Riferisce Diogene Laerzio, che gli zetetici, appartenevano alla stessa famiglia degli scettici, degli efettici, degli aporetici e dei pirroniani. Il momento scettico si presenta ciclicamente in filosofia. Vari tipi di filosofi scettici (ma il momento scettico si presenta anche in filosofi che non dedicano la loro vita a questa specialità) hanno svolto la fish pedicure della filosofia. La fish pedicure è un modo per rinnovare il tessuto dei piedi immergendoli in vasche piene di garra rufa, piccoli pesci che si nutrono di cellule morte. Lo scetticismo cura le radici da cui partono i ragionamenti, ricordandone periodicamente la precarietà. Sesto Empirico propone invece la metafora della purga che se ne va via con ciò che deve portare via. Insomma, lo scettico è quell’atteggiamento del pensiero che porta via il vecchio dando modo al nuovo di presentarsi al suo posto. Il momento scettico si può presentare come dubbio metodologico, alla Cartesio o come scetticismo moderato in quell’ Hume che svegliò dal sonno dogmatico Kant. Hegel ne aveva in fondo simpatia, dal momento che esso incarnava il ruolo di negazione dialettica. L’intero idealismo tedesco è debitore di un momento scettico sulla dogmaticità della kantiana Cosa in sé (Enesidemo, 1792, opera uscita anonima poi attribuita a G. E. Schulze 1761-1833, che poi verrà criticato aspramente dallo stesso Hegel). Funzione scettica venne svolta dai sofisti in generale, da Ockham e Montaigne verso la Scolastica e la dogmatica di vario ordine e grado, dall’esistenzialismo sull’idealismo, da Nietzsche verso tutti e da Popper in vari modi. Particolarmente importante fu la cosiddetta crise pyrrhonienne tra cinquecento e seicento, iniziata con la pubblicazione di Sesto Empirico (1562-1569). Sanchez, Montaigne, Charron ed i primi libertini, Veron, La Mothe Le Vayer, Mersenne, Gassendi ma anche Pascal coltivarono uno scetticismo sulla ragione che si rivolgeva alla fede come unica certezza o che usava argomentazioni scettiche in funzione anti-calvinista ed anti-protestante in genere o censurava gli inutili sforzi metafisici in favore delle nuove certezze scientifiche. Così fino a Bayle, e l’aperto scetticismo religioso che dall’eretico La Peyrère con i suoi uomini pre-adamitici va a Spinoza, alternando pirronismo radicale e scetticismo moderato di tipo accademico si seppellì la filosofia del Medioevo e si ripulì il campo per la successiva stagione illuminista. Elementi scettici originari si trovano nei Sette Sapienti, in Omero, Archiloco, Euripide, Senofane, Zenone di Elea, Democrito e nel suo allievo Metrodoro, nella scuola di Protagora (Seniade di Corinto) e in Anacarsi lo Scita, c’è chi lo trova in certo Platone e sicuramente in Socrate (scetticismo metodologico), in Eraclito ed Empedocle. Cicerone ci ha costruito su l’arte oratoria e quindi ogni avvocato ne è debitore. Pirrone, Enesidemo, Agrippa, Sesto Empirico e Carneade, ne hanno fatto il loro orizzonte di senso e la loro missione.
Le fasi acute di scetticismo si manifestano al termine di cicli storici di dominio di costruzioni di pensiero che entrano in crisi al passaggio d’epoca. Sesto Empirico chiude la stagione della filosofia classica ed apre l’inizio di quella cristiana poi medioevale, la crisi pirroniana del XVII° secolo chiude la stagione cristiano medioevale della scolastica ma anche della verità assoluta del testo sacro ed apre l’illuminismo. Oggi, vari apporti scettici dal relativismo al debolismo, alla stessa filosofia della complessità, tentano di chiudere un illuminismo che poi si è fatto dogmatico nello scientismo e nel logicismo, per aprire una nuova stagione.
