ONTOLOGIA DELLE RELAZIONI. (1)

Iniziamo qui, una ricerca aperta (cioè non continuativa ovvero di cui questo è un primo approccio a cui altri seguiranno)  su quanto nel titolo.

Nel piccolo volumetto “Fisica estrema” (€ 6.90) in edicola con le Scienze, si riassumono i fronti avanzati della ricerca fisica contemporanea. Un resoconto aperto da C. Rovelli Sfide per la fisica del futuro-, di cui qui abbiamo recensito l’ultima fatica editoriale. Nella nostra recensione, ronzavamo attorno al concetto di –ontologia delle relazioni– che vediamo promettente per fondare una nuova filosofia della complessità, l’oggetto della ricerca che qui conduciamo.

downloadNel volumetto c’è qualcosa di molto interessante per la nostra ricerca. Si tratta dell’articolo del fisico-filosofo Meinard Kuhlmann, Che cosa è reale? uscito nel 2013 su le Scienze italiano e quello americano.  Kuhlmann parte dalla Teoria quantistica dei campi (come Rovelli), ovvero da un costrutto teorico che tenta di unire le due grandi teorie madri della fisica del  ‘900, la meccanica quantistica e la relatività, valide per la loro capacità di far predizioni esatte, ma tra loro incomunicanti. In questo ambito, i fisici si riferiscono indistintamente a due descrizioni diverse dell’oggetto fondamentale, alcuni si riferiscono a “particelle”, altri ai “campi”, stante che dove c’è quella che diciamo particella, c’è anche un campo.

Il tedesco però ricorda che il concetto di particella è molto vago poiché di questi presunti oggetti, secondo la m-q, noi non possiamo dire la posizione precisa ed altresì essi mostrano comportamenti non locali, il loro posizionamento appare diverso a seconda della dinamica degli osservatori, non si possono contare con precisione, nel vuoto appaiono e poi scompaiono (da dove vengono, dove vanno, cosa li fa “essere” per brevissimi istanti?). Nel caso dell’entanglement non si sa se sono due o uno solo o “qualcosa” che fa parte di un tutto. Difficile sostenere che ciò che chiamiamo “particella” sia quello che il nome evoca. Nel mondo microscopico, c’è dunque qualcosa ma non sembra corrispondere all’idea a priori con il quale lo entifichiamo. Se “particella” ha una essenza e quell’essenza non coincide affatto con il “qualcosa”, ne consegue che il qualcosa -non è- una particella.

411z2gLEOAL._SY300_Ci rivolgiamo allora all’altro sguardo interpretativo, quello dei campi. Qui i problemi sono relativi al fatto che la quantizzazione dei campi è una operazione matematica, che non assegna valori a veri e propri osservabili, ma a probabilità diffuse in un certo spazio. Inoltre, per arrivare a precisazioni più determinate, occorre combinare i valori col vettore di stato che però è una caratteristica del campo intero, non di un suo punto specifico. In pratica, la descrizione a campi è produttiva se operata in linguaggio matematico ma non è (ancora o in sé?) traducibile in linguaggio comune.

Ma ci sono altre due alternative, da esplorare. Una di queste ricorre ai -tropi-.  Il termine deriva dall’antico scetticismo di cui abbiamo parlato qui. Col termine si intendeva, modi che argomentavano in forme tali da palesare una contraddizione irrisolvibile che induce alla sospensione del giudizio. I tropi di una nuova possibile nuova interpretazione dei fondamenti della Teoria dei campi quantistici (QFT in inglese), sono invece proprietà delle cose, ma poiché abbiamo detto che è assai improprio presupporre l’esistenza di cose, rimangono solo le proprietà. Le cose, vengono sostituite da fasci di proprietà che appaiono in punti dello spazio-tempo. Invece di immaginare una cosa di cui predichiamo proprietà universali, le proprietà sono individuali e riunite in un punto. La contraddizione particella – campo, viene sciolta in un tropo che mostra le proprietà di quella che noi indebitamente postuliamo essere una particella (che alla verifica non risponde come tale) in un punto del campo. Approfondiremo più avanti, il concetto di tropo,

