TEMPO e POLITICA. (2/3)

La prima parte di questo studio ha affrontato i rapporti tra tempo e politica nella teoria. Tra sguardo alla contingenza e quella che Mumford chiamava “utopia della fuga”, ci è sembrata poco sviluppata la parte intermedia, l’utopia concreta à la Bloch o l’idea di lunga transizione, cioè di cambiamento progressivo direzionato e continuato. Dopo la teoria, ci volgeremo ora alle pratiche.

AZIONE POLITICA TRA BREVE E LUNGO TERMINE. Limiteremo le nostre considerazioni entro il modello della democrazia rappresentativa occidentale, perché è il modello “in atto”. Per “azione politica” intendiamo sia quella istituzionale, l’azione di governo, sia quella dei partiti e movimenti tanto al governo che all’opposizione. A parte, si tratterà dell’azione politica volta direttamente alla società, non cioè con immediati fini istituzionali.

copg67hCom’è noto, la democrazia rappresentativa, rinnova la rappresentanza ogni quattro o cinque anni (in genere), se le legislature hanno corso naturale. Questo tempo soffre su entrambi i lati dei suoi limiti, quello corto e quello lungo. Dal punto di vista della democrazia reale, votare ogni quattro o cinque anni, significa dare un mandato eccessivamente lungo. Difficile che i contenuti del mandato, quali di solito sono noti come piattaforma elettorale (al dl là del fatto che nella democrazia depotenziata ormai si voti a sensazione o tradizione più che per adesione razionale ad un piattaforma di idee e contenuti conosciuti), soprattutto in tempo di cambiamento come l’attuale, contengano effettivamente le questioni quali poi il personale politico si troverà a trattare.  Questo si trasforma in una delega per lo più in bianco su molti temi dell’azione politica, bianco che permetterà all’eletto di manovrare una o più soluzioni politiche, al netto dell’opinione di colui/coloro che dovrebbe rappresentare. Questa libertà dell’eletto rispetto al mandato è spesso sancita nell’impianto costituzionale stesso[1]. Ma se l’eletto agisce senza un mandato con disposizioni vincolate, non si ha autogoverno cioè democrazia (governo dei Molti), si ha governo degli eletti che ha assonanza con “governo delle élite” (governo del Pochi).

Dal punto di vista dell’azione politica invece, vi sono progetti, soprattutto progetti strutturali e specialmente e di nuovo, in periodi di profondo cambiamento, che meriterebbero ben più tempo per dispiegare l’intero processo di varo – implementazione – verifica dei primi risultati – correzioni parziali – secondi risultati – valutazione finale degli effetti. Ve ne sono anche altri, progetti di strategia profonda, che semplicemente non si riescono neanche ad impostare durante una media legislatura, col risultato che l’azione41uyth+5rmL._BO1,204,203,200_ politica manca del tutto della capacità di riformare la complessità sociale, strutturale ed istituzionale in vista del futuro. Lo stesso meccanismo della rappresentanza a medio periodo, impone al politico di portare risultati concreti all’elettore per vedersi confermata la delega. Questi progetti costruttivi del medio-lungo periodo mancano quindi sia nella teoria, che nella pratica, che nelle concrete possibilità offerte dalle forme e dai funzionamenti delle istituzioni[2].   Stati in cui esiste una certa convergenza tra le parti maggioritarie e le classi dirigenti sulla coltivazione dell’interesse nazionale, chissà poi con quale consapevole mandato degli elettori, in qualche modo vi riescono, in parte. Stati più agitati dalla dialettica governo – opposizione o dove le idee sulla costruzione sistemica sono plurali e tra loro incommensurabili o Stati in cui per ragioni intrinseche, si richiederebbe una strategia molto profonda e trasformante, quindi molto impegnativa, semplicemente si lasciano andare alla gestione corrente e così, si condannano al fallimento politico. Nell’uno o nell’altro caso, poiché non sono questi di solito gli oggetti del mandato di rappresentanza, i temi della profonda ristrutturazione dei sistemi in cui viviamo, non entrano nell’agenda politica e così non entrano nella cultura politica della società. Ciò è tanto più dannoso, laddove come detto per l’oggi, ci si trova in periodi di transizione storica non dovuti solo alle questioni interne di questo o quel paese. La mancanza di questo tempo della strategia profonda, del resto, fa il paio con la mancanza di progettualismo politico complesso che nella teoria politica dovrebbe porsi tra la continua emendazione dell’esistente e la fuga nell’utopismo. Il tempo, nei sistemi rappresentativi è troppo lungo per avere mandati che abbiano senso e condivisione e troppo breve per affrontare problemi strutturali profondi. Ciò si soffre di più in periodi di transizione che da una parte sottopongono molti problemi nuovi di continuo e dall’altra parte richiederebbero progetti di cambiamento profondo a media lunga scadenza. Il sistema rappresentativo sembra inidoneo a gestire le transizioni, tant’è che sempre più, le élite, richiamano ad un necessitato, ulteriore, accentramento del potere. Più però si accentra il potere, più questo potere frattura il ruolo politico dei Pochi rispetto a quello dei Molti. Le transizioni aprono una biforcazione tra efficienza (il potere direttivo dei Pochi) ed efficacia (la consapevolezza condivisa dei Molti).