– PARTE I –
Nel catalogo del trattamento scettico ci sono i fondamentali del relativismo, del prospettivismo, di certo storicismo, della coppia dialettica in quanto tale, della critica ad ogni dogmatismo e del convenzionalismo, del nominalismo, del nihilismo, dell’ermeneutica, della teoria del paradigma, del criticismo con la coppia kantiana del fenomeno-cosa in sé, del falsificazionismo, del debolismo ma anche di molte altre correnti del pensiero della seconda metà del ‘900 e di quel probabilismo di cui Carneade è stato il primo propugnatore. Non male per un atteggiamento di pensiero che nelle antologie e manuali filosofici raccoglie una-due paginette, quando le raccoglie. Gli scettici sono gli spazzini del concetto, quelli chiamati a far pulizia dopo i lunghi, trimalcionici convivi in cui ci si abbuffa di verità assolute e di cui è costellata l’avventura umana del pensiero. Da cui anche la metafora della purga proposta da Sesto Empirico, poiché la spazzatura si accumula tanto nello spazio pubblico, quanto nell’intestino cerebrale privato. Insomma, non sono personaggi simpatici, son coloro che ti ricordano con serio cipiglio che siamo enti limitati che aspirano all’impossibile illimite, relativi che aspirano all’assoluto, il ché è vissuto come sottrazione di volontà di potenza.
Visto però che la mamma dei dogmatici di ogni ordine e grado è sempre incinta (con molti che nascono scettici per poi fondare il nuovo, giusto, definitivo dogma: il loro, come Cartesio), servono almeno a controllarne l’impeto demografico ed in fondo, contribuiscono a creare le condizioni perché di nuovi se ne presentino. Sono quindi una utility del pensiero umano, di quello filosofico nello specifico. Sebbene la funzione scettica (basata sul principio di incertezza) operi continuamente in controcanto al principio di certezza, solo in certi momenti storici essa prende il sopravvento diventando paradigma, per quanto negativo. Dopo che ha operato la desertificazione del concetto, inizia in genere una nuova fase dominata da un concetto di verità che nella logica è sempre lo stesso, ma che si presenta con una veste nuova.
Due sono le stagioni nella storia del pensiero in cui lo scetticismo si è manifestato in forme estese e continuate. Lo scetticismo classico che dal IV° secolo avanti Cristo di Pirrone, arriva al III° dopo Cristo di Sesto Empirico è il primo. Lo scetticismo classico opera in controcanto allo stoicismo (figura dell’ Autocoscienza nella Fenomenologia dello Spirito hegeliana) e terminando questo, termina anche la stagione della filosofia greca classica. Il secondo è la stagione di pensiero che va dalla seconda metà del XIX° secolo ad oggi. Al pari degli sciacalli e degli avvoltoi, gli scettici di ogni ordine e grado sono attirati dagli effluvi della pre-morte del concetto e della sua implicita presunzione di verità (in varie forme di dogmatica) e giungono in numero sempre maggiore a terminarne l’agonia. Quello che va a morire in questi casi è la credibilità della verità nella sua specifica versione storica, ma una volta messa in mora questa, ne va del concetto di verità in quanto tale perché non è ancora il tempo di nuove versioni che ne vivifichino le pretese. Nella confusione emotiva che accende la morte in genere, non si distingue tra causa ed effetto e ce la si prende con questi becchini la cui esistenza però non è causa della condizione pre-moriente, ma solo l’effetto.
Vi sono certo dinamiche di senso interne alla storia del pensiero che fanno sì che si manifesti uno scetticismo debole o radicale e vi sono certo ancor più decisivi motivi nella contingenza sociale, quando cioè una società ordinata all’interno di una certa visione del mondo sta finendo il suo ciclo storico. L’altra volta, con lo scetticismo classico, terminò un’epoca e dall’Antico si passò al Medioevo e dal dogmatismo della ragione si passò a quello della religione. Sembra si possa dire, senza farne una legge assoluta, che l’assolutismo dogmatico è inversamente proporzionale alla confusione dei tempi. Oggi ad esempio, l’assolutismo dogmatico della scienza e della nostra peculiare forma di economia, entrambe forme empiriche dell’utilitarismo, recitano questo ruolo che nel Medioevo ebbe la religione. E tale assolutismo stride come sempre, con la Grande Confusione che regna sovrana nel mondo reale. In genere, una Grande Peste, come quella del 1350, porta a termine l’equilibrio dei contrasti ed inclina il piano verso nuovi orizzonti. Per i contemporanei, è da vedere se tale si può definire questo scorcio di inizio millennio. Altrimenti c’è da aspettare che la situazione peggiori.
