LA GRANDE REGRESSIONE. A cura di H. Geiselberger, Feltrinelli, 2017 (2/2)

Qui la prima parte. Chiudiamo dunque con gli ultimi quattro interventi, tra cui Streeck e Zizek, a cui faremo seguire una finale riflessione personale.

Riprendiamo quindi da César Rendueles, sociologo e filosofo spagnolo, che vede la crisi non un effetto eccezionale ma uno standard da quando le élite occidentali hanno inteso varare il turbo-capitalismo per far fronte della crisi di accumulo del capitale degli anni settanta. Seguendo Polanyi, vero perno di riferimento per lo sviluppo delle argomentazioni di molti altri interventi, non si dà alternativa tra libero mercato e intervento collettivo ma scelta tra diversi tipi di mediazione politica, “contro movimenti” spinti dagli effetti della distopia mercatistica. Scartate le reazioni di estrema destra, identitarie, nazionaliste, xenofobe, integraliste religiose, populiste reazionarie, rimangono i fermenti di radicalizzazione democratica, già alla base di quella America latina che fu motore del’antagonismo mondiale e che oggi, forse, possono riprendere espressione politica proprio a partire dal Sud Europa. La rivendicazione di democrazia, può rivolgersi ad uno spettro più largo degli interlocutori del tradizionale discorso di sinistra arrivando così a coinvolgere la vera maggioranza sociale. Le gambe su cui far marciare le condizioni di possibilità di questo contro movimento, Rendueles le individua nel precariato e in una alleanza internazionale (europea e non solo) che superi l’”impotenza appresa globale”, una cooperazione globale post-capitalista. Citando Gowan, l’Europa potrebbe diventare il traino (?) di questa globalizzazione post-capitalista, democratica e prospera.

E giungiamo così a Wolfang Streeck. Ripercorsa, in breve, la storia della svolta global-liberista (termini-concetto verso i quali l’Autore dichiara un certo fastidio dovuto probabilmente all’abuso ormai retorico, fastidio poi esteso al termine “populismo”), dal “There Is No Alternative” alla confluenza in essa tanto del centro-destra quanto del centro-sinistra, con acclusa involuzione dei partiti politici e distruzione dei sindacati, Streeck inverte opportunamente il senso di alcuni luoghi comuni. Ad esempio, quello di post-verità, attitudine sistematica del discorso neo-liberale globalista per molti anni prima che l’Oxford Dictionary si accorgesse tardivamente ed in piena falsa coscienza, del suo avvento. Post-verità rinforzata dalla vasta schiera degli esperti menzogneri e da una deriva surreale di narrazioni mainstream che ha toccato vertici inusitati con la campagna elettorale di Hillary Clinton, la miliardaria beneficiata da Goldman Sachs che voleva rappresentare “chi lavora duramente”. Si è arrivati nel caso del referendum britannico ad invocare i test di idoneità per il voto consapevole, dopo aver fatto volutamente degradare ogni forma di democrazia attiva e partecipata. La “situazione spirituale del nostro tempo” e segnata da una scissione culturale inedita, c’è un forte disagio da globalizzazione che è senza rappresentanza ed è senza rappresentanza perché coloro che storicamente rappresentavano le istanze dei perdenti, di loro origine internazionalisti, si trovano concettualmente accanto ai globalisti.  Dal basso, si è espresso -in qualche modo- il disagio da globalizzazione ma dall’alto ciò è stato vissuto come estrema minaccia e la contromisura è stata la reinvenzione della categoria “populista”. Con “populismo” si definisce sostanzialmente un deficit cognitivo di chi “la fa facile” per ignoranza della vera complessità del mondo (anticamente si usava “demagogia” ma oggi è tutto “nuovo” e quindi per dire cose vecchie si usano termini-packaging nuovi)  ed in subordine, lo si accusa di basarsi su un pericoloso fondo di nazionalismo etnico. La non sempre dichiarata ma sempre pensata accusa di fascismo che sarebbe sotteso a questa rivolta degli ignoranti, finisce con l’esserlo di fatto visto che coloro che prima difendevano i deprivati ora si trovano dall’altra parte lasciando il campo a gli organizzatori del dissenso con agenda politica senz’altro non progressista. Streeck nota -a ragione- la grande difficoltà che le élite (tanto neo-liberiste, che progressiste) manifestano nel comprendere i segnali del 2016, da Brexit a Trump, inclusa la sinistra cosmopolita e questo perché quasi più nessuno ha la capacità di volgere lo sguardo “verso il basso” e comprenderlo. Eppure, di fatto, siamo nel gramsciano interregno dove gli effetti sorprendenti prendono il sopravvento sulle articolazioni prevedibili, di cui la rivoluzione populista è un esempio. L’ammonimento verso la sinistra cosmopolita è chiaro: “Chi espone la società a una pressione distruttrice sul piano economico e morale, suscita una opposizione tradizionalista … meglio una democrazia nazionale oggi che una democrazia della società mondiale (ammesso sia possibile, aggiungo di mio) domani”. [Ai tempi della consegna di questo articolo, probabilmente, Streeck era impegnato nella chiusura della sua ultima fatica: “How will capitalismo end? Essays on a failing system” Verso book, 2016. Qui, una intervista sul senso più ampio della sua posizione.]