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$_35Rispetto al sistema politico in atto, l’azione politica si orienta su quattro atteggiamenti.

I primi due si riconoscono nel sistema in atto con uno che si orienta alla gestione dell’esistente ed un altro che vorrebbe apporvi qualche modifica, dal punto di vista strutturale più di forma più che si sostanza. E’ questa la partizione conservatori – progressisti. In periodi di transizione, la partizione rimane ma gli interpreti possono invertirsi, chi era conservatore quando il sistema in atto funzionava, può diventare riformista perché avverte la necessità di modificarne sensibilmente le forme al mutare dei tempi e chi era un progressista volto a migliorare il sistema, può arretrare alla sua ostinata difesa ora che rischia di dissolversi in qualcos’altro.

I secondi due non si riconoscono nel sistema in atto. Uno dei due si pone come critica istituzionalizzata ad oltranza quasi che questo esercizio di costante ed ostinata negazione avesse una sottesa e misteriosa capacità di generare il nuovo[3]. Questa pratica, invero, ha una sua funzione correttiva di alcune variazioni più unilaterali ed a loro modo estremistiche, delle pratiche di chi è al governo, una buona opposizione ha funzioni contenitive e riesce ad esercitarle viepiù riflette un movimento sociale concreto che si manifesta politicamente nella società reale. Nel tempo, però, essa finisce con il mono colorare l’identità politica della forza d’opposizione, la quale dicendo NO a tutto non rende chiaro il suo SI a cosa realmente andrebbe. L’immagine che queste forze proiettano di se stesse è di mancare di un quadro strategico chiaro perché una strategia alternativa non è una strategia dialetticamente simmetrica. Nel tempo, questo esercizio del negativo, sforma la capacità politica complessiva dell’opposizione più radicale poiché in effetti si subisce l’agenda e le impostazioni di chi è al potere del sistema e si esercita il libro arbitrio solo su i singoli temi, per altro reiterando il monotono NO che è solo il simmetrico contrario. Nel tempo, altresì, questa testimonianza negativa, attira mentalità eccitate dal rigore critico ed allontana quelle dalla volontà costruttiva poiché passare una intera esistenza politica  a far fare le cose concrete a gli altri, riservandosi il gusto del solo dissenso, può essere molto frustrante e molto sterile. Semmai queste forze andassero a condividere qualche parziale pezzo di potere concreto, la distanza2309115 tra il loro idealismo programmatico e la dura e refrattaria realtà delle cose, creerebbe un fallimento che allontanerebbe immediatamente il consenso momentaneamente ricevuto. Anche perché lo si è ottenuto spesso su petizioni di principio che di per sé non fanno una realistica strategia politica[4]. L’altro modo di questa posizione anti-sistema, si tiene distante dall’ingaggio istituzionale o perché non ritiene di poterlo usare in proprio favore o perché teorizza che per funzionare, la posizione della dialettica di negazione debba essere più radicale ancora ed agita nel sociale, fuori dalle istituzioni. Ponendosi fuori dal sistema, non per questo si chiarisce l’alternativa perseguibile e si rimane in attesa di qualche evento trasformativo di solito confusamente insurrezionale proiettato su i teli del cinema Utopia. La resistenza sociale e culturale, politica, ha una sua nobile funzione, anche pratica qualora si eserciti su singoli tempi specifici ma “agire come se si fosse già liberi” (D. Graeber, 2009) si rende possibile solo se si opera su porzioni molto limitate dello spazio e del tempo politico. Di contro, questi esprimenti pratici di un altro modo politico, sono estremamente utili per sviluppare, pur dentro molti limiti e condizionamenti, l’alternativa possibile. Nei grandi numeri della politica in atto, però,  viepiù i problemi delle transizioni macroscopiche si fanno numerosi, concreti e pressanti, viepiù gli spettatori del cinema Utopia disertano e cominciano a frequentare una qualche forma di apparentemente “più concreta” demagogia.

