TEMPO e POLITICA. (3/3)

Nella prima parte di questo studio (qui) abbiamo analizzato il rapporto tempo e politica nella teoria, nella seconda parte, nella pratica politica (qui). Ora ci avviamo ad analizzare il tempo in politica degli individui ed il rapporto generale tra democrazia e tempo.

TEMPO INDIVIDUALE IN POLITICA, DA TROPPO A TROPPO POCO.

La democrazia rappresentativa, spacca in due l’universo politico degli individui. L’elettore è coinvolto pienamente solo in occasione delle scadenze di voto, l’eletto è un professionista della politica che lo porta a vivere un suo universo particolare, viepiù distante da quello 41gocsKuapL._AC_UL320_SR204,320_comune. Intorno a gli “eletti” si forma anche una classe di professionisti della politica sebbene non direttamente coinvolta nella gestione della cosa pubblica.

Il coinvolgimento dell’elettore in occasione delle scadenze di voto è parossistica. Persone, di solito, del tutto digiune ed aliene dai temi politici, vengono chiamate ad esprimere la loro delega complessiva (complessivamente inerente un grandissimo numero di cose quasi sempre non esplicitate nel contratto elettorale), in un crescendo di pressione improvvisa. Il meccanismo è quello del puh & pull, tratto come del resto tutto il marketing politico, da quello commerciale visto che la democrazia è oggi intesa come un mercato delle opinioni (vedi Schumpeter) il cui atto d’acquisto è il voto. Il “push” è la spinta, spinta a votare ed a farsi una frettolosa opinione, agita dai mezzi di informazione ed oggi, anche dai social media. Il “pull”, l’attrazione, è data dai vari partiti o candidati che imperversano e strabordano in ogni dove per circa un mese prima del voto. Il tutto basato su strategie fashion-seduttive, quindi non razionali, com’è proprio delle tecniche dell’advertising e del marketing. Le dimensioni degli stati-nazione, impongono macchine elettorali grandi, quindi costi grandi, quindi selezione ab origine di chi può permettersi tale impegnativa sfida. Non è prevista uguaglianza delle opportunità.

Da tempo, nella cosiddette “democrazie occidentali” si registrano ampie e crescenti percentuali di individui che rinunciano al voto, percentuali che, in alcuni casi, vanno ad approssimarsi alla metà degli aventi diritto o a superarla. Ogni volta che si registra una di queste discese nell’esercizio del diritto di voto, che poi dal punto di vista del contratto sociale sarebbe un dovere oltreché un diritto conquistato spesso col sangue, i politici si mostrano preoccupati. Ma invero, è almeno dagli Stati Uniti degli anni ’60 che si è teorizzato e fattivamente messo in pratica, il principio del silenzio – assenso, le maggioranze silenziose. In sincronia, le teorizzazioni sulla democrazia spettatoriale apparvero poco dopo che le élite occidentali avevano dovuto concedere il suffragio universale. La “democrazia di massa” fu una concessione quantitativa ma non appena data, scattò la teorizzazione sull’elitismo qualitativo.  La “democrazia per eccezione”, starebbe41GOZZuK0dL._SX331_BO1,204,203,200_ nel conteggiare come soddisfatti dello status quo coloro che non si esprimono, ipotizzando con logica claudicante, che se volessero dissentire lo farebbero votando. Più  cose congiurano invece fattivamente a creare questa distante indifferenza se non rifiuto dei sempre maggiori “non vontanti”.

La prima è data dai sistemi maggioritari di origine anglosassone che formano due schieramenti orientati al potere inteso come stato delle cose, secondo due diverse interpretazioni dove la “diversità” è assai sfumata, ove esiste. Chiaramente, questa impostazione non riflette l’eterogeneità della società sottostante e quindi, la parti senza rappresentanza, si astengono dal voto. Recentemente, anche la politologia accademica anglosassone ha cominciato a guardare criticamente il sistema bi-partitico, ottimo (secondo un punto di vista che premia la stabilità) per le fasi di riproduzione strutturale stabile, molto meno efficiente, quando le società ed i contesti generali hanno torsioni o accelerazioni che chiamerebbero un cambiamento deciso. Di fatto, i sistemi maggioritari bi-partitici, sono tendenzialmente conservatori rispetto alle grandi novità storiche, “resistono” al cambiamento sostanziale, difendono ostinatamente il contingente anche quando si muovono a riformarlo per renderlo “più adatto ai tempi che corrono”. Questa politologia ha, ad esempio, salutato con entusiasmo la comparsa di terzi partiti (quasi sempre “liberali”, esempio Germania, Olanda, Gran Bretagna) proprio perché l’articolazione politica favorirebbe la comparsa di innovazione, ragionamento che in parte porta laddove sono ben salde da sempre le convinzioni dei proporzionalisti[1].  Anche dove non ci sono sistemi rigidamente maggioritari ma sostanzialmente tali (due partiti molto grandi che si alternano al potere), 412f9cSioYL._SX296_BO1,204,203,200_nel tempo, le forze laterali che non arrivano mai al governo conseguono una mentalità di sola opposizione che non sempre merita la mobilitazione del voto ridotto a “testimonianza”.