Ma oltre ai grandi sistemi, quelli del pensiero e quelli della complessità storico sociale, c’è una apparentemente banale ultima considerazione da fare sullo sviluppo di fasi scettiche generalizzate. Dalla critica dell’antropomorfismo religioso di Senonfane (VI° secolo avanti Cristo) che ironizzava sul fatto che gli dei degli etiopi fossero camusi e neri (come gli etiopi stessi) al multiculturalismo attuale, passando per le avventure di Pirrone al seguito di Alessandro che lo portò a colloquio con i gimnosofisti, al contatto con il mondo extra-europeo dell’imperialismo e colonialismo europeo della seconda metà del XIX° secolo, da cui nasce anche l’imprinting relativista dell’intera antropologia, scoprire che vi sono altri mondi a cui corrispondono altre immagini di mondo, provoca una crisi di sicurezza nella verità. Se si esce dalla caverna, non valgono più gli idoli della caverna. “L’Altro” è l’antimateria che fragilizza l’Io penso. Non c’è niente di più destabilizzante per il concetto, di scoprire che non è il solo al mondo, così come il bullo di provincia scende nella metropoli e si “relativizza” al cospetto della criminalità organizzata.
In questo, la fase contemporanea è diversa da quella dello scetticismo classico. L’Altro del mondo infatti, invece di presentarsi con la sua diversità ontologicamente dura, ci sta sottraendo il privilegio dell’unicità sia nella scienza, sia nell’economia. Ed il paradosso è che questi paradigmi che identificavamo con il nostro dominio, stanno diventando dominanti anche per noi, ma non all’interno di un mondo solo nostro, ma di un mondo condiviso con Altri, un mondo che “tende” a diventare “loro”. La struttura che imperava nella nostra auto-nomia, oggi impera in un ambiente più grande e noi cominciamo a viverla come etero-nomia, la sua forma ci sta diventando straniera sebbene il suo contenuto sia autoctono. Da cui i recenti accenni di smarrimento schizofrenico delle nostre forme culturali, la “crisi” delle forme culturali occidentali.
In tempi così “liquidi” (da cui l’ appropriatezza della metafora del purgante), si notano anche accenni di ri-fondazionalismo. Il ri-fondazionalismo è quel moto del concetto che recupera vecchi fondamentali e li restaura per cercare di dare sicurezza solida, alla confusiva liquidità in cui sta affogando. Nel pensiero politico europeo ad esempio, scocca l’ora della rivalutazione dello stato-nazione e dell’abiura dell’internazionalismo cosmopolita. All’emorragia costante di sovranità dello spazio stato-nazionale, perdita generalizzata di unicità e coordinamento etnico, economico, politico, culturale, militare e pure religioso, si oppone il ritorno a quella monetaria nella convinzione che questa determini tutte le altre. Dogma che unisce in uno strano connubio tecnocrati di Bruxelles e i sovranisti dell’ultima ora. Dalla marmellata del relativismo democraticista, si riscopre il “nemico” di Schmidt. Al liquidismo della mano invisibile, il cui tremore parkinsoniano ci strapazza nello sciacquone dei mercati globali si oppone il neo-costituzionalismo. Dal disgusto del moderno e del postmoderno, si riconsidera il pre-moderno. Si riscopre l’hegelismo marxiano ed anzi si tenta di riformarne i problemi di quest’ultimo con un ritorno al pensiero fondativo, quello proprio di Hegel (con pizzichi addirittura di Fichte!). Il tutto ha il sapore di quelle coppie in crisi che per salvare l’insalvabile, pianificano un triste week end di rinnovato amore e passione da cui ripartire daccapo. Un caso logico di diallele (figura tipicamente scettica) in cui si vuole retrofondare la causa dall’effetto.