L’azione politica nelle nostre democrazie rappresentative ha per lo più accettato questo sistema come unico modo possibile ed auspicabile. Le azioni alternative, si sono volte alla 5403648_282455rappresentanza del disagio sociale e al lavoro politico volto alla società, alle sue contraddizioni contingenti, scegliendo qualche soggetto o oggetto come riferimento principale (ad esempio, la classe operaia o dei lavoratori, le popolazioni di qualche zona, i “verdi”, gli “onesti”, la “nazione”, una qualche disobbedienza civica).  Così come la teoria politica è rivolta al presente, l’azione politica lo è in pari grado. Il medio-lungo periodo è fuori dai radar concettuali e pratici, della politica pensata ed agita.

Un caso emblematico è il rapporto tra democrazia e sistema politico-territoriale. Ai fini dello sviluppo di una democrazia, fintanto che si accetterà il formato stato-nazionale come dogma cioè, fintanto che non si progettino forme di comunità più piccole tra loro federate, il rappresentativo nei grandi numeri produrrà solo quello che questa logica può produrre: élite. Progetti di unione sovranazionale produrranno élite di élite. Pratiche concrete di esproprio del potere politico in funzione di quello economico o peggio, finanziario, su scala planetaria (detta “globale”) creano élite planetarie che subordinano élite continentali che subordinano élite nazionali. Questo percorso si sa già dove porta, porta a formare blocchi imperiali, una ristretta magafauna in violenta, reciproca competizione per la leadership planetaria, con i sistemi in atto che richiameranno élite sempre più strette e decisioniste ed una agile catena di comando volta a strutturare in ogni modo il corpo collettivo per renderlo idoneo alla competizione continua verso l’alto. Il democratico dovrebbe simmetricamente andare dalla parte opposta, tornare al basso, ma il democratico non ha ancora base politico-sociale formata e non ha tradizione teorica, quindi viene travolto dagli eventi.

TRASFORMAZIONE POLITICA E TEMPO.

I programmi di trasformazione politica sono stati sempre legati al tempo umano. Il tempo umano, che siano individui o loro formazioni sociali, è sempre stato nei limiti del “mio – nostro presente” e del “mio – nostro futuro” intesi come tempi di esistenza personale. Poiché la politica verte sulla ricerca di soluzioni a problemi, questi problemi diventano i miei – nostri problemi dell’oggi e semmai dell’immediato futuro. Questo assetto ècope4 unilateralmente sbilanciato, nel senso che potrebbero ben darsi problemi la cui natura non prevede alcuna soluzione effettiva, neanche parziale, nell’oggi o nell’immediato futuro. Già il porre l’ipotetica soluzione in un futuro ancora per noi possibile (lungo cioè il raggio della nostra singola esistenza) ma distante, ci allontana molto dall’ingaggio nel pensiero ed ancorpiù nell’azione trasformatrice. Se poi, si dà il caso di problemi strutturali profondi ed estesi, ad esempio una trasformazione radicale della società, problemi le cui soluzioni potrebbero porsi certo non entro l’estensione della nostra singola esistenza, allora questi problemi non vengono neanche presi in considerazione. O meglio, non vengono presi in considerazione nella loro natura di lungo tempo, vengono cioè de-temporalizzati, in modo da confortarci sul fatto che potremmo affrontarli e risolverli in tempi che ancora ci prevedono.

