A parte Gadamer, il cuore neoplatonico anglosassone continua a battere ancora oggi poiché quella cultura ha molto più di quanto non dica del Platone idealista, ma molto poco o nulla proprio del Platone politico e quindi, come ricorda Vegetti tirando in ballo Bernardo di Chartres, aderiscono gioiosi all’ipotesi di un Platone che si esprime sub velamen, dissimulando, depistando, cifrando. O con Rosen, sostenendo che Repubblica è quello che dice, ma traendone conseguenze nefaste tipo Hayek e Popper non solo in sé, ma come ammonimento generale per cui la filosofia in toto è a rischio tirannide quando si occupa di politica e di interi, molto meglio …? Avrete capito… .
Alla fine, se proprio non si vuole aderire alla critica popperiana, se non si vuole artatamente selezionare quello con cui si è d’accordo e non quello che disturba i sonni delle libere imitazioni democratiche occidentali turbate dalla diagnosi del Male in quanto dismisura, se non si vuol usare quella fantastica idea di un Platone che da buon sofista espone convinto la tesi di cui è lui stesso contrario e ci giocherebbe su con socratica ironia, rimane pur sempre la possibilità di inviare il suo pensiero al confine del senso, nelle brumose ed incerte lande…dell’utopismo.
I) RAZIONALITA’ DELLO SVILUPPO UTOPICO. In che senso, Platone è utopista? Platone esegue, forse per la prima volta in forma razionale, lo sviluppo in disegno di una idea politica. Il suo procedimento è: a) analizzare le cose come stanno; b) isolare il nucleo del problema che mostra in positivo anche la soluzione; c) dedurre possibili forme concrete anche se non necessariamente realistiche di attualizzazione della soluzione. Platone costruisce un mondo partendo da una Idea, in questo, si connota come un idealista costruttivo. Costruttivo, perché non si limita ad enunciare dei vaghi principi o degli schizzi sfocati che solleticano senza soddisfarla, la curiosità del nuovo. Platone affonda le mani in un vero e proprio esercizio di ingegneria psico-socio-politica e sarà forse questa, l’unica volta che tale esercizio verrà compiuto nel pensiero in cotanta ampiezza, con intenzione e consapevolezza.
Questa costruzione che all’inizio risponde solo all’idea e quindi si svincola del tutto dalla realtà, subirà nel tempo una torsione che, mantenendo l’aggancio all’idea originaria dove per idea intendiamo quel “isolare il nucleo del problema che mostra in positivo anche la soluzione”, si protenderà sempre più verso la concretezza del possibile. Questo, probabilmente, in ragione sia dell’attitudine platonica a provarci sul serio a conseguire qualcosa dei suoi presupposti filosofici, così come ci racconta lui stesso nella Lettera VIIa la cui autenticità non è più discussa radicalmente, sia in ragione delle finalità concrete che aveva l’Accademia. Non pochi furono gli studiosi dell’Accademia che vennero poi coinvolti in fatti politici concreti e più d’una furono le richieste di “consulenza costituzionale” che vennero fatte a gli accademici, Platone ancora in vita. Per quanto sfolgorante, il pensiero politico di Platone e degli accademici, non è tutto nella Repubblica e l’utopia, se è tale, va giudicata complessivamente nelle sue diverse versioni per capire quanto distante fosse, o meno, dal mondo delle cose possibili. Per quanto idealistico, il progetto platonico non è del tutto privo di una filosofia della prassi. E per quanto elitario, gerarchico ed a volte sclerotico, Platone prevede in ogni versione, che l’adesione degli individui a questa società ideale, sia del tutto volontaria. Infine, il pensiero politico di Platone come notato dal Vegetti (Un paradigma in cielo, Carocci, 2009, p.24) è parte di una intera immagine di mondo comprendente sistemi ontologici, gnoseologici, psicologici, antropologici, etici, culturali e solo infine, politici, è ancora un pensiero intero e non frantumato nelle parziali e semi-cieche visioni disciplinari specialistiche della modernità. E’ un ragionamento, che non condividiamo nel merito, ma al quale non si può non attribuire la definizione di “complesso”.