La seconda ragione del “distacco” dalla fiera del voto, deriva dalla prima. Lungo cicli di gestione del potere senza modifiche apprezzabili, si sedimenta l’impressione tutt’altro che immotivata, che il cambiamento significativo non avverrà mai ed è quindi inutile andare a votare per esso, ancorché spesso non si trovino reali proposte politiche che intercettino questo bisogno di nuovo. Nei sistemi rappresentativi, governi delle forze maggioritarie  tendono a deludere le aspettative, il che unitamente alla longeva occupazione del potere da parte di forze centriste, rilascia la fatale impressione che “tanto non c’è niente da fare”.

La terza ragione, è la somma delle altre e del risultato concreto di questi tipi di governo. Si ha l’impressione che i professionisti della politica, vadano a costituire una élite staccata dalla realtà, che si attacca ai propri privilegi, che non conosca le difficoltà del mondo normale, sviluppando una sorta di metalinguaggio (il politichese) astratto e criptico-repellente. I rappresentanti non rappresentano altri che se stessi al servizio degli interessi politici delle lobbies. L’ansiosa richiesta del voto una volta ogni quattro o cinque anni, porta i politici a ricordarsi che lì fuori c’è un mondo in maniera utilitaria e i giochi pirotecnici con cui cercano di attrarre elettori, risultano quasi un insulto per chi da anni, ha problemi che mai vengono risolti e sa che non verranno risolti neanche questa volta.  Il non voto ha quindi una componente passiva ma anche una attiva nel senso di risposta419mRmt8fCL._SX314_BO1,204,203,200_ negativa alla domanda di partecipazione ad un gioco truccato, inutile, poco interessante per l’elettore-cittadino. Tutto ciò ha agito nel ben noto quadro generale del dominio dell’economico ovvero della società produttivo – consumistica che ha atomizzato e separato gli individui tra loro[2], distruggendone sistematicamente le condizioni di possibilità politiche. L’economico che teorizza la distruzione creatrice della concorrenza esasperata, quando si rivolge al politico, chiede stabilità e premia i monopoli del potere[3] il che indica con chiarezza la dipendenza strutturale che l’economico ha dal politico.

L’elettore o meglio l’individuo politico, è quindi una specie reietta, frustrata e delusa ma, come detto, c’è una precisa ideologia che tende ad allontanare le persone dalla politica. Si comincia dal fatto che -mediamente- le persone non hanno tempo a disposizione per ciò che esula dal lavoro, dalla gestione della quotidianità e ciò che rimane per gli affetti e le cure personali. Su questo si somma il senso di inutilità di questo interesse o addirittura impegno che deriva in parte dai tre punti esaminati, ma per altra parte dal fatto che le democrazie rappresentative ormai sono un potere secondo a quello economico o terzo se si conta a parte quello finanziario o addirittura quarto se, come in Europa, si sommano ambiti istituzionali extra-nazionali, verso i quali non c’è alcun controllo, sebbene influiscano in maniera determinante nella vita politica delle persone. Poco notata è poi una quinta influenza che è l’allineamento geopolitico che molti ritengono inerente la sola politica estera ma che ha fattive ricadute anche su quella interna se non altro nel controllo che viene esercitato in molti modi non evidenti e assai poco pubblici, per garantirsi che l’élite al governo sia “allineata”. L’evidenza per la quale forze misteriose e potentissime di origine finanziaria, bancaria, economica, geopolitica planetaria, governano su élite continentali a loro volta 475abdd3ecf89cb9f73cacbaa3a57b6e_w600_h_mw_mh_cs_cx_cydominanti su élite nazionali il cui peso politico si riduce costantemente, nutre la sfiducia per il voto ad una classe politica tanto incapace, quanto inutile. Manca cioè l’oggetto del contendere, manca propriamente la “contendibilità politica” poiché molti giochi della politica sono riservati a tavoli ad accesso riservato nei privé del potere e vi sono divieti insuperabili ed indiscutibili tanto invisibili quanto determinanti. Avendo sottratto l’oggetto del contendere, il potere di decidere, la contesa elettoral-politica è chiaro sia diventata un beauty-contest.

I media, che raramente sono indipendenti, amplificano la nullità dell’attività politica, non intermediano neanche linguisticamente con fatti o concetti politici che risultano di difficile lettura, risultano schierati a-priori e quindi non si ha mai vera e libera circolazione di idee e di opinioni magari differenti tra loro. I media poi, hanno la loro crisi tra una televisione generalista che riduce l’informazione al minimo salvo esagerare nell’includente dibattito tra presunti specialisti  (il format talk show che costa poco ed occupa molto palinsesto), la carta stampata che è in via di scomparsa e le cui tirature dicono dell’espandersi vertiginoso dell’analfabetismo funzionale ed Internet che poiché offre tutto, in pratica, non dice niente. Il fatto che i media siano tutti imprese commerciali legate al profitto quindi legate al consenso d’acquisto è considerato naturale. Ma così si determina l’infanticidio sistematico di ogni nuova idea che per definizione, quando nasce, nasce piccola. Anche i sistemi rappresentativi a soglia o maggioritari sono settati sulla soppressione del nuovo. Entrambi i sistemi sono conservatori, amplificano solo ciò che è già grande sopprimendo il 9788896904138gpiccolo. I social media hanno una struttura di feedback positivo, chiudono cioè cerchie che si auto confermano nella credenza di questa o quella dottrina e dato lo scarso interesse ed impegno politico, in realtà esaltano la coltivazione degli interessi ed hobby tra i più disparati e di nicchia. Mancando la piazza, il luogo fisico in cui tutta la città si ritrova  a prescindere dal genere, anagrafe, classe sociale, ognuno si chiude nella cerchia delle identità  particolari da cui la complessità plurale della realtà e della necessaria politica che dovrebbe affrontarla, è esclusa in via di principio. La privatizzazione di tutto, dalle scuole a gli ospedali, si muove sulla stessa logica castale per cui i simili debbono stare coi simili e l’esposizione al contatto con il differente diventa impossibile ed indesiderato.  A tutto ciò si aggiunge la disgrazia del postmoderno, del liquidismo, dell’edonismo consumista, del partito packaging, della mitologia del leader carismatico weberiano (bisognerebbe rileggersi Max Weber per capire come certe sue teorizzazioni descrittive siano poi diventate prescrittive).