Ma se ci volgiamo all’esperienza concreta, se cioè analizziamo la storia, la storia delle società, dei loro modi organizzativi, del come i problemi si sono presentati e di come sono stati affrontati e di come e quando sono stati risolti o meglio, di come si sono evoluti per Copertina_Cosimo_Quarta_Homo_utopicus_Edizioni_Dedaloconto loro ed alla fine risolti perché affogati in problemi maggiori o di diversa forma sistemica, vediamo che il tempo delle trasformazioni è sempre più lungo di quello di una singola esistenza. Se facciamo questa analisi del tempo storico, in cerca del movimento trasformativo strutturale e sistemico che ha portato da una epoca ad un’altra, da un modo all’altro, da una forma all’altra, la metrica temporale ha base più su i decenni ed i secoli, che su gli anni. Vediamo cioè che “nella realtà”, i sistemi sociali cambiano continuamente ma decisivamente solo se poniamo la partenza e l’arrivo del processo trasformativo, su un asse temporale che non prevede mai la copertura di una singola esistenza umana. Anche quando la storia sembra accelerare e portare ad una trasformazione rapida, occorre vedere in quanto tempo quante gocce si sono dovute sommare per arrivare a quella che ha fatto traboccare il vaso. Bisogna anche vedere se quella che ci appare una radicale trasformazione è veramente tale nei suoi più profondi aspetti strutturali e se è ben riflessa nella mentalità delle persone coinvolte, se cioè è irreversibile[5].  Si può fare la Rivoluzione francese e segnare importanti pagine di storia, ma se poi all’Uno del monarca assoluto, subentra l’Uno dell’imperatore non meno assoluto, allora si deve conseguire che la trasformazione è stata solo formale e non sostanziale o appena iniziata ma non sviluppata o posta ma subito, potentemente avversata.

Ne conseguiamo la fotografia di un altro problema di relazione temporale quello che si registra sistematicamente tra la natura delle trasformazioni complesse che è un tempo lungo e quello della natura dei nostri pensieri ed azione politica che è traguardato raramente sul tempo medio e più spesso su quello breve e mai su i tempi di lunga durata. Questo problema si sovrappone a quello iniziale, alla mancanza cioè di un pensiero teorico politico la cui ambiziosa meta è molto al di là della sua raggiungibilità per una singola
hellermazzeo-265x198esistenza ma che è in grado di dettagliare una mappa di viaggio che renda significativa la transizione anche per la singola esistenza.

Per fare un esempio, l’idea di una società pacifica, egalitaria e perfettamente autocosciente in ogni sua singola componente (in pratica, il contenuto se non di tutte, del maggior numero di utopie pensate nella storia umana), è probabilmente una idea-limite, o un’idea-guida (un’utopia concreta à la Bloch), la cui perfetta raggiungibilità non sappiamo neanche se mai sarà possibile ma di cui sappiamo che sicuramente non sarà possibile neanche intravedere una lontana idea di traguardo entro il raggio della nostra singola esistenza. Ciononostante è possibile tenere questa idea come guida di un processo che orientato da essa, consegua una serie di tappe di avvicinamento progressivo che portino dei benefici parziali che ricadano anche sulla singola esistenza e così via di generazione in generazione. Se l’alternativa è tra la cura ottusa della contingenza e la fuga impossibile nell’utopia o la fuga nella credenza su i poteri taumaturgici della rivoluzione, dovremmo procedere verso una utopia da realizzare o seguire attraverso passaggi intermedi ma passaggi che diano senso all’azione trasformatrice e che rappresentino dei guadagni immediatamente spendibili per migliorare il nostro stato di mondo attuale. Il presente si cambia costruendo futuro.

Tutte le mancanze rilevate rispetto al modo trasformativo progressivo e permanente, hanno fatto si che il modo d’intendere la trasformazione radicale in vista di una utopia o meglio, di un radicalmente diverso stato di mondo, sia collassato nel concetto di rivoluzione. L’analisi delle rivoluzioni come compressione storica del mutamento strutturale e sistemico, ci porterebbe via troppo tempo e meriterebbe un saggio a sé. Orientativamente, se sono relativamente improvvise e non conseguono processi di mutamento diffuso e cumulativo nonché di lunga durata, se muovono da reazioni e non sono accompagnate da costruzioni, da un progetto direzionato non solo dalla fuga dall’insopportabile esistente, servono a poco o non servono a niente[6].