La torsione che il progetto subisce nel tempo, anche in ragione degli approfondimenti accademici, dei presumibili feed-back ottenuti da interlocutori esterni, delle precisazioni necessarie scaturite dalle esperienze concrete di dialogo con poleis interessate alle competenze platoniche, non cambia di una virgola i punti a) e b) precedentemente espressi. Cambia progressivamente il punto c) arrivando ad una concretezza, ma anche ad un realismo maggiore. Il primo passo era quello della Repubblica dove si ipotizzava una società tripartita con un vertice individuale che sa del Bene generale, un gruppo di armati comunitari ed una base di molteplici lasciati, più o meno, alle condizioni di vita consuete per un polis greca.
Il secondo passo è quello del Politico dove l’innovazione è triplice. Sembrano scomparire i comunitari – armati, il vertice è sollecitato a dotarsi non più della competenza del pastore – pilota, ma di quelle del tessitore, a “cum-plectere” da cui complesso o “intrecciare assieme”. L’arte politica sembra complicarsi dalle prescrizioni ieratiche del re-filosofo, non si cercano più i contrasti diairetici stilizzati ma le sintesi degli opposti, non più l’estremo Uno che si oppone polarmente al Molteplice, ma la “giusta misura”. Politico non ha il respiro profondo di Repubblica, non torna sulla psicologia e la sociologia e non coinvolge la gnoseologia, ma si concentra meglio e sembra più realisticamente, sulla figura del vertice, l’uomo regio. Al contempo, ed è questa poi l’innovazione più significativa, si introducono le leggi. Non siamo più ad un governo puro delle idee incarnate dal re-filosofo, sempre a rischio di arbitrio oltretutto armato, ma ad un riconoscimento della necessità della parola pubblica, come parola scritta, oggettivata. Platone è il testimone pieno di una transizione dal semplice al complesso che si riflesse nel passaggio dalla parola trasmessa uno-ad-uno, a quella trasmessa uno-a-molti, da quella orale a quella scritta. Anche volessimo intendere malignamente il Politico, come una proto-pubblicità allo studio di consulenza costituzionale Platone & associati, ciò comunque confermerebbe che stante l’Idea, Platone non era alieno da preoccupazioni di concreta applicabilità. E per onestà epistemica, si deve anche segnare in suo favore, il work in progress, l’adattamento continuo del pensiero all’azione, quello che Marx forse, non ha avuto tempo di fare, avendo vissuto quindici anni di meno (il che per un filosofo a cui la terza età non fa danno, non è poco).
Il terzo passo poi, le Leggi, giunge a dettagliare nuovamente la comunità e le specifiche disposizioni normative. Salta definitivamente il secondo livello, quello dei Custodi e il comunismo duro e puro di questa classe diventa una sorta di socialismo temperato, tendente ma non coincidente con l’eguaglianza perfetta per tutti, secondo criteri di proporzionalità che seguono, di nuovo, il principio della giusta misura. Abbiamo così solo due livelli nella nuova colonia ideale disegnata dall’anonimo ateniese nelle Leggi. I governati che sono tutti dotati di doppia proprietà di terra e case, i quali potranno secondo l’estro, accontentarsi di questa ricchezza di cittadinanza o implementarla sino a non più di quattro volte il valore di dotazione; ed i governanti che sono una sorta di consiglio dei saggi dove per saggio s’intende un misto di re con inclinazioni filosofiche e filosofi con attitudini politiche. Una comunità unita e stretta di difensori, controllori e promotori di quegli intendimenti pubblici che sono però scritti con estrema precisione nella carta contrattuale in base alla quale si fa domanda e si viene o meno prescelti quando si mostra reale intenzione di appartenere al progetto di questa nuova colonia. Leggi, nella sostanza speculativa, non dice altro da Repubblica, ma dovendo dettagliarlo sempre a livello ideale, ma assai più preciso e semi-realistico, cambia la struttura stessa del progetto ed anzi la sua “società corta” è ancora più compatta, un po’ meno gerarchia ed un po’ più concreta dal momento che si riflette in norme scritte e preventivamente e volontariamente sottoscritte. Rimangono almeno due grandi condizioni ancora totalmente ideali: a) fondare una colonia ex novo, che significa non una complessa transizione tra ciò che è e ciò che dovrebbe essere, scegliendosi quelle condizioni strutturali ideali (non lontano ma non sul mare, abbondanza di terra e lontananza dai vicini, dimensione pre-ordinata e non superabile della dimensione demografica, le famose 5040 famiglie) che permettano di semplificare i piani funzionali; b) la chiusura della comunità in se stessa di modo da non importare perturbazione, quindi disordine esterno.