978-94-007-2578-2_Cover_PrintPDF.inddL’altro modo di esplorare la soluzione interpretativa è quella più propriamente relazionale e prende il nome di -realismo strutturale-. Ne comparve una prima versione detta –realismo strutturale epistemico– che diceva: sull’esistenza delle cose siamo agnostici, sull’esistenza delle loro proprietà e delle relazioni che intrattengono invece abbiamo conoscenza. Ci occuperemo quindi di ciò che possiamo conoscere, le relazioni. Ne segue una seconda versione che dal fatto che le fatidiche cose presupposte non si possono verificare in esistenza, deduce che -fino a prova contraria- esse non esistono proprio. Questa è la forma forte del –realismo strutturale ontico-, che pensa esistano solo strutture fatte di reti di relazioni. Con Web, cervello-mente, genoma, noi definiamo strutture, reti di relazioni. Kuhlmann è propugnatore di questa versione forte di relazioni senza oggetti. Una correlata versione, un po’ meno forte,  dice che le relazioni sono ontologicamente primarie ma non sono l’unica cosa che c’è, ci sono anche oggetti alle terminazioni delle relazioni solo che prendono le loro proprietà appunto nella relazione. Kuhlmann liquida la posizione con: “…questa posizione pare debole”, senza ulteriore specifica ed aggiunge “l’unica posizione nuova ed interessante sarebbe che tutto emerga dalle relazioni”.  Non si capisce perché la prima è ritenuta una posizione debole e non si capisce bene a che categoria di giudizio appartenga il “nuovo ed interessante”, bisognerà approfondire.

In pratica le tre versioni del realismo strutturale, dicono :

1) ci sono (forse) cose, ma noi possiamo conoscere solo le loro relazioni che danno vita a fasci di proprietà (tropi);

2) non ci son cose ma solo reti di relazioni che determinano fasci di proprietà in punti dello spazio-tempo;

3) ci sono possibilità e probabilità di cose che tali diventano manifestandosi come fasci di proprietà, in base alle loro interrelazioni.

La prima è la versione epistemica, la seconda è quelle di Kuhlmann detta ontica, la terza è quella che personalmente preferiamo che diremmo non strutturale ma ontico-relazionale. Con riserve anche sulla possibilità di usare l’impegnativo termine “realismo” o meglio, di assumerlo in forma critica.  La faccenda è però tutta assai interessante poiché come dice lo stesso Kuhlmann: “Sempre più persone pensano che sono le relazioni in cui si trovano le cose a essere importanti, non le cose stesse[1]. Noi pensiamo che cose e relazioni siano due aspetti dello stesso sottostante, che le cose si definiscano sincronicamente tra possibilità in interrelazioni che diventano attualità, ma va bene lo stesso, la strada è aperta.

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L’idea di una ontologia delle relazioni è un sentiero incerto ed interrotto, le cui apparizioni sono sporadiche e mal tracciate. Cominciamo da dopo la catastrofe dell’hegelismo che segna uno spartiacque importante e cerchiamo di seguirle per come siamo stati capaci di leggerne le tracce. Torneremo in seguito da ciò che si trova “prima” di questo punto. Una di queste tracce  risale ad un fisico-filosofo gesuita tedesco, Rudiger Boscovich (1711-1787), il quale produsse nel 1758 una interpretazione relazionale della materia, in opposizione a Newton. imagesLa sua Theoria philosophiae naturalis, venne usata intensamente da F. Nietzsche per una serie di ragionamenti ontologici sul concetto di sostanza, che si trovano nella contrastata raccolta “La volontà di potenza”[2].