Vediamo invece quali strumenti ci offrono gli scettici, i professionisti della terminazione delle tribolazioni del pensiero, per una eutanasia del morente, la composizione della salma e delle oneste esequie che chiudano una fase per darci modo di aprirne un’altra.
– PARTE II –
Scepsi. Nell’armamentario scettico esistono diversi tropi (tropo: percorso confutativo), dieci quelli di Enesidemo ma poi altri otto dedicati alla scienza, cinque quelli di Agrippa. I cinque di Agrippa sono la tavola delle leggi ferree della funzione scettica e Sesto li riassume in tre leggi dell’infondatezza: a) ogni ragionamento si fonda su assunti fondati su assunti, all’infinito; b) oppure cade nel diallele o circolo vizioso per il quale la cosa posta è presupposta dalla sua spiegazione; c) il ragionamento è fondato su una ipotesi posta come dogma. Sesto, il quale è anche l’antologico della tradizione classica che con lui si chiude, li riassume in due categorie principali: 1) il disaccordo delle opinioni umane è indirimibile essendo oggetto d’opinione anche l’eventuale criterio per dirimerle; 2) nulla si comprende in sé ma in base ad altro, il quale va a sua volta fondato su altro e così via all’infinito (come nel Teorema d’incompletezza di Godel). In pratica, ogni pensiero è un giudizio ipotetico (se…allora) dove il primo termine è infondabile con certezza definitiva. Al fine, Sesto ne conclude che la regola aurea, quella da cui si deducono tutte le altre è che tutti i tropi scettici si fondano sulla constatazione che la verità è disputata perché è una relazione (soggetto vs oggetto, oggetto vs, soggetto, soggetto vs altro soggetto, fenomeno vs noumeno, testo vs contesto, parola vs cosa, tutto vs parte, causa vs causa che l’ha causata, qui vs lì, oggi vs ieri o domani, etc.), quindi è relativa. Quella scettica è una vera e propria Fenomenologia dello Spirito Relativo, sforzo encomiabile.
Questa esplosione di logica negativa portò due effetti. Il primo effetto fu quello del mainstream scettico classico il quale ovviamente, non potendo essere “l’inizio” di una nuova avventura di pensiero, fu il riflesso di tale esito nel comportamento esistenziale. Pirrone, Timone, Nausifane (maestro di Epicuro), in buona parte Enesidemo, forse Agrippa (ma di lui abbiamo un blackout biografico completo), in parte minore Arcesilao e Sesto Empirico, dalla constatazione che essendo la logica giudizio di verità e non potendo questa esistere, conseguivano l’unico atteggiamento possibile: sospendere il giudizio (epoché), non dire (afasia), negare gli effetti della realtà (atarassia), non agire (apatia). Quasi nessuno infatti scrisse i suoi pensieri perché tanto… . L’orfanismo della verità, se si soffre la condizione, può portare a varie forme di nihilismo.
Il secondo atteggiamento più che scettico, è definito “zetetico”, agg. [dal gr. ζητητικός, der. di ζητέω «ricercare, investigare»] -volto alla ricerca della verità – . Di questo diverso indirizzo abbiamo testimonianza in Arcesilao, in Sesto e soprattutto in Carneade. “Carneade, chi era costui?” E’ questa una espressione pronunciata da Don Abbondio nei Promessi Sposi (capitolo VIII°), che all’epoca divenne un intercalare popolare e di cui rimane traccia ancora oggi nella lingua italiana, a dire “personaggio sconosciuto”. Nella società della spettacolo, in cui la notorietà è l’indicatore di valore sostanziale, il Carneade di turno è il signor nessuno che implicitamente “non vale niente”. Lo scrivente è un tipico Carneade. Pare che il Manzoni abbia preso l’espressione da Agostino (Dialoghi, Contra Academicos, I,7) il quale polemizza con lo sconosciuto greco. Ma in parte Agostino usò anche Carneade per desertificare la presunzione umana di conoscere, in luogo della docile fede in Dio. Carneade non è che la punta avanzata di un atteggiamento generalmente negativo verso gli scettici essendo questi dei guastatori dell’illusione dogmatica. A spegnere le illusioni si rischia, non so se ci avete mai provato, la gente s’inferocisce, sembra che sull’illusione ci fondi la propria ontologia. Carneade, Arcesilao, Sesto Empirico, nessuno di loro così la teorizzò, ma questa loro predisposizione a mantenere la verità non come punto raggiungibile, ma come punto di orizzonte che s’allontana per ogni passo che faremo in sua direzione sottende forse una convinzione implicita. Una convinzione che non viene considerata da quei dogmatici che soddisfatti rilevano, contenti di darsi ragione da sé, l’incoerenza presunta di chi toglie la verità mantendola (pretendere assolutismo da un relativista è tipico di chi non riesce proprio a dismettere i panni del Torquemada del pensiero). Gli zetetici ovviamente non l’avrebbero formulata così, ma così noi la proponiamo… .