Il procedimento platonico ci dà un insegnamento formidabile che è andato purtroppo perso nella filosofia politica moderna che ha dicotomizzato realtà ed utopia rendendo la prima un inferno irrimediabile e la seconda un paradiso irraggiungibile. Dicotomia che Marx ha pensato di mettere in relazione trasformativa con il problematico concetto di rivoluzione. Platone ci ha indicato che la partita si svolge nel giusto mezzo tra Idea-Realtà-Utopia, ovvero nel prefigurare e simulare continuamente ciò che consegue i nostri principi. Sia per consolidarli o cambiarli o sostituirli se non produttori di realtà possibile, sia per darci l’indicazione di quale è il percorso da fare per cambiare il complesso sociale, iniziando da cosa e procedendo verso il dove, nel tempo che sarà necessario. L’utopia rimane Idea se non ha progetto e continui tentativi di attualizzare il progetto, attualizzazione che crea una relazione ricorsiva con l’Idea stessa, migliorandola e rendendola sempre più in dialogo con la realtà in atto. Pensare di andare da A a B collassando tutte le cose da trasformare, nell’istante insurrezionale è semplicemente idealismo irrazionale, mistica dell’impotenza semplificatoria, abracadabra storico che tira fuori dal cilindro conigli ciechi e colombe con le ali tarpate.
Infine, la costanza del discorso politico platonico nel tempo, le sue modificazioni evolutive e parallele ai suoi andirivieni siracusani, ci dicono che non di svolazzo creativo si trattò, né di costruire una città in cielo, né di un esercizio di auto-ironia, ma di una concreta e realistica passione che per soddisfarsi, cercava l’attiva trasformazione del mondo reale, fedele al suo credo per il quale il Bene è l’essere.
L) La REPUBBLICA COMUNISTA-FILOSOFICA di BADIOU: ha impiegato sei anni, A. Badiou per impregnarsi e restituirci il testo platonico. Una rivisitazione decisamente equilibrata tra fedeltà e reinterpretazione, semmai arricchita in leggibilità, attualità ed addirittura migliorata quando a dialogicità che in Platone è spesso più vantata che perseguita. Badiou ha evidentemente una passione per Platone e di questo condivide punti di vista fondamentali. Anch’egli inclinante per la matematica (“l’ontologia è la matematica” come tesi centrale della sua opera più famosa, l’Essere e l’evento) e drammaturgo, convinto esista la verità e che la democrazia ne sia l’opposto, ha aggiunto nella sua formazione, Althusser, Lacan, il maoismo, un certo hegelismo dubitativo e si è manifestato in tempi non sospetti, contro la confusione annichilente del post-moderno e per una auspicata ripresa del “pensiero forte” in filosofia.
Quello che c’interessa dell’iper-traduzione della Repubblica fatta dal francese, sono ovviamente gli scostamenti, i punti di aggancio tra il testo originale e l’idea di una possibile nuova politeia quale quella proposta da Badiou. Questi punti sono due. Il primo è la dilatazione del comunismo e della competenza filosofica a tutti. Un unico stato, quindi, fatto di una classe unica di filosofi comunisti, una aristocrazia popolare. Il secondo è di conseguenza, la disarticolazione del fissismo nella divisione del lavoro platonica in una polivalenza individuale nel produrre, difendere e governare. Bene. Ma come?
Tra Badiou e Negri sono volate parole grosse. Il secondo ha dato al primo del “comunista senza neanche essere marxista”, il primo ha risposto dandogli del “marxista senza essere neanche comunista”. Wow, potenza della dialettica! Alla base questa critica esposta dall’italiano al francese relativamente al suo esercizio platonico, il quale risponde in parte, qui. Un punto di vista interessante sulla faccenda lo si trova nel post di questo non-allineato, qui.
In breve, Negri dà a Badiou dell’idealista razionalista in salsa arcaico-comunitaria. Nel comunismo badiousiano manca la lotta di classe, il fatto produttivo, la Storia, mentre c’è un ingombrante elitismo filosofico, quasi un militarismo totalitario e coercitivo che porta da Platone a Pol Pot. Risponde il francese, attaccando Negri nella sua smania di vedere metamorfosi della meccanica del capitalismo, tali da aprire addirittura ad un suo paradossale rovesciamento. Secondo Badiou, il capitalismo è tale e quale a se stesso e l’”oltrismo” negriano, una sorta di marketing di una critica che deve rinnovare continuamente il suo oggetto per destare attenzione. Concordo con entrambi, il punto è che Badiou non risponde a Negri nel merito, ma con la più tipica argomentazione “ad hominem”, per altro condivisibile.