La distruzione dei partiti di massa, gli unici ambiti se non di pratica democratica almeno di incontro, scambio di idee, formazione alla pratica politica (discorso, argomentazione, dibattito), presenza sul territorio, rapporto con la cittadinanza, cinghia di espressione e di copbg789trasmissione coi leader, ha definitivamente raso al suolo ogni presupposto di rapporto tra politica ed individui. In effetti, si è compiuta una decennale, silenziosa e metodica distruzione del politico e di quella vaga democrazia che prometteva l’ambiguo  sistema rappresentativo, in favore delle élite dalle mani libere e del subordine del politico all’economico-finanziario. Letto come sistema, il sistema politico è diventato alieno, indecrittabile, indesiderato, poco attraente, socialmente non gratificante, composto da individualità poco stimabili, quasi superfluo. Nello spettro delle nuove idee, si presentano addirittura posizioni anarco-capitalistiche (il libertarismo à la Rothbard) che teorizzano il dissolvimento dello Stato in favore del Mercato, posizione in sé priva di senso e di conoscenza della struttura profonda che sostiene il “sistema” capitalistico ma che svolge bene la funzione di indebolire ulteriormente il politico nel sistema delle idee. Laddove si dimostra che mentre il popolo vagheggia inconcludenti rivoluzioni, il potere dei Pochi conosce molto bene la legge delle trasformazioni progressive e la legge della rana bollita[4], poiché tutto ciò non è accaduto per un genetico destino degenerativo endogeno ma per una chiara intenzione di sollevare i ponti della cittadella dei poteri.

I principi fondativi della democrazia ovvero la brevità delle cariche di governo per non sedimentare poteri personali distorsivi del funzionamento politico, lo scambio continuo tra ambito politico e civile per portare le questioni dell’uno nell’altro e tenere così il politico ben al servizio del civile ed il civile consapevole della complessità del politico, il tempo per la conoscenza, l’informazione e soprattutto la discussione, la frequenza estesa del voto, sono tutti decisamente e sembra quasi programmaticamente, contraddetti dalle forme che ci ostiniamo a chiamare “democratiche”. Il tempo politico è massimo nei Pochi ed è minimo nei Molti, questa è la condizione strutturale per la democrazia delle élite, lacopnb78 natura dei nostri sistemi politici che si basano su un ossimoro ovvero nominare un sistema strutturalmente oligarchico con il termine democrazia. Questa apparentemente innocua discrasia tra la parola e la cosa, in realtà è un potente anestetico delle coscienze individuali che si convincono di vivere in un universo immaginato che si sovrappone, celandolo, a quello ben meno rassicurante della concreta realtà. Il re può ben girare nudo per la città, ricevendo commenti ed apprezzamenti da parte di un popolo che non crede più a quello che pur vede mentre coloro che non si raccapezzano più in questa contraddizione, volgono la testa dall’altra parte per ridurre la dissonanza cognitiva.

LA DEMOCRAZIA ED IL TEMPO.

Con democrazia intendiamo l’autogoverno quanto più diretto possibile degli individui associati. Volendo abbandonarci ad una analogia, la democrazia è lo stato adulto della società, passato lo stadio in cui la società bambina è stata governata da un ristretto gruppo di adulti simile alla famiglia e la società infantile è stata governata da uno solo anzi da una sola, la mamma (il padre nell’inversione che ne fece la tradizione indoeuropea)[5]. Ma così come per essere adulti dobbiamo raggiungere diverse facoltà di autonomia, soprattutto mentali, per avere democrazia prima ancora di dilettarci ad esaminare schemi, forme e condizioni giuridico – istituzionali, occorre avere democratici non meno che per avere la Chiesa romana si ebbero prima cristiani e prima dell’islam si ebbero musulmani e prima del capitalismo si ebbero i possessori di capitale. Le parti, ontologicamente, anticipano il sistema come gli ingredienti la torta. Certo, quando i possessori di capitale, raggiunsero un potere governante quale il sistema rappresentativo inglese del XVIII° secolo, o quando i copng70musulmani raggiunsero califfato  o i cristiani il sistema della Chiesa romana, del papato e dello Stato Pontificio, l’intero loro sistema diventò un organismo e funzionando in maniera circolare con anelli di retroazione potenzianti, crebbe, si assestò e mostrò una forza “maggiore della somma delle parti”. Ma -di base- se non si inizia dagli individui, poiché sono gli individui la materia prima di ogni costruzione sociale, non si fa niente che funzioni o stia in piedi con le proprie gambe e resista a gli attacchi distruttivi che fanno da levatrice ad ogni fenomeno sociale. L’edificazione del comunismo prima di avere una congrua massa critica di comunisti in Russia testimonia del fallimento dell’idea contraria. L’intera teoria politica occidentale, ha ecceduto nella attenzione alle forme sistemiche quasi che queste siano le formine per stampare le individualità politiche quando il sistema è solo una macchina semmai per riprodurli e porli –appunto- a “sistema”. Questa dimenticanza della dipendenza dalla “materia prima” è la stessa delle teorie dal capitalismo che eccedono in strutturalismi che rendono ciechi del fatto che senza la materie coloniali la Rivoluzione industriale non avrebbe avuto ciò su cui esercitarsi. Va bene il genio inventivo, il proletariato, il capitale, l’intraprendenza, le macchine, il credito bancario e financo il capitale finanziario ma prima che tutto ciò abbia senso ci vuole una cosa semplice -il cotone- ed il cotone non cresce in Inghilterra.