Rinominata la Rivoluzione americana per quello che è stata e cioè una guerra d’indipendenza, la Rivoluzione francese ha aperto un processo che però ha portato alla repubblica parlamentare quasi un secolo dopo i suoi rumorosi accadimenti, ammesso cheUtopia(31911)_1 la repubblica parlamentare fosse l’effettiva destinazione di tutto l’impeto rivoluzionario, cosa su cui si può dubitare. La Rivoluzione russa ha portato ad un sistema che non credo si possa dire conforme alle intenzioni originarie e terminata l’Unione sovietica,  è bastato qualche mese per uniformarsi al modello capitalista con grande ritorno della religione ortodossa come vera identità russa. La Rivoluzione cinese ha cambiato qualcosa di più, visto che si proveniva da una millenaria struttura imperial-confuciana ma anche qui i risultati non sono stati conformi alle intenzioni teoriche ed anche qui, è bastato poco per virare verso il modello capitalista ed un grande ritorno del neo-confucianesimo come vera identità profonda di quella cultura. Stalin si può pensare come uno zar rosso, Mao come un Rosso Imperatore, strutturalmente il cambiamento effettivo è stato inferiore alle attese, più di forma che di sostanza. Nel comunismo marxiano, la rivoluzione, ovvero il cambiamento strutturale collassato in un punto spazio-temporale decisivo, consegue l’idea che tutto il modo di stare la mondo discenda dai rapporti di produzione. E’ ovvio e conseguente quindi ritenere che modificati questi, anche d’imperio, cambi tutto. Ma il tentativo pratico di seguire questa intuizione di una presunta legge socio-storica riduzionista ha dimostrato che tale riduzione è eccessiva e la legge non copre tutti i fenomeni della realtà.  Forse l’unica rivoluzione compiuta è stata quella delle élite inglesi che in due riprese (Guerra civile e Gloriosa rivoluzione), nel XVII° secolo, hanno anteposto alle élite dell’aristocrazia e del clero, quelle della ricchezza che votano i loro rappresentanti in parlamento (in seguito, rinominata “democrazia rappresentativa”). Ma vi furono molte condizioni particolari che hanno congiurato a questo successo, condizioni che limitano il significato di questo successo al particolare, non consentono cioè di ritenere la “rivoluzione” un modello trasformativo di utilità universale. Inoltre, quella francese, quella russa e quella cinese (che comunque ebbe anche caratteri di guerra d’indipendenza saggiamente denominata “lunga” marcia), furono rivoluzioni che ruppero lo stato di cose precedente nella speranza di dar luogo ad un diverso sistema, quella inglese invece, ruppe sì lo stato di cose precedente ma avendo già nei fatti sociali, il nuovo sistema di funzionamento già in atto, la società era già parzialmente innervata da una diffusa e fiorente attività di produzione e scambio. La Gloriosa rivoluzione fu la presa del potere di un sistema che già esisteva nella società e reclamava la funzione istituzionale di governo per alimentare il successo della propria struttura già in atto. Nei fatti iniziali, fu Utopia(35671)_1più la sostituzione di una élite con un’altra. Infine, tecnicamente, non fu affatto una “rivoluzione” nel senso popolare del termine ma un colpo di stato elitista con ricorso all’esercito di un re straniero invitato ad invadere l’Inghilterra. Bisogna avere la faccia ben tosta di uno storico whig per chiamare questa una “rivoluzione”, sebbene gli effetti del colpo di stato elitista, furono apparentemente “rivoluzionari”.

Concettualmente, la rivoluzione sembra essere una dinamica adatta ai vertici dei sistemi. Si affermano nuove élite (partito rivoluzionario), nuove classi dominanti (Marx notava –forse con un tratto d’invida– che la borghesia è eminentamente “rivoluzionaria”), nuovi paradigmi (T. Khun), nuovi mezzi di produzione (macchine-industria), singole idee (rivoluzione copernicana). Essendo un mutamento piccolo ma decisivo, perché avviene ai vertici dei sistemi, porta al “cambiamento a strascico (o a “cascata”)”. L’affermazione e continua implementazione di un modo democratico, sostanzialmente non sa che farsene di questa dinamica che per avere efficacia prevede sistemi a struttura gerarchica del cui cuore s’impossessa repentinamente.  La “rivoluzione democratica” della Comune di Parigi (1871), sebbene abbia arricchito la mitologia dell’idea, durò poco più di due mesi prima di esser annegata nel sangue, la democrazia, non s’improvvisa. L’espressione “rivoluzione culturale” è un ibrido interessante. Qui, l’ambito sistemico, la “cultura”, già di per sé determina una cauta aspettativa complessa, nessuno s’immagina di sovvertire un sistema culturale in maniera catastrofica (improvvisamente e totalmente). In questo contesto, “rivoluzione” perde il significato di tempo compresso e mantiene solo quello di riorientamento complessivo. L’implausibilità del concetto di rivoluzione politica per come la si è storicamente intesa sul portato del XIX° secolo, emerge da questa stessa considerazione poiché il politico ha certo in sé una forte componente culturale e se non è possibile modificare le culture catastroficamente non si vede come possa esserlo il “politico”.