L’operazione di Badiou ha una sua sottile ambiguità poiché nel merito essa è, come la definisce lui stesso, una iper-traduzione, non una traduzione fedelissima ma neanche una struttura presa in prestito per rivoltare il cappotto e presentare un del tutto nuovo manufatto. Così Badiou, potrebbe rispondere alle accuse, dicendo che nella struttura della Repubblica non c’era spazio logico per introdurre altri elementi quali quelli esposti da Negri nella sua lezioncina su Marx. Però quanto ad eliminazione teorica delle differenze tra produttori-commercianti / guardiani / re-filosofi quanto a comunismo, piuttosto che eliminazione della rigida divisione del lavoro platonica, fino alla rinuncia ai matrimoni coatti e dell’eliminazione della privatezza degli affetti, Badiou non ha difficoltà a smarcarsi dal testo platonico.
Badiou ha una altra cosa in comune con Platone, l’odio per la democrazia. Certo lui si rivolge al termine come connotazione della cosa che chiama capitalismo parlamentare e noi econocrazia, ma poiché il suo comunismo non si vede come diavolo possa venir fuori, né come si possa gestire fattivamente, rimane il dubbio: come pensa Badiou di far funzionare il suo ideale del comune? Abbiamo detto nel paragrafo precedente che si può (e si dovrebbe) non condividere l’idea di struttura politica dell’ateniese, però ciò che rende il modello Repubblica (rivisto in Politico e Leggi) un idealismo costruttivo è lo sforzarsi di offrire una prefigurazione. I comunisti invece sembrano voler per l’infinito riflettersi nella fulminante definizione che ne diede Heiner Muller (per rimanere tra gente di teatro): “Il comunismo? Un negativo da sviluppare”. Così, anche Badiou, qui , ci dice che sapere cos’è il comunismo è una faccenda complicata… . Né la cosa gli risulta più chiara in “L’idea di comunismo” (AA.VV. L’idea di comunismo, Derive ed Approdi, 2011) dove in un nota (pg.18) specifica che non condivide il tentativo del suo amico Rancière (J. Rancière, L’odio per la democrazia, Cronopio 2011) di riscattare la parola “democrazia”.
Trovo geniale la definizione di Muller perché allude ai guasti che produce la fede nella dialettica hegelo-marxista, in particolare nella funzione creativa della negazione. Ormai sappiamo tutti -contro cosa siamo- ma abbiamo idee confuse sul -per cosa siamo- e se pensiamo che il -per cosa siamo- esca magicamente possibile solo per negazione del ciò che è, dubito riusciremo mai a produrre una transizione ad un nuovo modo di stare al mondo. Ma più che i miei dubbi, pesano centocinquanta anni di ritardo dall’idea alla sua pratica, pesano i positivi-negativi dei tentativi di attualizzazione di quel comunismo “reale” che ha affossato il sogno nella tomba di un idealismo che ci viene il dubbio possa essere un fenomeno di immaginazione adolescenziale, pesano le continue delusioni che seguono l’accendersi di false speranze che ogni stormir di fronde sociale produce. Ad esempio scambiar l’agitazione sociale conseguente l’aumento del prezzo del pane tunisino o l’agitazione della giovane borghesia cairota che trova insopportabile la censura così per i giovani turchi o qualche centinaia? migliaia? di americani presto rifluiti nei ranghi dell’anonimato, per il messianico avvento “dell’ora che aspettavamo!”. C’è del patetico in questa attesa, i vari intellettuali che collezionano segni per operare la profezia, sembrano sacerdoti di una religione del cargo. Ma in un altro senso, questo “negativo” va sviluppato in senso propriamente fotografico, anche perché solo il positivo ci dirà se la nostra immagine di mondo è a fuoco, ha i giusti toni, la rappresentazione è realistica ed attraente, l’inquadratura ha colto il Tutto, portandoci alla domanda della prassi: come si arriva da qui a lì? E’ questa immaginazione che si fa immagine, che produsse la Repubblica, la cui utilità per l’esercizio della progettazione del Mondo che vogliamo è indubbia.