La verità relativa. Il pensiero non è tutto per l’umano. Il vivente è maggiore dell’umano e l’umano è maggiore del suo pensare e del suo pensato, l’ontologico sopravanza il logico, questo secondo è funzione del primo ed ha nel primo causa necessaria. Aristotele dedusse la validità discussa del Principio di non contraddizione dalla sua indiscussa validità ontologica. Il pensiero sembra non poter procedere se non presupponendo la verità, che purtroppo non pare esserci nella sua forma assoluta. Ma questo è un portato dello stesso sviluppo del logico dall’ontologico. Noi ci siamo presentati al mondo come specie cosciente e come tale avevamo in eredità la logica dell’essere cosciente, del regno animale al quale apparteniamo. Nel corso del tempo (e chissà forse partendo da un punto zero che coincide con la nostra stessa speciazione), siamo diventati autocoscienti e questo ha sviluppato una sua debita logica. E’ questo che non ci ha fatto naufragare nel disordine delle specie. Agiamo in ragione di come pensiamo (con retroazione), sin dalla produzione di punte affilate, scheggiate da ciotoli dall’Homo abilis. Tutta la storia del nostro adattamento al mondo è stata intermediata e resa possibile dallo specifico uso del nostro pensiero. Questo nostro pensare agisce col principio di economia, supponendo vero per ordine categoriale e generalizzando particolari che si mostrano utili a diventare generali, deducendo da ipotesi. Dobbiamo farlo, il mondo è grande ed il nostro spazio mentale non così tanto, il mondo è vario e la velocità con cui dobbiamo operare il giudizio per la decisione necessita di poche sintesi manipolabili in breve tempo, noi conosciamo solo parti ma queste ci servono per orizzontarci nel Tutto. Queste sintesi sono quasi sempre ipotesi date per vere salvo revisione (ma il momento della “revisione” non ci piace e tendiamo a rimandarlo sistematicamente). Queste sintesi ordinano il pensiero ed orientano il comportamento e sono le nostre verità. Tutto qua. La verità, come ogni nostra caratteristica ontologica e quindi logica, è relativa. Fossimo increati, unici al mondo, eterni, onniscienti, infiniti saremmo assoluti e la verità lo sarebbe in conseguenza. Gli idealisti che deducono dalla nostra capacità di ideare l’infinito la nostra infinità, operano nel diallele. Noi non siamo infiniti. Ciò che non è, non è e se non ci piace come invece è, non rimane che farsene una ragione. Anche a questo dovrebbe servire la ragione, a temperare i propri conati d’infinità (vedi la Dialettica Trascendentale della CdRP di Kant), un retaggio di come opera la nostra logica evolutasi in un corpo che -deve- presupporre il non morire mai, per vivere con la consapevolezza che invece morirà.