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Rimaniamo quindi con la nostra mancanza di una teoria politica del cambiamento strutturale progressivo, con strutture politico-istituzionali delegate alla gestione del contingente, deleghe troppo lunghe per avere significato condiviso e troppo brevi per dirigere processi profondi, con l’evidenza che le trasformazioni significative irreversibili sono rare e molto lente, con la disillusione per le promesse rivoluzionarie che apparentemente muovono tutto ma per non cambiare niente di decisivo e nonostante la rassicurante conformazione “dialettica”, niente di irreversibile. Del resto, anche per cambiare noi stessi, sebbene ogni tanto ci abbandoniamo a fantasie radicali che ci promettono un nuovo noi stessi domattina, ci vogliono decenni. Dimagrire, recuperare tonicità, imparare una lingua, modificare la nostra posizione sociale, l’atteggiamento esistenziale, il giro degli amici, non sono cose difficili in sé, solo, richiedono costanza del medio-periodo se non del lungo. E’ questa costanza che viene tradita sistematicamente dalla nostra volubilità, dal ricatto del contingente, dalla fretta di conseguire risultati immediati anche quando non è possibile.

Il complesso, richiede tempi medio lunghi di trasformazione profonda, semplicemente perché è dotato di tante parti e di ancorpiù interrelazioni che formano ordini e funzioni. C’è una inerzia ed un attrito quantitativo che si oppone alla trasformazione qualitativa.

Oggi, rapiti dal nuovo stato di mondo che impone soggetti macroscopici quali non sono41e+cxC9R1L._SX305_BO1,204,203,200_ storicamente gli stati-nazione europei, ci avviamo recalcitranti a forme di unione continentale che ordinate dal sistema rappresentativo, produrranno élite di primo livello che subordineranno quelle nazionali rendendole di secondo livello. Alla luce di questo peggioramento delle condizioni di democrazia, riscopriamo addirittura che il vecchio Stato-nazione era meglio di quanto credessimo opponendo questo alle nuove costruzioni ultra-elitarie delle unioni. L’idea del socialismo, addirittura è fondata sulla necessità dello Stato che dovrebbe svolgere il ruolo di imprenditore – redistributore per cui l’opposizione al progetto imperial-mondialista è diventata la difesa della “sovranità” nazionale. Si ricordi che lo stato-nazione fu una invenzione delle élite monarchiche per accrescere l’income fiscale per pagarsi eserciti con cui giocare al gioco di tutti i giochi per quel tipo di élite: il torneo infinito delle nazioni combattenti.  L’idea che la democrazia ci imporrebbe di riformare i nostri sistemi di vita associata andando esattamente per la strada opposta ovvero riformando comunità di città-regione poi da federarsi in sistemi di sistemi è del tutto ignorata così da continuare a sperperare tempo, parole ed energie nel declamare mondi viepiù improbabili (tipo l’Unione europea democratica) se contenuti dentro strutture che non danno le condizioni di semplice possibilità[7] per il sistema dell’autogoverno detto “democrazia”.

(Seconda parte di tre. Qui la prima)

[1] Il famoso vincolo di mandato è giudicato irrealistico ma è da intendersi tale solo nel più complessivo sistema politico della democrazia rappresentativa. Quando si critica l’assenza di vincolo di mandato, lo si fa alla luce di un principio per il quale la sovranità scivola dall’individuo delegante al delegato o meglio da molti individui deleganti ad un solo delegato. Vorrei però segnalare un altro aspetto del problema che è forse ancora più importante. Se non ci si obbliga ad avere cittadini conoscenti  ed informati al punto da dare un mandato di rappresentanza vincolata, implicitamente si ammette che il cittadino copnhc4non sa della cosa politica se non in un senso molto vago. Tutto il problema della democrazia, risiede a mio avviso in questo punto: non solo debbono porsi forme che diano all’individuo il potere di decisione sovrana ma si debbono soprattutto porre condizioni perché l’individuo sia in grado di partecipare alla sovranità politica. Se i cittadini fossero veramente in grado di partecipare con scienza e coscienza alla gestione politica della propria comunità, le forme pratiche della delega o dell’espressione diretta diverrebbero quello che dovrebbero essere, aspetti tecnici e funzionali. Il problema non è in questa o quella forma costituzionale, funzionale o processuale ma nella perdita di politicità degli individui, gli individui non sanno di ciò che è la comunità, dei suoi problemi, delle conseguenze di questa o quella scelta. Tutta la riflessione filosofica e politica, critica sulla democrazia, verte su questo punto: i Molti non sanno, non sono in grado. Questa critica nella quale ci sono sicuramente delle furbizie utilitarie, va però anche presa sul serio perché, per buona parte, il problema è proprio lì. Ma tale problema non è una definitiva condanna, non è legge di natura. La prima cosa che dovrebbe affrontare il pensiero democratico è proprio come affrontare questo problema.  Data una buona diffusione in quantità e qualità dei contenuti e della capacità di giudizio, il dibattito sulle forme e financo sulla leadership avrebbe caratteri più funzionalistici.