La democrazia “reale” (che in questo caso è “ideale”) è un argomento ispido ed ostico per i comunisti, non ho mai capito a fondo il perché. Temo che l’idea di Marx, sia finita in una trappola del tempo per la quale non collimano il tempo lungo della realizzazione di una trasformazione così radicale e complessa e l’esigenza storica di realizzare qualcosa subito. Il comunismo è un progetto senza transizione, è un -oplà storico- che si fida eccessivamente del potere trasformativo della negazione hegeliana. Certo, tanto Platone, che Marx che Badiou che tutti noi, hanno ed abbiamo a che fare con forme degenerate o vere e proprie usurpazioni del concetto di democrazia. Ma come Platone ritiene di non poter curare la democrazia, i marxisti non credono di poterle restituire il significato originario o di poterla usare per costruire la loro ambiziosa Idea-mondo. Essa è sempre e comunque il sistema parlamentare delegato dal potere economico. Ma come diavolo pensano di perseguire il loro obiettivo, allora? Che si fa dopo la “rivoluzione”? La dittatura del proletariato? Suvvia… .
CONCLUDENDO
Alla fine di questa cavalcata nella mente platonica e da questa, nei territori che hanno pensato la cosa etico-politica, possiamo cercar di distillare una sintesi concettuale che vada oltre i tic aristocratici di Platone. Andare oltre questa forma apriori che collega l’individuo Platone alla sua città ed al suo specifico tempo, significa porre in secondo piano l’aspetto formale, costituzionale, l’organicismo fallace, il fissismo della divisione dei ruoli e dei poteri, le seduzioni comuniste avvinghiate alle convinzioni elitiste. All’essenza del ragionamento si trovano due considerazioni, una diagnosi ed una prognosi.
La diagnosi è che l’uomo, come poi ribadirà Aristotele, è animale sociale ed autocosciente. Queste due condizioni portano alla necessità politica, quale attività di pensiero, dialogo e decisione sul -che fare?- del sistema collettivo. Il problema è che ogni individuo sa di se stesso (o almeno crede) ma non sa dell’interesse collettivo, ovvero tende a leggere l’interesse collettivo come riflesso di quello individuale. L’individuo partecipa di un sistema di cui rimane inestricabilmente “parte”, senza mai trasferirsi fuori di sé, all’interno del sistema che è fuori di sé eppure lo comprende. L’individuo non pensa l’Intero, non pensa “come se” lui fosse l’Intero. Dopo duemilatrecento anni siamo ancora lì solo che oggi, pensare l’Intero è enormemente più complesso, come ai tempi di Platone stava diventando più complesso rispetto ad una comunità stretta e corta di 5040 famiglie. La distribuzione delle conoscenze non è di molto migliorata ed ha oltretutto peggiorato la sua distributività dal momento che è imperante il modello della specializzazione segmentata che tutto produce, tranne conoscenza dell’Intero. Anche ai più altri livelli di competenza culturale e politica (dove le due cose sembrano per altro scisse da un “o – o” disgiuntivo) si trovano “dotti ignoranti” che si ricavano uno spigolo nella sfera pubblica dal quale pensano e dicono del Tutto, senza averne alcuna cognizione.