Storico, archeologo, scrittore e soprattutto attivo sperimentatore di nuove forme di democrazia, David Van Reybrouck, belga-fiammingo, interviene con una lettera propositiva rivolta a Juncker. Il tema è quello della democrazia, messi su un piatto della bilancia i fragili presupposti che condussero all’Unione e sull’altro la collezione di inquietanti fatti politici, sociali ed economici recenti, il ritorno ai cittadini s’impone come unica via per rilanciare l’idea ed il progetto europeista, mai in così rischioso bilico. Reybrouck è fortemente critico verso la forma democratica otto-novecentesca ovvero “rappresentativa” che, citando il lavoro di Bernard Manin (Principi del governo rappresentativo, il Mulino, 2010), riporta alla comune radice delle parole élite ed elezioni, in pratica, l’elezione di una élite. Tra questa élite ed il corpo elettorale, per lo più ignaro del profondo delle questioni e svegliato dal torpore apolitico solo una volta ogni quattro-cinque anni, non c’è alcuna “società civile” ma un mondo di variegati formatori di opinione quasi sempre espressione dell’élite stessa. Non va meglio coi referendum, quiz dicotomici e riduttivi di complessità che spaccano i paesi quando non vengono usati per tutt’altri scopi rispetto al quesito posto, come plebisciti ma anche sonore bocciature come nei casi Cameron e Renzi. Nei social e su Internet, da una parte è dilagata l’informazione inverificata, dall’altra l’incontro tra opinioni diverse lascia i due contendenti con le reciproche accuse di “troll” o “venduto”. Tutto ciò è evidente che non funziona e da ciò scaturisce la “stanchezza per la democrazia”. Torniamo allora al sorteggio ateniese, un campione casuale di cittadinanza a cui si delega un intenso processo informativo di approfondimento, da cui far scaturire una lista di suggerimenti e proposte concrete, al limite poi da verificare con referendum a risposta multipla di modo da meglio rappresentare la complessità e le sfumature dell’adesione o della critica, se non del rifiuto. Al proposito, l’Autore cita un caso concreto che per la seconda volta è stato messo in campo in Irlanda su vari temi. Si potrebbe allora così rilanciare il progetto Europa, coinvolgendo direttamente gli europei realizzando così la promessa democratica non solo di un governo per il popolo, ma del popolo. [Magari non avremmo svolto il discorso rivolgendosi a Juncker  ma l’intervento è comunque interessante]

E chiudiamo con il filosofo e psicanalista sloveno Slavoj Zizek che ha già zippato la sua proverbiale torrenzialità in appena 14 paginette che sono difficili da zippare di nuovo in un più breve sunto. Il punto finale è anche quello di partenza: il capitalismo è globale? L’anticapitalismo non può che combatterlo nello stesso formato, occorre una nuova Internazionale politica ma di questa logica che si vorrebbe auto-evidente, Zizek non dà dimostrazione. Seguono cinque  citazioni, due lineari ovvero la maoista eccellenza della confusione sotto il cielo e lo “studiare! studiare! studiare!” leninista, due invertite ovvero l’undicesima di Marx che dovrebbe rianteporre la fatica dell’interpretazione all’azione compulsiva e cieca e la gramsciana transizione che nell’interregno disvela i più morbosi fenomeni che -prima che vengano normalizzati da un nuovo ordine- diventano ottime occasioni per le grandi re-azioni. La quinta è psicoanalitica ed è il passaggio dalla paura che mobilita verso l’esterno, all’angoscia che ci impone di cambiare noi stessi. Per come si esprimono le sentenze sapienziali dell’Yi Jing cinese, “la situazione è propizia” ma per fare cosa? Promuovere un diritto cosmopolitico di sinistra che affronti appunto nel formato globale il già globale capitalismo, questa la linea per i “liberali di sinistra”. Del quadrilatero di posizioni formato da capitalismo globale e multiculturale, sinistra universalistica, sinistra patriottica antiglobalista e capitalismo con caratteristiche nazionali, etniche e locali, Zizek sposa la seconda (in sostanza, il movimento Diem25 di Varoufakis) e vede come suo territorio geo-storico-politico l’Europa. Un Europa che inquieta tanto Trump che Putin che su questa condivisione potrebbero anche evolvere un’alleanza “populista”. Rispetto a questo “populismo” arrabbiato, sbagliano i liberali di sinistra critici a sottovalutare la debolezza intrinseca dell’egemonica ideologia liberale ma sbagliano anche i nuovi populisti di sinistra che vorrebbero utilizzare il format “populista” sebbene distogliendolo dai suoi attuali fini intrinsecamente di destra per volgerne la forza a fini di sinistra, come se i format fossero neutri in sé. Quello populista-nazionalista, secondo Zizek, non lo è, l’universalità non è qualcosa che possa emergere alla fine di un processo lungo e paziente come vorrebbero Mouffe e Laclau ma ineliminabile punto di partenza per ogni progetto emancipativo.