L’idea è quella di sostituire alla sostanza intesa come sostrato degli accidenti, l’idea di punto inesteso in cui si incrocerebbero le linee d’azione delle forze (quella di gravità ed elettromagnetica erano le due conosciute ai tempi di Nietzsche, oggi anche l’elettrodebole e la nucleare forte). La “cosa” sarebbe non qualcosa che ha cause, ma sarebbe direttamente il risultato di relazione di cause, chiameremmo “cose” gli incroci di relazioni. Ne segue il dissolvimento del “cosale”, sostituito dal “relazionale”. L’idea echeggia anche alcune concezioni di H. von Helmholtz che similmente vedeva relazioni tra forze da una parte e relazione tra il risultato di queste relazioni ed i sensi umani che afferiscono ad un cervello che “crea”, la sensazione (o l’idea) di “cosa”. Questa sarebbe la presunta “cosa in sé” che però Nietzsche censura così:

La “cosa in sé” è un controsenso. Se immagino di abolire tutte le relazioni, le “proprietà”, le “attività” di una cosa, la cosa non rimane: infatti, la cosalità è una nostra finzione, è aggiunta da noi per bisogni logici, allo scopo di definire, di intenderci.[3]

nietzsche-volonta-di-potenzaNe deriva una visione del Mondo quale quella che Nietzsche riassume a chiusura (§ 1067) della sua raccolta sulla -volontà di potenza-: “Questo mondo è un mostro di forza, senza principio, senza fine, una quantità di energia…che non diventa né più grande, né più piccola, che non si consuma, ma solo si trasforma, che nella sua totalità è una grandezza invariabile…circondata dal “nulla” come dal suo limite…non in uno spazio che in qualche punto sia “vuoto”, ma che è dappertutto pieno di forze, un gioco di forze, di onde di energia che è insieme uno e molteplice,…un mare di forze che fluiscono e si agitano in se stesse…il perpetuo fluttuare delle sue forme, in evoluzione delle più semplici alle più complesse…e poi dall’abbondanza torna di nuovo alla semplicità…e benedice se stesso come ciò che deve eternamente ritornare,…”. Siamo nel 1885.

Assunto questo punto di vista sulla coordinata spaziale di cosa o fascio di relazioni, passiamo ad una alternativa visione sulle coordinate temporali. Una interpretazione è quella che presentò A. N. Whitehead, nel 1929 con “Processo e realtà”. 6277831_origQui la “cosa” è dissolta nel tempo. Coniugando Eraclito (che non è estraneo neanche all’ultimo aforisma di Nietzsche) ma in un certo senso anche Parmenide, con la meccanica quantistica, Whitehead torna al paradosso della Nave di Teseo o del tempio cinese. Poiché i tempi cinesi e giapponesi erano costruiti tutti in legno e poiché bruciavano spesso e sistematicamente venivano ricostruiti esattamente come prima (da quell’”esattamente” discende l’arte cinese della copiatura fedele che oggi viene censurata dalle leggi del copyrighting occidentale, quando si dice che i valori cambiano nei diversi contesti culturali…), ci si domanda: sono sempre gli stessi tempi o no? Così la nave di Teseo che si dice cambiò tutti i suoi pezzi componenti nel corso di un lungo viaggio, quando arrivò era la stessa nave che era partita?. Ne va del concetto di identità e secondo Whitehead vale sia per gli oggetti (fatti di atomi e quanti, anche gli oggetti duri e inerti come i sassi che “divengono”, sebbene lentamente, altro da sé), sia per le sostanze biologiche tra cui l’uomo, sia quanto ad elementi componenti, sia per quanto attiene all’attribuzione continuativa di proprietà. L’inglese ne consegue che quello che sembra dotato di essere sono “entità attuali” dove l’attualità dura un istante, gli oggetti sarebbero quindi sequenze di entità attuali successive e quindi più che “cose” sarebbero processi o eventi (continuati). Con l’introduzione della dimensione tempo (dovuta anche all’interesse per la fisica e per la relatività einsteniana di Whitehead), l’ontologia cosale, diviene processuale.