La prognosi non può che essere conseguente: studiare, informare, educare, dialogare, discutere, decidere assieme. E ci vorrà tempo, tanto tempo, ancora di più tanto più tardi cominceremo a praticare questi obiettivi, con élite intellettuali che scrivono libri ed articoli in linguaggi incomprensibili sulla rivoluzione delle masse popolari che, incuranti, fanno la fila per l’apertura del nuovo Apple-store. Le prime cinque istanze dell’elenco, ci dicono che l’unico strumento per modellare noi stessi, per adattarci all’impresa comune e per darci il senso ed il significato di questa dimensione comune, è l’educazione e la cultura. E’ la creazione preventiva di questa cultura che crea le condizioni di tutto quanto potrà accadere dopo, come ben individuò Gramsci. Tra le varie forme di isomorfismo che connotavano il glorioso sistema ateniese (isonomia, isegoria, isopsefia), la prima e più importante da considerare, quella da cui tutte le altre dovrebbero discendere, dovrebbe essere l’isologia, l’egalitarismo del logos. Avere lo stesso logos non significa ovviamente pensarla tutti allo stesso modo, significa altre due cose. Avere lo stesso logos tra i membri dell’impresa comune significa avere in comune una serie di principi normativi quali l’onestà intellettuale, il valore della ragione pur nei limiti sfocati di questa nostra qualità, la capacità analitica e di argomentazione, il rispetto, la propensione e la passione per il dialogo, la consapevolezza di sapere che sempre non si sa qualcosa (ma si dovrebbe saperla) aprendosi a quella ricerca continua che porta anche a riorientare radicalmente e più volte, il nostro sistema di idee ed all’auto perfezionamento infinito, che sarà l’appassionante attività in cui ci coglierà la morte. Avere lo stesso logos significa però anche cercare qual è l’identità o quantomeno la miglior corrispondenza tra il logos delle nostre menti e quello del Mondo nel quale siamo, ovvero quale pensiero meglio corrisponde alle complesse forme del vivere associato ed ad una ipotetica natura antropologica dell’umano, quali forme di vivere associato meglio si conformano alla nostre comuni condizioni di possibilità, quali forme e caratteristica del vivere associato meglio corrispondono ad una convivenza virtuosa e non conflittuale con le altre comunità e con l’ambiente che ci ospita. Da questa società corta della conoscenza, corta perché non ha una distribuzione piramidale della stessa ma conoscenza distribuita che permette di gestire il perimetro del sistema di modo che non sia né eccessivamente chiuso, né eccessivamente aperto (la società del tutto chiusa o del tutto aperta è un sistema che o implode o si dissipa, è quindi un sistema che produce la sua morte), da questa isologia, discende quella possibile homologia che è l’accordo dei molteplici nel decidere cosa fare del comune sistema di appartenenza. L’approssimazione all’uguaglianza del gruppo umano che deve decidere cosa e come fare è l’approssimata uguaglianza delle conoscenze in base alle quali si opera il giudizio.
Esiste un poco conosciuto legame di necessità reciproca tra isologia e democrazia. La seconda può aiutare a creare la prima ma per essere attivata necessita a sua volta di una pre-formazione isologica. Il fallimento della democrazia (degenerazione demagogica e poi tirannica, formazione di élite) si ha sempre quando l’isologia non è adeguata alla forma democratica, mentre una formazione isologica porta alla democrazia in via naturale poiché è conseguente che se tutti sappiamo della cosa, nessuno di noi potrà assumere una posizione prevalente e dominante su gli altri. In una comunità dove si coltiva di necessità la facoltà di pensare da sé (in senso kantiano), non c’è la minima possibilità possa comparire un tiranno poiché “la capacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro” è proprio la negazione perfetta delle condizioni di possibilità di ogni tirannia, di ogni minorità. In base a questa conoscenza in comune, potrà poi ben trovarsi qualcuno che ha maggiore attitudine o volontà a trattare gli specifici problemi a nome del gruppo, ma in questo caso si attiva sì una delega ma puramente funzionale, una delega di cui si può continuamente controllare l’andamento, una delega il cui contenuto di potere è limitato e sempre revocabile in piena consapevolezza, una delega il cui delegato è sostanzialmente intercambiabile con facilità e che risponde ad un giudizio competente, giocandosi ciò che più valore ha in una comunità: la reputazione[1]. Ed è questa ipotetica società della conoscenza egalitaria, l’unica che potrà decidere come correggere quelle gerarchie (di reddito, di proprietà, di peso politico, di possibilità, di libertà, di espressione personale) che hanno reso militari, etnie, sacerdoti, industriosi, speculatori di capitale preso a prestito, quasi sempre maschi adulti, i “dominanti” di carne da macello, altre etnie, “credenti” di variegate speranze terrene o oltremondane, schiavi, servi, salariati, polli da spennare detti altrimenti “dominati”.
Pensare “come se” fossimo l’Intero (assieme ai più naturali ed istintivi pensare l’Intero dal nostro punto di vista e pensare ai nostri interessi individuali) ed essere in grado di farlo sia come convenzione sociale, come prima norma del contratto sociale che regolamenta la comunità, sia come capacità di entrare nella natura propria dei problemi concreti del rapporto tra organizzazione e finalità del sistema comunitario, relazioni tra questo e tutti gli altri, relazione dei sistemi comunitari con il sistema Terra che ci ospita e ci mantiene in vita, cioè in essere. Questo potrebbe essere il Bene per l’individuo (Uno) sociale (Molteplice) umano.