= 0 =

COMMENTO. Definendo il perimetro degli interventi attesi, il curatore Heinrich Geiselberger (a cui comunque va il merito dell’iniziativa in quanto a sinistra sembra esserci una certa depressione, ovvero mancanza d’iniziativa collettiva), ha posto i limiti di una fotografia dal titolo “La grande regressione”, alludendo in qualche modo e volutamente alla “Grande trasformazione” di Karl Polanyi che viene infatti più volte citato dagli intervenuti. Ma pur dandosi i limiti ascritti, il tema ha finito spesso per sfociare in una seduta di autocoscienza della sinistra smarrita davanti all’evidenza del fatto che in Occidente siamo in piena crisi oggettiva, che altrettanto oggettivamente questa crisi profonda, ontologica, ha come peggiorativo il tardo capitalismo finanz-global-liberista[1], che ogni giorno di più s’ingrossa l’elenco dei sintomi di una generale dis-funzione degli ordini sociali, politici ed economici (e non da tutti citati ma assai evidenti anche quelli culturali ed ecologici), che quindi esisterebbero tutti i parametri per una affluenza di forze sociali e quindi politiche nelle file di una sinistra in grado di “cogliere il momento”, ma non c’è alcuna sinistra a cogliere il momento. Perché ?

Elitismo della sinistra accademica, involuzione linguistica (è sintomatico come tutti gli autori intervenuti si siamo sforzati di esprimersi in linguaggio umano quando i più, nelle loro pubblicazioni, gigioneggiano spesso con qualche dialetto della loro tribù epistemica), separazione delle già risicate forze tra neo-populisti ed internazionalisti, ciechi e poco avveduti i primi per i secondi, scivolati nell’ossessione dei diritti umani e non sociali i secondi per i primi. Sinistra liberale che finisce con il voler salvare il sistema da se stesso e sinistra radicale che non sa fornire l’alternativa proprio ora che il sistema dominante non distribuisce più dividendi e s’inviluppa nella sua cupa demenza senile. La sinistra finisce così sugli spalti ed in radiocronaca a raccontare i tempi che -sul campo- vedono destra-capitalisti-nazionalisti vs destra-capitalisti-globalisti. Con la sua auto attribuita -inossidabile- lucidità critica, la sinistra sgrida destre nazionali e globali, capitalisti di ogni forma e grado, Trump e Putin, una sua fazione l’altra com’è atavica tradizione ma questo ipervolume di parole a quale sostanza corrisponde? E’ solo un problema di linguaggio o la sinistra campione universale del pensiero critico e destruens non sa esattamente cosa vuole se non in negativo, non ha un posto dove portare la gente, non ha alcuna viabile ipotesi costruens? Forse il tempo della critica è il tempo del dominio di una forma ma quando quella forma sembra perdere le sue funzioni ordinative, si presenta il tempo del progetto e questo progetto nonché le facoltà stesse di pensarlo, mancano?