Nella condizione attuale, l’individuo democratico manca del tempo essendo questo denaro ed essendo il denaro l’unità energetica della società, esso viene investito appunto per procurarsi denaro. Non c’è tempo per conoscere, non c’è molto tempo e molta offerta per l’informazione di qualità, ci sono invece molte distrazioni e molte pulsioni ad evadere dalla realtà (procurarsi denaro) che prosciuga la gran parte delle energie psichiche ed anche fisiche degli individui. Non solo non c’è tempo, ma non c’è nemmeno modo e luogo per dibattere. Si assiste al dibattito altrui, dibattiti condizionati dalla grammatica del mezzo televisivo che quanto a tempi non è sede naturale dello sviluppo di un discorso logico – critico – argomentativo, si assiste al dibattito di prescelti (opinion leader decretati da chi?)  per farsi un’opinione ma così come non s’impara una lingua senza mai provare a parlarla, noncopxd è assistendo passivi alla passerella delle opinioni convulse di questo o quel opinion leader che si forma un pensiero proprietario ben fondato sulla competenza logico-linguistica. Non c’è modo di catturare il complesso col pensiero perché non c’è tempo di studiarlo e di parlarlo ma anche e soprattutto perché la divisione del lavoro ha invaso anche l’intelletto e la società dell’educazione per cui abbiamo specialisti per tutto ma nessun generalista, si analizzano parti ma non il sistema che è il risultato dell’interrelazione tra le parti.  Scatta qui la prima applicazione fondamentale del principio di delega, pochi sanno ed i molti possono al massimo scegliere da quale di loro farsi passivamente rappresentare nel dibattito delle idee[6]. Il motto kantiano che fa da esergo a questo diario di ricerca “Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza” è l’esatto contrario di questa coltivazione della passività spettatoriale intellettiva che è l’essenza della gerarchia in base alla quale, da sempre, i Pochi dominano i Molti.

La democrazia rettamente intesa, ha la natura di un’idea limite, di un punto messo su un orizzonte che si sposta allontanandosi, tanto più ci avviciniamo. Tale natura quindi, usa il tempo progressivo, un percorso lungo nel quale vi sono molte stazioni intermedie, in cui come nelle scalate alpine, in ogni momento possiamo deluderci nel constatare quanto ancora ci manca ma in cui possiamo anche rincuorarci guardando indietro a quanta strada si è fatta. Un percorso in cui ogni stazione intermedia ha l’aria progressivamente più covernh120frizzantina e da cui l’orizzonte diventa viepiù ampio e chiaro. Tra democrazia e rivoluzione non vi è quindi alcun rapporto funzionale, l’eventuale concetto “rivoluzione democratica” può essere inteso solo come slogan nella battaglia delle idee. Potrebbe sempre accadere che nella concreta pratica sociale e politica, si verifichino momenti in cui occorre passare dalla relazione dialogante costruttiva all’azione brusca ma non sono queste le corde, i moschettoni ed i rampini che aiutano la nostra scalata. O meglio, si può e probabilmente si deve prevedere che azioni politiche di massa, pressioni forti, azioni diffuse, disobbedienze ferme, entrino a far parte di un movimento democratico ma sono da intendersi solo come strumenti di lotta politica contro gli anti-democratici e non è solo da questo confronto agonistico che sorge un percorso costruttivo di democrazia reale. L’importante è che quando c’è il corretto confronto democratico, i veri democratici siano di più (parecchio di più) dei confusi e dei falsi democratici.