[2] Laddove esistenti sistemi bicamerali si sarebbe in teoria potuto dare una camera al51pHTC6h-CL._AC_US160_ breve periodo ed una al lungo ma i sistemi sono stati pensati in un periodo che non prevedeva il suo stesso trapasso ad altro. Il bicameralismo nasce in Inghilterra con l’impianto del potere parlamentare diviso in due classi, quella aristocratiche e quelle borghesi.

[3] Convinzione dei poteri generativi della dialettica hegeliana, convinzione mal risposta.

[4] Occorre ammettere che spesso, le opposizioni, speculano sulla stessa ignoranza politica su cui prosperano le élite dominanti. Demagogia e populismo (termine sdrucciolevole) ne sono figlie.

[5] Una trasformazione sociale è irreversibile solo quando i contenuti culturali della precedente non sono più mentalmente rappresentati e rappresentabili nella mentalità della popolazione e nello stato concreto della società.

[6] Il giudizio è senza sfumature se consideriamo gli obiettivi dati. Certo, ogni rivoluzione porta un qualche grado di emancipazione relativa, consegue qualche obiettivo sebbene poi perda momentaneamente la posizione ottenuta, “segna” la storia di un dato popolo e scrive esperienze irreversibili ma noi qui stiamo cercando una dinamica trasformativa che abbiaTommaso-Moro_Utopia relativo successo, non la gloria di una partita ben giocata ma infine persa, del passo avanti pagato con due indietro.

Mumford (Storia dell’utopia) nota che due terzi delle utopie scritte si concentrano nel XIX° secolo, secolo in cui si condensa anche il concetto di rivoluzione. Il XIX° fu il secolo in cui capimmo che il mondo era trasformabile. Ma così come le utopie del tempo furono quasi tutte basate su mezzi, nel senso che riflettendo la grande esplosione tecnico-scientifica ed economica si volsero all’immaginazione strumentalista, così la “rivoluzione” venne immaginata essere lo strumento per cambiare. In metafora, così come la pressione del vapore azionava la ruota che compiva il lavoro trasformativo, così l’energia sociale avrebbe mosso le ruote della storia trasformando il mondo ed il nostro modo di viverlo. La rivoluzione par exellence del tempo, fu la “Rivoluzione industriale” ma oggi sappiamo che per arrivare a quel culmine si partì molto tempo prima. Lo storico olandese Jan de Vries ha coniato a proposito l’influente  concetto di “Rivoluzione industriosa” che datò a più due secoli prima di quella industriale. Anche la cosiddetta “Rivoluzione agricola” (V. G. Childe, archeologo marxista), abbiamo poi scoperto che fu una lentissima trasformazione che durò addirittura millenni. Ancora una volta, il movimento storico sembra esser soggetto alla “longue dureè” di braudeliana memoria.

[7] Questo del pensare a riformare poleis sebbene poi intelaiate in federazioni plurilivello è ritenuta una “utopia”. Così, si accetta di giocare dentro i tavoli ed i regolamenti di “più democrazia per l’Europa” o in quell’altro non meno surreale del “torniamo allo stato-nazione democratico (?)”. Ma cercare di fare democrazia entro entità di milioni, decine o addirittura centinaia di milioni di individui associati con i sistemi rappresentativi è come pretendere che un elefante diventi sinuoso come un’anguilla, logica surreale che però pensa di sé di essere il massimo del realismo. Surrealismo cubista (cioè al cubo). Non vorremmo scomodare Aristotele ma se la forma non è da sola la sostanza quantomeno ne limita di parecchio le condizioni di possibilità.