Sesto ne conseguiva l’indicazione di una continua ricerca, che non ha fondamento primo e non ha telos. Prendeva il pensiero come un epifenomeno della mente umana e lo accettava come tale. Carneade invece è un possibilista-probabilista. La verità in sé non è possibile ma è possibile quella che tale appare, essa è probabilità di verità. Quella circostanziata, contestualizzata, non contraddetta nelle sue relazioni ha ancora maggiori probabilità di verità. Quella più profondamente esaminata da diversi punti di vista e sopravvissuta a diversi tentativi di falsificazione lo è ancora in grado maggiore, il maggiore umanamente possibile. Non siamo distanti dal falsificazionismo popperiano che sancisce uno dei possibili (il più accettato) criterio dell’epistemologia scientifica. Questi, sono poi diventati i tre criteri su cui si fondano le teorie “robuste” e positive della verità: corrispondenza, coerenza, utilità empirica. Tutti e tre i gradi di verità sono funzione del tempo a nostra disposizione per operarne la valutazione di consistenza. Per la terza, il tempo in cui sopravvive ai tentativi di falsificazione è anche il criterio di vigenza in una dato periodo storico ovvero il periodo in cui tanti credono vera una determinata cosa[1]. Da cui la teoria del paradigma di T. Kuhn. Il pithanon (il probabile, il plausibile) di Carneade e l’eulogon (il ragionevole) di Arcesilao altresì, sembrano riprese nella “Filosofia del come se” di un poco conosciuto e tanto meno apprezzato interprete di Kant: Hans Vaihinger[2]. Qui la filosofia si basa su assunzioni intrinsecamente finte ( come tutte le altre) ma trattate “come se” fossero vere ed il cui criterio di validazione sarà empirico, ovvero con: “…il compito di elaborare una visione del mondo, non già teoreticamente valida, ma che sia tale da rendere la vita sempre più degna di essere vissuta e sempre più intensa” nella parole dell’Abbagnano (Storia della Filosofia, vol. III, pg.628, UTET, Torino, 1993-2003).
E’ questo la proposta di una filosofia fondata su stessa, come lo sono tutte, ma con la consapevolezza di esserlo. Si aprono poi dei problemi sulle definizioni di tali utilità ma ne parleremo una altra volta, però a titolo d’esempio potremmo citare l’etica kantiana. Questa si sintetizza nel noto imperativo categorico. La struttura logica di tale imperativo è la stessa dell’etica cristiana e di quella confuciana. Essa quindi è luogo comune fondativo per l’etica cinese ed occidentale (ma tracce se ne rinvengono in ognidove ed in ogni tempo ci sia stato possibile indagare) sia nella versione religiosa che in quella razionalistico-illuminista ed è intrinsecamente relativa poiché si basa proprio sulla messa in relazione a-gerarchica tra Io e mondo, tra me e l’altro. Fondata sulla relazione e possibilmente vera per entrambi i termini della stessa, funziona. In più, si propone come legge auto-imposta, autonoma e non eteronoma e non mi pare ci siano dubbi che legislazione in autonomia sia più auspicabile di quella eteronoma. La verità contemporaneamente in me e fuori di me, il dialogo per contrattarla, il consesso democratico per trarne una legislazione comune non mi pare male. Altrimenti non rimane che Io vs Tutto e Tutti ovvero Hobbes ed Hegel. Hegel a targhe alterne a seconda che parli dell’organismo sociale nazionale ridotto ad “unum” per opera dello Spirito assoluto o parli dello stato-nazione in quanto individuo e quindi in “stato di natura” hobbesiano nei confronti degli altri stati-nazione (disfunzioni schizofrenogene della “scientificità” della logica hegeliana, “scientifica” ovvero assolutamente vera! Bah…).