La “lunga marcia democratica”, dovrebbe articolarsi nel raggiungimento di una serie di concreti obiettivi di progressiva democratizzazione. Il decalogo è semplice: 1) democratizzare costantemente l’istruzione e la formazione; 2) l’informazione; 3) creare occasioni e forme di partecipazione; 4) difendere il primato politico dall’economico ed ancorpiù dal finanziario, 5) difendere la possibilità strutturale di avere autonomia all’interno del contesto istituzionale dato (Stato, federazione, unione, confederazione); 6) ridurre costantemente i divari e le asimmetrie di conoscenza, possibilità, competenza politica, reddito e capitale; 7) liberare tempo per la sviluppo dell’aristotelico zoon politikon (che forse era protagoreo); 8) difendere le differenze di anagrafe, genere, etnia ma combattendo strenuamente la tendenza a comporle in gerarchie dominanti; 9) non smettere mai di cercare, ricercare, sperimentare nuove forme di funzionamento politicodownloadb67 democratico; 10) far retroagire costantemente i parziali risultati ottenuti modificando in base all’esperienza, la strategia in vigore precedentemente. Il tutto affiancato da una vigorosa ripresa dell’interrogazione teorica.  La “lunga marcia democratica” che poi dovrebbe essere una staffetta tra più generazioni, dovrebbe usare movimenti, associazioni ed eventualmente partiti per formare democratici e per implementare costantemente la propria democrazia interna. Questi universi minori, dovrebbero servire proprio come laboratorio democratico prima ancora di lanciare idee e proposte al loro esterno. L’azione politica democratica dovrebbe avere in oggetto sia il mondo politico – sociale – istituzionale (economico e culturale), sia i singoli individui della società intera e dei sottosistemi in cui è strutturata. In linea generale, l’obiettivo dovrebbe esser quello di ripristinare il dominio progressivo del politico su ogni altri ordine (economico, militare, religioso, culturale), del modo democratico su quello oligarchico o monarchico, la democrazia reale cioè inintermediata (diretta) su quella rappresentativa e comunque, fintanto questa in vigore, portarla su standard proporzionali coadiuvati dal ricorso all’espressione diretta (referendum propositivi ed abrogativi, iniziative di legge popolare etc.), ad elezioni frequenti, al mandato di rappresentanza vincolata, alla osmosi tra professionisti della politica e non, al più breve rapporto tra territorio e sistema generale (Stato, federazione). Ma si tenga sempre in conto che sebbene molto importate l’innovazione e la conformazione istituzionale in direzione della democrazia progressiva, sempre più importante sarà la costruzione e diffusione dei democratici. Quanti più numerosi, convinti e strutturati questi, tanto meno difficile sarà conseguire gli obiettivi politici che oggi possono sembrare utopici, tanto più le conquiste di percorso saranno irreversibili e potranno quindi cumularsi.

Arriviamo così all’ultimo punto che è poi è stato il primo che abbiamo analizzato, il rapporto tra pensiero politico e tempo, declinato sul caso di un progetto democratico.  downloadnb880Poco o nulla della nostra tradizione di filosofia politica e molto poco della nostra stessa essenza culturale, va in favore della democrazia. Soprattutto, la democrazia, risulta un modo politico assai scarsamente frequentato (mancanza di esperienza e registro storico) ed assai poco teorizzato. In più, la nostra tradizione di pensiero, riguardo i tempi dei progetti trasformativi è in un certo senso, ancora infantile. Infine, la democrazia è  naturale nei piccoli gruppi ma molto difficile da mantenere nei sistemi complessi umani. L’idea di porsi obiettivi limite da conseguire con la declinazione di una non dogmatica strategia ampia, passibile di continui aggiustamenti se non reindirizzamenti in base ai feedback ottenuti dalla pratica trasformativa, ben condivisa e partecipata (quindi essa stessa democratica), paziente nel conseguire obiettivi progressivi lungo assi di tempo che esuberano anche dalla lunghezza della singola vita media, può essere considerata una utopia in sé. In effetti, non abbiamo poi così bisogno dei “menù per le osterie del futuro”, di utopie che descrivano la proiezione dei nostri individuali interessi e desideri particolari sulla totalità. Quello di cui abbiamo più bisogno è di una procedura trasformativa e la democrazia reale è l’unica che utilizza tutti coloro che dovrebbero al contempo esser soggetti ed oggetti della pratica trasformativa, l’unica forma che crea l’autogoverno in base all’autocoscienza del sistema sociale che pensa ed agisce come un Uno che è tanto singolare quanto plurale, individuale e collettivo.

Il primo passo per un rilancio democratico consapevole dei rapporti strutturali tra tempo e politica, allora, sarà partire proprio da qui, dal lavoro teorico poiché ciò che non è abbastanza chiaro nelle menti, mai lo sarà nelle prassi.

(Terza ed ultima parte di tre. Qui la prima e qui la seconda)

= 0 =

[1] La Gran Bretagna, patria del bipolarismo, ha oggi una diffusa varietà di partiti. Gli USA, hanno nella presente campagna presidenziale, almeno quattro candidati (due per partito) che potrebbero rappresentare altrettanti partiti. La Francia ha almeno tre/quattro forze nazionali, anche l’Italia ed anche la Spagna. Il paradosso dei sistemi bipolari è che stante che la società è ripartita in almeno tre se non quattro parti (ma spesso anche di più), porteranno al governo una minoranza. Se poi si considera che i votanti sono sempre di meno, si arriva all’assurdo di sistemi che si definiscono maggioritari quando portano al potere frazioni assolutamente minoritarie. Da cui la crisi della rappresentanza. Non ci vuole un genio del costituzionalismo per capire che anche seguendo il solo lessico, la rappresentanza fa naturale rima con proporzionalità. Si noti come il mainstream commenti positivamente terze forze quando, come nel caso dei partiti “liberali”, incarnano istanze di riforma della società per meglio accordarla al mercato mentre quando spuntano fuori fenomeni come AfD tedesca o UKIP britannico o Fn francese o M5s italiano o Podemos spagnolo, allora scatti l’infamante categoria del “populismo”.