ZarathustraITAIn pratica è come se considerassimo l’essere come il risultato di una proiezione cinematografica, ma il sottostante concreto, sarebbe una pellicola fatta a frames, fatta di statiche, singole e fisse, fotografie che catturano istanti. Viene in mente la porta carraia sul cui stipite è impresso “attimo” che Zarathustra incontra ne “La visione e l’enigma”[4], quella porta da cui dipartono sentieri che si contraddicono a vicenda per lì convenire ed al dubbio di Zarathustra se questa loro contraddizione sia in eterno per chi ne segua uno dei due, il “nano” risponde che tutte le cose dritte mentono e “Ogni verità è ricurva” (p.184).  Questo venire a mente porta per associazione (per una messa in relazione dell’immagine delle porte del tempo, che fungono da termine medio) ad un altro venire a mente. Questa volta è la “ben rotonda verità”[5] che la dea sentenzia essere la Via giusta, la via che dice che è e che non è possibile che non sia mentre, l’altra, quella fallace è quella che dice che non è. 2257394083_5478104c83_oRivelazione divina che il poeta del Sulla natura di Parmenide, riceve a benvenuto non appena solcato la porta carraia di cui la dea ha appena dischiuso i grandi battenti puntellati da una soglia e da una architrave, questa volta muta. Porta che divide i sentieri del tempo, della notte e del giorno, metafora dunque di quell’attimo di tempo in cui le cose sono, immobili, non divengono, l’attimo che divide l’è stato e il sarà, il frame della verità dell’essere. Questo spezzare il tempo in atomi di istanti, sarà alla base del noto paradosso di Achille e la tartaruga, attribuito a Zenone (ma pare fosse originario proprio di Parmenide).

Scegliere del concetto di film e del concetto di frame, quali dei due sia la caverna platonica e quale la realtà vera è definito dall’immagine di mondo che si adotta. Non affronteremo qui la questione ed invece scivoleremo sulle curve pareti della” ben rotonda verità” per tornare ad un concetto di una possibile ontologia relazionale: i tropi. Li abbiamo già incontrati a proposito di Kuhlman, ma è il caso di esaminarli più da vicino.

I tropi, sono un concetto dell’ontologia. Si tratta di un ente che si situerebbe a metà di un annoso dualismo che risale alle dispute medioevali, quello tra realisti e nominalisti. Il tropo sarebbe ciò che fa sembrar esistere l’universale, ma in realtà è un particolare. download4Le proprietà (bianchezza, relativa durezza, liscezza ad esempio di un foglio di carta) non sarebbero entità universali, ma particolari, dette appunto: tropi. Esisterebbero raccolte in fasci di varietà e si unirebbero con altri fasci di proprietà. Il foglio quindi non sarebbe un ente in sé ma un fascio di fasci di individuali proprietà.  Due fogli bianchi non sarebbero due individui (i due fogli) ed un universale (il bianco) condiviso da entrambi, ma due diversi fasci di tropi che hanno un fascio di tropi (il bianco) in comune. Più che due individui, due collezioni di proprietà individuali.  Ne consegue anche la scomparsa della cosalità, ovvero quel sostrato (il foglio in quanto foglio) che avrebbe con un altro sostrato in comune un misterioso universale sussistente detto “bianco”. Se consideriamo anche le coordinate spazio-temporali come fasci di proprietà ovvero fasci di tropi, otteniamo il frame, ovvero un istante in cui si da quel particolare fascio di fasci di tropi che un istante dopo sarà diverso, poiché le cose, istante dopo istante, cambiano. Ad ogni istante abbiamo una nuova entità[6].  Va da sé che, nel caso s’intendano le proprietà come delle relazioni (ad esempio quelle che danno vita alla frequenza e lunghezza d’onda che chiamiamo luce e quindi colore, con quelle che creano la massa, con quelle che creano l’occupazione di un certo spazio tridimensionale etc.), avremmo relazioni come fasci di relazioni tra loro in relazione e non più “cose”.

copLa tesi ontologica sottostante…il tutto rispondente alla domanda  <<Che cosa esiste?>> è costituito in ultima analisi da entità di un solo tipo: tropi” suggella A. Varzi alla voce “il particolarismo” della sua Ontologia, piccola ma completa guida su questo mondo del concetto di ente. Una idea che si troverebbe anche in certe forme in Husserl, già in Leibniz, in alcuni medioevali e c’è chi sostiene anche in Aristotele essendo la “forma” il suo concetto primo di sostanza. Forma come “concorso” o “compresenza” di tropi, se si vuole evitare l’uso del sinistro termine “fasci”, secondo la proposta rispettivamente di D. C. Williams[7] che è il più rilevante esponente contemporaneo (1953) della teoria o di K. Campbell.