= 0 =
L’invito alla ricerca è oggi quanto di più opportuno si possa fare. La realtà l’abbiamo sotto gli occhi e non credo sia di parte constatare che le strutture del nostro vivere mostrano cedimenti ed irrazionalità in grande quantità e profondità. Le filosofie che s’accordavano a questo tipo di strutture sono quindi inficiate dai risultati della loro stessa applicazione o parallela narrazione. Le filosofie che contrastavano quelle dominanti hanno una certa collezione di sistematici fallimenti, marxismo a capofila. Hanno svolto una funzione critica, ma questa critica è stata addirittura introiettata dal sistema criticato ed esibita come certificazione di liberalità. La mancanza di una “instructio generalis” come la citava il Troxler è responsabile della scissione tra indignazione ed azione, sappiamo con tutta evidenza che non ci piacciono certi effetti ma non conosciamo bene il complesso che li causa e non abbiamo un complesso di cause che possano ispirarci non solo il dire no a qualcosa, ma il dire si a qualcos’altro di complessivo. L’incertezza paralizza l’azione perché non abbiamo verità generali da porre sull’orizzonte e sappiamo vano rincorrere le varie ingiustizie una ad una. Checché se ne dica, il luogo naturale in cui si fabbrica il pensiero, soprattutto se in versione sistemico-sistematica è la filosofia. La filosofia prende diverse forme nella storia umana, essa è un epifenomeno del pensare e il pensare è consustanziale l’umano, quindi la filosofia pur non essendo eterna (come non lo può essere una specie che è nata), non è al momento morta. Sta solo riflettendo. E’ il momento di aiutarla a riflettere, poiché la filosofia siamo noi.
= 0 =
Da tutto ciò (parte I e parte II) consegue l’invito a spenderci in un nuovo momento zetetico che mentre termina definitivamente la presunzione di verità integrale del vecchio, cominci a proporre dei “come…se” che aprano a nuove coltivazioni del principio del vero relativo. Ipotesi di verità relativa da coniugare in sistema perché non si può più ragionare a frames, svuotando l’oceano con la flute dello champagne postmoderno. Sistema che ci dia una idea concreta di come adattarci al mondo nuovo, come dice questo articolo e come noi diciamo da tempo. E’ questa la cornice nella quale tenteremo di sviluppare una nuova filosofia dei tempi complessi, progetto iniziato con un primo articolo sulla Logica della conoscenza complessa ed uno su Eraclito e che continueremo con una prossimo articolo generale su Hegel. Progetto che, a maglie larghe, è la ragione dell’esistenza di questo stesso spazio di riflessione, nell’attesa possa diventare anche di dialogo.
[1] Il Reale (Storia della filosofia greca e romana, vol VI°, da pg. 59, Milano, Bompiani, 2004) vomita verde bile su Carneade, disprezzo che poi troviamo anche in Agostino e di riflesso in Manzoni. Sembra quasi che la proposta di verità relativa (alle condizioni del suo accertamento e della sua sopravvivenza) ottenga su vari tipi di dogmatici lo stesso effetto che Padre Karras otteneva sulla dodicenne Regan, posseduta dal demonio. Loro preferiscono lo scetticismo nihilista che trovano più “coerente” in base alla fratellanza metafisica.
[2] H. Vaihinger (in italiano esiste una vecchia tradizione della sua Filosofia del come se, ma è introvabile) riconosce come proprio maestro, il filosofo e sociologo F. A. Lange prematuramente scomparso all’età di 47 anni (1828-1875). Lange era un socialista e democratico, anti-metafisico ed anti-religioso, neokantiano, critico dell’egoismo liberale anglosassone e della mistica della lotta per la sopravvivenza che Spencer ha a suo dire, tratto da Darwin. Relativamente celebre per la sua “Storia del materialismo”, in cui non compare quello storico di Marx. A proposito si segnala la concezione di C. Preve in Italia ed E. Balibar in Francia, per i quali di materia propriamente detta, in Marx ce n’è ben poca. La struttura del pensiero di Marx, secondo questi autori (e noi concordiamo appieno) sarebbe idealista o meglio “hegeliana”. Qui la faccenda si fa terribilmente complicata perché a sua volta avrebbe esagerato Marx e più ancora Engels nella dicotomizzazione dialettica, sia nel senso che Hegel non è effettivamente un idealista puro, sia nel fatto che Marx l’avrebbe messo a testa in su, sia quindi nella presunta opposizione dialettica tra Hegel e Marx, ma la questione non può esser liquidata così facilmente. Se ne rinvengono tracce in D. Fusaro, Bentornato Marx, Bompiani, Milano, 2019, da pg. 216.