[2]L’isolamento è quel vicolo cieco in cui gli uomini si trovano spinti quando viene distrutta la sfera politica della loro vita, la sfera in cui essi operano insieme nel perseguimento di un interesse comune”, H. Arendt, Le origini del totalitarismo, op. cit.

[3] In effetti, l’unica cura contro la stasi politica sarebbe la competizione ma i sistemi maggioritari sono la negazione della competizione aperta.

[4] Se mettete una rana nell’acqua di una pentola sul fuoco, quando la rana percepirà l’eccesivo calore e proverà a saltar fuori non vi riuscirà perché i muscoli sono già in parte bolliti. Noi ci abituiamo ad ogni progressione e quando ci accorgiamo di abitudine in abitudine siamo giunti a condizioni indesiderate, s’è fatto tardi ed al pensiero (saltiamo presto fuori dalla pentola) non può più conseguire azione alcuna.

[5] L’utopia socio-religiosa di Gioacchino da Fiore (circa 1200), ugualmente pensava ad una prima età del Padre, una seconda età del Figlio ed una terza dello Spirito Santo, secondo Bloch una “democrazia mistica, senza signori né chiesa” (Il principio speranza, op. cit. p. 584).

[6] Questa democrazia spettatoriale è incredibilmente addirittura teorizzata da una non meno incredibile sequenza di teorici: gli elitisti, Max Weber, i democratici di ispirazione cristiana, A. Schumpeter e la vasta congerie di “liberali” che spadroneggiano nell’accademia soprattutto anglosassone, che poi è quella di riferimento per i giochi che contano.

Informazioni su pierluigi fagan

64 anni, sposato con: http://artforhousewives.wordpress.com/, due figli, un gatto. Professionista ed imprenditore per 23 anni. Negli ultimi venti e più anni ritirato a "confuciana vita di studio", svolge attività di ricerca multi-inter-transdisciplinare da indipendente. Il tema del blog è la complessità, nella sua accezione più ampia: sociale, economica, politica e geopolitica, culturale e filosofica. Nel 2017 ha pubblicato il libro: Verso un mondo multipolare, Fazi editore. Ogni tanto commenta notizie di politica internazionale su i principali media oltre ad esser ripubblicato su diverse testate on line. Fa parte dello staff che organizza l'annuale Festival della Complessità e pubblica su specifiche riviste di sistemica. Tiene regolarmente conferenze su i suoi temi di studio, in particolare sull'argomento "Mondo e complessità". Nel 2021 è uscito un suo contributo nel libro collettivo "Dopo il neoliberalismo. Indagine collettiva sul futuro" a cura di Carlo Formenti, Meltemi Editore. A seguire: "Europa al bivio. Tra radici e sfide" a cura di Vincenzo Costa, Marcianum press, 2024 Venezia e "L'era multipolare: competizione o cooperazione" a cura di Gabriele Germani, La Città del Sole, 2024, Napoli.
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6 risposte a TEMPO e POLITICA. (3/3)

  1. roberto donini ha detto:

    il tuo itinerario attorno alla democrazia morente e verso una democrazia assoluta -credo la definizione di Spinoza sia la più pertinente- è molto convincente. Il punto di snodo è quello dell’atomo democratico, di come si forma l’individuo democratico (che è in qualche maniera un ossimoro racchiudendo la tensione ad un proprio -ego- che si apre in aliud) che tu poni nel paragrafo LA DEMOCRAZIA ED IL TEMPO. In questo semplice (atomo in senso democriteo di complesso racchiuso) è il punto di articolazione soggetto-oggetto (coscienza) attraverso la pedagogia della ricerca, il dia-logo, la teoria. Al contrario la scena politica è, come dici, priva di questi elementi e tuttavia la trazione al frammento cui l’economico “speculativo” (nel senso di autoreferente) impone alla società, pone domande irriducibili alla democrazia “limitata”, come l’abbiamo conosciuta. Credo, e la tua elaborazione va in questo senso, che bisogna alzare l’asticella, aggrapparsi in quanto rane al bordo della pentola, dialogando anzitutto. In tal senso cercherò di mandarti una recensione più organica del tuo grande lavoro.

    • pierluigi fagan ha detto:

      Caro Roberto, grazie innanzitutto dell’attenzione che riservi al mio pensiero e grazie del contrappunto. Il punto, come hai ben individuato, è il tentativo di riportare attenzione sull’individuo, un individuo che la partizione odierna vuole irrelato o competitivo da una parte o sbiadito in un comunitarismo simmetrico contrario alla tesi dominante. Negli studi già pubblicati sull’ontologia della relazione, la cosa (nel nostro caso l’individuo) risulta essere il nodo delle relazioni, è fatto e fa relazioni ma al contempo è anche in sé. Da un po’ di tempo, mi ronza intorno un’analogia. Pensando a cosa continuiamo a sbagliare nel quel poco di politica attiva che si fa (o si pensa di fare), mi viene in mente Paolo di Tarso ed il cristianesimo delle origini. Ecco, credo che abbiamo perso l’eros per gli altri, il desiderio di convincerli, di far proselitismo, di parlare alla gente vera e convincerla ma convincerla con tutta la passione inesauribile di chi vuole conquistare un cuore (o una mente). Il mondo si cambia con gli altri e quindi aprirsi a gli altri, cercare di convincerli di qualcosa (ed aprirsi anche alla possibilità di esser a nostra volta convinti di cose che non avevamo pensato in toto o in parte o non in quel modo o dando quel giudizio) e nel far questa conversazione aperta, intanto camminare ma avendo uno straccio di idea di dove si va, altrimenti nessuno si mette in marcia. L’intero mio ragionamento tentava questo: chiarirsi una meta di percorso, sposare un metodo (e non ne vedo un altro che non sia la comunità dialogante che decide per massa critica) e non dimenticare che all’intersezione tra strutture e sovrastrutture, ci sono persone, individui, appunto. Paolo di Tarso, dobbiamo studiare Paolo di Tarso…con amicizia. P.L.