Informazioni su pierluigi fagan

64 anni, sposato con: http://artforhousewives.wordpress.com/, due figli, un gatto. Professionista ed imprenditore per 23 anni. Negli ultimi venti e più anni ritirato a "confuciana vita di studio", svolge attività di ricerca multi-inter-transdisciplinare da indipendente. Il tema del blog è la complessità, nella sua accezione più ampia: sociale, economica, politica e geopolitica, culturale e filosofica. Nel 2017 ha pubblicato il libro: Verso un mondo multipolare, Fazi editore. Ogni tanto commenta notizie di politica internazionale su i principali media oltre ad esser ripubblicato su diverse testate on line. Fa parte dello staff che organizza l'annuale Festival della Complessità e pubblica su specifiche riviste di sistemica. Tiene regolarmente conferenze su i suoi temi di studio, in particolare sull'argomento "Mondo e complessità". Nel 2021 è uscito un suo contributo nel libro collettivo "Dopo il neoliberalismo. Indagine collettiva sul futuro" a cura di Carlo Formenti, Meltemi Editore. A seguire: "Europa al bivio. Tra radici e sfide" a cura di Vincenzo Costa, Marcianum press, 2024 Venezia e "L'era multipolare: competizione o cooperazione" a cura di Gabriele Germani, La Città del Sole, 2024, Napoli.
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4 risposte a TEMPO e POLITICA. (2/3)

  1. roberto donini ha detto:

    Ricca di temi questa seconda puntata. 1) so che hai qualche perplessità su Luciano Canfora, tuttavia i suoi lavori attorno alla “retorica democratica”, su tutti La democrazia. Storia di un’ideologia, Roma-Bari, Laterza, 2004, mi paiono utili, anche considerando l’impatto e la censura che l’opera ebbe. 2) Condivido le tue considerazioni critiche sulla forma “iperpolitica” e moderna della rivoluzione, avverto delle assonanze con la critica di Antonio Gramsci alla “presa del palazzo d’inverno” quale modello utilizzabile per l’occidente complesso. Non a caso la sua opera indaga sulle complesse resistenze (istituzioni) e culture a diverse velocità temporali (popolari, religiose, alte, tecniche, ecc.) irriducibili ad unica temporalità. 3) Delle rivoluzioni condivido totalmente la tua partizione (Labriola per es. ha ben presente la complessa mediazione di quella inglese lavorando ai suoi studi sulla sua “rivoluzione francese”). La rivoluzione è forma specifica del moderno: prometeica speranza di poter piegare la complessità storica con un semplice grimaldello politico (cioè “un pezzo di ferro”). Prometeo è molto presente all’iconografia socialista, ti segnalo in merito uno scritto di Ivan Illich su Epimeteo (il fratello di Prometeo) qui http://nuke.aminamundi.it/aminAMundiPsicologiaantropologia/IvanIllichRinascitadelluomoEpimeteico/tabid/189/Default.aspx . 4) Sull’Utopia, sottolinei qui (in questa seconda puntata) le insufficienze pratiche, la difficile coniugazione alla temporalità politica. Credo che l’utopia dentro la modernità dell’urgenza abbia ambito alla funzione “contemplativa” di trascendimento del tempo, cioè di quel tempo termodinamico che è la produzione capitalistica. In un certo senso l’articolazione e il dettaglio di alcune di questi progetti -penso ad es. all’interesse per l’architettura e l’urbanistica, come nel Falansterio di Fourier- cercano di comprendere la complessità antropologica, tuttavia riducendo, anche loro, il cambiamento ad una singola variabile (l’abitare). 5) Transizione questo è il concetto chiave che accenni, concordo con te, che va sorretto da una visione, da un apparato analitico in grado di spiegare la complessità da cui ci si allontana e quella verso cui si avvicina. Qui mi viene in mente la questione della periodizzazione, aperta da Labriola proprio in Da un secolo all’altro, e maturata nel concetto di “epoca” in Gramsci (ti segnalo una chiara trattazione nei saggi di Alberto Burgio in particolare nell’ultimo “Gramsci: il sistema in movimento”). Epoca nel senso stoico e fenomenologico di “sospensione” di temporalità, cioè l’insieme dentro cui poter complicare (nessi reciproci e non solo causali) le temporalità specifiche (struttura, sovrastruttura –Labriola aggiunge un terzo livello di produzioni simboliche) e corso ripercorribile al contrario e in avanti dall’interrogazione politica.

  2. alfio ha detto:

    sarebbe anche interessante sviluppare e approfondire il senso che in ambito poltitico da’ spinoza
    al termine amicizia , meglio forse traducibile come amichevolezza in quanto elemento
    di condivisione politica e sociale tra cittadini.

    • pierluigi fagan ha detto:

      Lo faremo, in seguito. Grazie dello stimolo. L’intero sviluppo di TEMPO e POLITICA è per lo più negativo. Termina con un (auto)invito a riprendere la teorizzazione della democrazia. Quello è l’ambito in cui senz’altro Spinoza, come già altri hanno notato (A.Negri ad esempio), potrà dirci cose….

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