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Cose, relazioni, proprietà, sistemi o complessioni fatti di cose e relazioni che danno vita a cose di ordine (di complessità) superiore, colti nell’istante o nel seguirsi continuato di istanti preso come un flusso,  che diciamo tempo. All’interno di questo perimetro, continueremo la nostra ricerca, in successive puntate.

[Seconda puntata, qui]


[1] L’intera questione è esaurientemente proposta qui: http://plato.stanford.edu/entries/quantum-field-theory/

[2] Con questo titolo s’intende una raccolta di appunti e bozze di F. Nietzsche, di cui esistono almeno cinque versioni diverse, pubblicate postume. Il contrasto nasce dall’affidabilità della selezione, dal modo di intenderne i contenuti, dal rapporto che doveva esistere nella mente di Nietzsche tra ciò che aveva pensato, scritto e deciso di pubblicare come pensiero definitivo e cosa no. Segnaliamo solo due scuole di pensiero, quella di chi ha preso la raccolta come probante ed affidabile (M. Ferraris, P. Kobau) e quella di chi esclude entrambi gli attributi (G. Colli, M. Montinari). K. Lowith e M. Heidegger diedero qualche credito all’opera, G. Deleuze no.  Alla base ci sono anche questioni relative alla più o meno prossimità tra presunti elementi del pensiero di Nietzsche e la successiva deriva nazionalsocialista e quindi il ruolo della sorella nel forzare o meno, in questo senso, l’esegesi del pensiero del fratello deragliato psichicamente. A noi però la querelle non interessa poiché ciò che prendiamo in esame non è l’opera nel suo significato globale, ma solo alcune parti specifiche riguardo quanto precedentemente definito (i rapporti con Boscovich, la definizione di sostanza, l’atteggiamento verso la cosa in sé che ci sembra lucido). Un riferimento è in: Storia dell’ontologia a cura di M. Ferraris, cap. 1.5, Critica, a cura di T. Andina pp.gg. 178-183, Bompiani, Milano, 2008.

[3] F. Nietzsche; La volontà di potenza, Bompiani, Milano, 2013: § 558, p. 308

[4] Pp.gg. 183-184 di “Così parlò Zarathustra”, F. Nietzsche, Adelphi, Milano, ed. 2008

[5] Versione di Sesto Empirico, pp.gg. 269-270 de “I Presocratici” (DK), vol. I, Laterza, Roma Bari, ed. 2004

[6] P. Valore; L’inventario del mondo; UTET, Torino, 2008. Da segnalare in Significato e verità, B. Russell, 1940, una versione simmetrico-inversa: non esistono particolari, ma fasci di universali legati tra loro da una relazione di compresenza.

[7] D. C. Williams; Le proprietà come entità particolari (ed. or. 1953); in Metafisica, a cura di A. C. Varzi, Laterza, Roma-Bari, 2008, da pg. 340 in poi.

Informazioni su pierluigi fagan

64 anni, sposato con: http://artforhousewives.wordpress.com/, due figli, un gatto. Professionista ed imprenditore per 23 anni. Negli ultimi venti e più anni ritirato a "confuciana vita di studio", svolge attività di ricerca multi-inter-transdisciplinare da indipendente. Il tema del blog è la complessità, nella sua accezione più ampia: sociale, economica, politica e geopolitica, culturale e filosofica. Nel 2017 ha pubblicato il libro: Verso un mondo multipolare, Fazi editore. Ogni tanto commenta notizie di politica internazionale su i principali media oltre ad esser ripubblicato su diverse testate on line. Fa parte dello staff che organizza l'annuale Festival della Complessità e pubblica su specifiche riviste di sistemica. Tiene regolarmente conferenze su i suoi temi di studio, in particolare sull'argomento "Mondo e complessità". Nel 2021 è uscito un suo contributo nel libro collettivo "Dopo il neoliberalismo. Indagine collettiva sul futuro" a cura di Carlo Formenti, Meltemi Editore. A seguire: "Europa al bivio. Tra radici e sfide" a cura di Vincenzo Costa, Marcianum press, 2024 Venezia e "L'era multipolare: competizione o cooperazione" a cura di Gabriele Germani, La Città del Sole, 2024, Napoli.
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