  2. Bruno Martina ha detto:

    Lei esplicita con chiarezza e convinzione un sentire diffuso che rende consapevoli dell’impotenza strutturale in cui si è immersi.
    Nel capoverso finale indica come inizio per un agire democratico la consapevolezza dei rapporti fra tempo e politica: sicuramente inizio necessario per individuare una strada e una meta. Tralascia però indicazioni di prassi quanto mai necessarie per superare la discrasia fra tempo organizzato, parcellizzato e cogente scandito per l’individuo nella società attuale e tempo necessario per un diverso agire.
    La sua scelta di vita, che può essere un modello di pensare ed agire, appartiene purtroppo alla capacità dei pochi.
    Un grandissimo grazie comunque per le analisi che ci offre.

    • pierluigi fagan ha detto:

      Grazie per i ringraziamenti. E’ il minimo che possa fare restituire un po’ di conoscenza ai Molti visto che per una serie di fortune e casualità, sono finito tra i Pochi.

      Sulle indicazioni, ricordo il decalogo. Quel decalogo non è astratto, è un’agenda politica. La prima e più importante cosa da fare (più importante perché è pre-condizione di possibilità per tutte le altre) è liberare tempo per le persone. Questo significa lottare per avere reddito e non necessariamente lavoro. C’è un ampio dibattito sul reddito di cittadinanza ma la ratio prima di questa proposta politica, è far vivere magari a livelli primari ma comunque sostanziali, persone che possono dover o voler non lavorare (o lavorare meno). Ovviamente, la battaglia per la riduzione dell’orario di lavoro è conseguente. E’ dal 1919 (non so quale segno di punteggiatura usare a commento sconcertato di questo dato) che si è convenuta a livello internazionale la giornata lavorativa a 8 ore. Dopo quasi un secolo di aumento della produttività, innovazione tecnologica, robotica, informatica, sovra-produzione dovuta anche alla globalizzazione, direi che dedicare un po’ meno tempo alla produzione sarebbe solo pura logica. Migliorerebbe anche la disoccupazione e molte altre cose (ne ho già scritto anche se qualche anno fa). Le democrazie del Nord Europa, parziali ma pur sempre socialdemocraticamente migliori delle nostre, sono presenti in paesi in cui l’orario di lavoro è ormai scivolato a 35 ed in alcuni casi 32 o 30 ore. Più tempo, più informazione, più conoscenza, minori possibilità di farsela “incartare”. La battaglia per la scuola pubblica (formazione), sia contro quella privata (noi ci abituiamo a tutto ma quando mai si è visto dei liberali invocare “aiuti di Stato” per quella che è una impresa?), sia per il miglioramento dei programmi, della formazione dei formatori, dell’ampliamento delle materie, delle sperimentazioni, del coinvolgimento degli adulti e molto altro. A proposito di adulti, segnalo l’andragogia, teoria dell’apprendimento ed educazione degli adulti. Perché non aprire scuole per gli adulti? Perché non promuovere una facoltà universitaria di generalismo, di sapere orizzontale di vari saperi? Poi ci sarebbero le battaglie sull’informazione ed altro su cui non mi dilungo qui ma su cui prometto di ritornare in seguito. Il mio sogno sarebbe un partito, un partito democratico (va da sé il deciso distinguo da forma impropria che usurpa il termine, attualmente a gli onori e disonori delle cronache, ovvio) o meglio, un partito (un movimento) dei democratici. E guardi che molte cose potrebbero discendere dal mettere in comune una minima visione del mondo democratica, pensi solo alle forze intellettive che si possono aggregare su Internet invece di disperderci in blog di blog e siti da 1000 visite al giorno. Anche una maggior buona educazione all’utilizzo di linguaggi ampiamente comprensibili, in molti casi, gioverebbe. Ma c’è ancora da fare sulla teoria prima di intraprendere questa eventuale azione, per questo, per ora, scrivo.