Questo è quello che qui spesso chiamiamo “problema adattativo alla Complessità”. Complessità che ha in Platone, forse il suo più fiero e potente avversario. Abbiamo convenuto molto spesso, sul valore di alcuni pensieri di questo immensamente grande filosofo, ma non v’è dubbio che altresì Platone sia il fondatore di tutto ciò che nella mentalità occidentale, impedisce di modificare i nostri schemi concettuali in favore di questo “evento”, per dirla alla Badiou. Quell’era della complessità che è l’irruzione di una forma di realtà che reclama il nostro cambiamento, prima mentale, poi fattuale, sociale, economico e politico. Platone stesso è il filosofo della resistenza alla nuova complessità ateniese, il filosofo che ricorda con nostalgia i bei tempi degli avi, di Solone e del fratello Dropide bisnonno dello zio Crizia, capo dei Trenta tiranni, il tempo degli arcadi, dei Dori, di una aristocrazia semplice ed asciutta, tempi in cui le cose erano facili e l’ordine, naturale. La società semplice, statica, ordinata. La Complessità, ogni volta che si presenta, è un fenomeno nuovo che promette dinamica e disordine ed ogni volta stimola in noi lo stesso smarrimento e paura, conati che ci portano istintivamente a volgere lo sguardo indietro, ai tempi in cui “non c’erano questi problemi”[2]. Ma la sfida è appunto quella di non guardare indietro per il problema che abbiamo davanti ma portare le nostre menti ed i nostri corpi in quella terra incognita che ci viene incontro spaventosa. Quello che si chiama, un atteggiamento controintuitivo, il coraggio e la lucida intelligenza adattativa, senza i quali, potremmo dover pagare un prezzo ontologico gravissimo, il Male puro.
3. fine
[1] L. Canfora ha sposato il giudizio di Tucidide sulla democrazia periclea (e già definirla con questo nome ne significa la sostanza). Essa in realtà fu un principato illuminato, poiché nei fatti, Pericle esercitò continuativamente la funzione dell’Uno-guida. Notiamo tre cose: la prima è che non si dovrebbe trattare la democrazia ateniese come nata perfetta, il governo dei Pochi si è evoluto in seimila anni di forme prima di arrivare alle dittatura dei mercati, dovremmo concedere almeno seimila anni di esprimenti democratici anche a questa alternativa, prima di emettere sentenze sul suo funzionamento o attuabilità. La seconda è che Pericle fu votato ogni anno ed ogni anno confermato a fare, quello che a gli ateniesi sembrava egli sapesse fare bene, sarà stato di Servire il popolo, ma evidentemente lo serviva bene, il che è già qualcosa. La terza è che la democrazia ateniese era una macchina complessa, non interamente compresa nella figura dello stratega, una complessità interamente organizzata da una forma democratica assai articolata.
[2] Questo riflesso del volgere indietro lo sguardo, si manifesta in molto modi. Già Marx ne era allarmato, distinguendo con molta energia il rifiuto degli esiti del modo borghese di sviluppare i modi di produzione, dallo sviluppo stesso. Marx (ed anche Hegel) aveva ben chiara la differenza tra Medioevo e Modernità, da qui la condanna di ogni utopismo dello sguardo all’indietro. Oggi, in certo pensiero decrescista che pure affronta un tabù centrale costitutivo del sistema ciecamente dominante, non pochi sono affetti da nostalgie medioevali o irretiti dal ritorno del buon selvaggio roussoviano. Nell’ambito della sinistra dura e pura, ci si rivolge ai bei tempi in cui le masse popolari spaventavano a tal punto i potenti da spingere questi a distribuire biscottini keynesiani. Altri hanno incredibilmente rivitalizzato il Bene dello Stato, soprattutto dello Stato-nazione come riflesso contrario all’opera di distruzione tanto dello Stato, quanto della nazione, operato dalle élite dei Custodi del mercato globalizzato. Il capitalismo nasce con lo Stato-nazione, si mantenne in vita con la cura keynesiana in tempi per lui strutturalmente difficili ma non così tanto da non potersi permettere una cura keynesiana , l’arcadia non c’è più, né potrà mai più esserci poiché sulla Terra non siamo più sette milioni ma sette miliardi. Il problema che abbiamo davanti, non si risolve guardando all’indietro.