      C’è un fondo di utopismo in tutto ciò? Certo che c’è, di utopia concreta. Se solo tante persone che buttano via il loro tempo politico appresso a sistemi di idee sbilenchi o inattuali o falsificati dalla storia o contraddittori pur se fondati su ottime intenzioni, convergessero su i costituenti primi di un progetto veramente emancipatorio degli esseri umani individuali e collettivi, un progetto realista ed attuale e non legato al XIX° secolo, ad esempio, saremmo già a buon punto. Ma per questo ci vuole…tempo. Cordialmente…

  3. chris ha detto:

    Sono, come lei, tra i “pochi” che possono disporre di tutto il loro tempo e lo impiego a studiare. Vedo diffondersi con preoccupazione, come lei, l’analfabetismo funzionale e la privatizzazione della crescita collettiva, come le due morse della tenaglia che stritola le nostre società occidentali
    Ma non vedo sottostare al suo discorso il riconoscimento realistico della forza, in senso weiliano, che muove l’azione politica dei cinque livelli di potere da lei identificati. Perciò mi pare necessario pormi questa domanda: quale sarebbe, e dove lo si potrebbe prendere, il “cotone” per far lavorare una democrazia non di élite, non spettatoriale?
    Anche a proposito di Paolo di Tarso vorrei osservare qualcosa. L’apostolo delle genti ha senz’altro conquistato i cuori e le menti. Tanto da far diventare i cristiani i maggiori protagonisti dell’Impero, che peraltro andò avanti e poi si infranse per ragioni di forza: la sua grandezza richiedeva più mezzi per difendersi di quanti riuscisse a produrne, quindi cedette man mano pezzi fino alla disgregazione.
    Sempre riferendosi a Paolo, si deve entrare in un altro ordine di discorso: la diffusione del cristianesimo – su un piano ideologico extrastorico – fece sì che da quella disgregazione potesse nascere qualcosa di nuovo e di altro. Ma il lavoro di Paolo non cambiò la necessaria sorte dell’impero.
    L’allargamento democratico, se paragonabile alla grandezza ideologica del cristianesimo, potrà migliorare la mente e il cuore dei molti, ma la vita politica dei nostri stati europei è tuttora, e a lungo, decisa dalla forza.

    • pierluigi fagan ha detto:

      Chiarisco: io non ho credenze religiose di alcun tipo e non ho istintiva simpatia per i movimenti da esse ispirate. Il riferimento a Paolo, mi interessava come ideologo di massa, come inventore di un sistema di pensiero a cui però prestò anche molte cure organizzative di accompagno affinché si affermasse nei numeri che sappiamo. Mi interessa cioè il case history del primo cristianesimo per indagare meglio quante comunità si formarono, chi lo formò, come comunicavano (se comunicavano) tra loro, come erano organizzate, come fecero a sopravvivere sino a diventare massa critica etc., mi interessa l’impresa non il suo contenuto sebbene mi sia chiaro che promuovere promesse di vita eterna sia un bel vantaggio argomentativo. In particolare, mi interessa vedere come e quanto eros rivolto alla conversione, alla predicazione, alla diffusione del messaggio one-to-one, ci fosse. forse lo stesos di tanti movimenti eretici medioevali, forse lo stesso che animò anarchici, socialisti e comunisti della seconda metà del XIX secolo, insomma quello che abbiamo perduto facendoci atomizzare e sterilizzare intellettualmente, anche noi.

      La vita degli stati è senz’altro decisa dalla forza ma potrebbe (forse dovrebbe) anche esserla dall’equilibrio. Per equilibrio intendo una introiezione di massa dei problemi in essere, tale per cui si riuscisse a scartare imprese troppo onerose ed accettare solo quelle di cui si è convinti di poter pagare il prezzo. Insomma, sempre idealmente, credo che il massimo auspicabile potrebbe essere una comunità informata che decide consapevolmente il che fare, sapendo a priori, del prezzo connesso ad ogni singola scelta, o almeno a quelle strategiche. Come detto, non m’immagino il migliore dei mondi possibili domattina ma credo che molte piccole cose potrebbero progressivamente migliorare la nostra condizione ed aprirci a progressi successivi. Per fare un esempio, la Svezia ha deciso l’abbandono totale delle energie fossili (http://www.repubblica.it/economia/2015/10/08/news/svezia_energia_verde-124597141/) certo per ottimi e ben noti motivi ambientali ma non sfugga anche la decisione di emanciparsi totalmente dall’onere di avere relazioni condizionate (dipendenti, eteronome) dai paesi del Golfo e dall’Arabia saudita in primis (http://www.lastampa.it/2015/03/11/esteri/scontro-sveziaarabia-saudita-stoccolma-annulla-laccordo-militare-oUnS9eWlBfwSYoPuMYFbmN/pagina.html).

      Non so se ho ben inteso invece la prima questione. Se stava ponendo la questione della materia prima della democrazia (come il cotone lo fu del capitalismo industriale), io penso sia il tempo, il tempo a disposizione per occuparsi della cosa politica. In fondo era l’accusa fatta a posteriori alla democrazia ateniese, gli ateniesi avevano gli schiavi e quindi molto tempo a disposizione per occuparsi delle cose pubbliche, inclusi i simposi e le chiacchiere ai crocicchi dei mercato e delle vie, un dialogare incessante e continuo a cui i sofisti fornivano le tecniche di sviluppo dell’argomentazione, attività tutt’altro che disprezzabile (ma ampiamente disprezzata da Platone). Noi oggi abbiamo gli incrementi di produttività, l’informatizzazione ed una possibile lunga stagnazione davanti. Tutte cose che ci consentirebbero (ed anzi, consiglierebbero) un progressivo disimpegno dal lavoro, almeno parziale. Certo col cotone da solo non si fa la Rivoluzione industriale e così con maggior tempo individuale non si fa di per sé la democrazia ma l’uno e l’altro sono condizioni di possibilità non sufficienti ma necessarie.

      Spero di aver risposto alle sue sollecitazioni di cui, comunque, la ringrazio. Cordialmente….

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