Nell’ultimo secolo e mezzo, la sinistra occidentale ha svolto il ruolo di contrappeso del sistema dominante, a volte stabilizzandolo, a volte migliorandolo con un po’ di welfare e di pressione su i “diritti”, assicurandogli la coscienza critica nel mentre le pratiche continuavano nel “business as usual”. Una sorta di “religione della buona coscienza”, con le sue pratiche, le sue processioni di piazza, i suoi sacerdoti per altro in reciproco, astioso, conflitto, le sue chiese, le sue insensate guerre di religione su i diversi aspetti secondari della credenza, i suoi dogmi ed i suoi eretici, i suoi libri sacri, le sue preghiere, le icone a cui votarsi nell’incertezza. Una religione che avendo promesso un mondo migliore nell’al di qua, dopo un secolo e mezzo di sostanziali fallimenti, sta morendo di lenta e sembra irreversibile dissipazione per palese mancanza di interesse e credibilità. Religione ormai in regressione, con le idee poco chiare e le chiese vuote ma la cui residua fede sfida tutte le falsificazioni, com’è norma. Tempo fa, qualcuno ritirò fuori con grande successo l’idea di Walter Benjamin che pensava che il capitalismo fosse una forma di  religione[2], una credenza e pratica condivisa di tipo ideologico. Non solo il capitalismo, anche l’anti-capitalismo è una forma ideologica e tutte le forme ideologiche appartengono alla stessa famiglia delle religioni, la famiglia delle “immagini di mondo”. Il capitalismo però parte come pratica e poi si costruisce uno specchio ideologico facilmente falsificabile mentre l’anticapitalismo parte come specchio critico dell’esistente ma privo del tutto di indicazioni pratiche sul come superarlo. Una splendida diade specularmente inversa, una prassi senza filosofia ed un filosofia senza prassi.  In più, c’è il grave pregiudizio del fatto che tutti i sacerdoti dell’anti-capitalismo sono borghesi, borghesi che teorizzano contro il sistema dei borghesi. Per carità, c’è diritto di secessione etico-morale dalla propria classe (come dalla propria civiltà) ma forse questa coincidenza porta a non avere le idee chiare in sede di prognosi, forse quella della classe salvifica che dovrebbe tirarci fuori dai pasticci è una idealizzazione dialettica mischiata a sensi di colpa sociale. Per tornare al problema del come ci si esprime a sinistra, è evidente che molti scrivono per farsi intendere dai propri simili e non certo da tutti gli altri, la sinistra parla di popolo ma non al popolo e forse neanche si sente del popolo.

Venendo al libro, la sinistra liberale sembra non comprendere la durezza dell’iceberg contro il quale è andato a sbattere l’Occidente, visto che la nave s’è data in gestione a gli spiriti animali e quindi nessuno ne governa la rotta, consulta le carte, comprende la difficoltà di navigare in sì perigliosi mari. La sinistra liberale sembra dedita esclusivamente alla coltivazione delle migliori condizioni di possibilità del sistema senza comprendere che quel sistema non è più funzionante. Come spesso ripetiamo, l’Occidente, un secolo fa era un terzo del mondo ed immensa era la distanza che lo divideva in termini di performance dal resto del mondo che infatti dominava. Mal si comprende spesso che “dominare” non è solo un fattore etico, è anche un fattore funzionale. Se domini e non competi, se ti accaparri e non condividi, se dai le norme e non le subisci, tutti i conti tornano con facilità perché c’è “abbondanza di condizioni”. Oggi l’Occidente è poco più di un decimo del mondo e va ulteriormente a ridursi, la sua preminenza di performance si sta velocemente riducendo ed in molto casi è annullata, dovresti allora esser in grado di competere, dovresti comunque prepararti a condividere visto comunque il ridotto peso e dovresti esser in grado di concordare le norme. Ma questo passaggio dal dominio al condominio sembra che non lo si voglia registrare. La regressione è un effetto della contrazione e rispetto ad una contrazione c’è da prendere una posizione radicale perché i sistemi si riducono fino ad un certo punto naturalmente[3], dopo saltano ad un diversa forma e noi siamo proprio al punto che dovremmo decidere quale nuova forma darci. La forma non ha nulla a che vedere con il cosmopolitismo, i transgender, le opzioni morali, l’accoglienza migratoria, ha a che vedere con l’architettura istituzionale (gli storici stati-nazione o nuovi e più massivi stati-federali da costruire con chi e come?), la distribuzione della minor ricchezza e relative opportunità, il senso della società ed il ruolo che vi deve esercitare il lavoro che non è più necessario ai livelli del XIX secolo, la postura inter-nazionale, decidere chi deve decidere , domandarsi se gli euro-continentali sono della stessa natura degli anglosassoni o i destini vanno divisi visto che la contrazione per chi vive in un impero, avrà ben altri effetti e dimensioni. Infine, smetterla di parlare per assoluti e di parlare per conto dell’umanità, rendersi conto che noi qui in Occidente non siamo “il” mondo, siamo solo un frammento geo-storico tra gli altri.

La sinistra radicale si troverebbe così al fatale, storico e sempre sognato appuntamento con la storia, quel punto in cui finalmente si aprono le condizioni di possibilità -che a questo punto diventano di necessità- che portano alla fatidica domanda: che altro fare? Quale altro modo di stare la mondo possiamo esaminare come alternativa? Qui ci si divide ulteriormente in due tradizioni. Quella della fazione ultra-democratica della Rivoluzione francese (che è poi quella che diede natali al termine “sinistra”) e quella dei socialisti, poi comunisti. La prima tradizione sosteneva un metodo per prendere le decisioni all’interno del corpo sociale secondo la contabilità dei Molti. Questa tradizione non ha avuto seguito. Si è accettata la democrazia parlamentare come massimo raggiungimento dell’auto-governo del popolo, una posizione a dir poco demenziale. Son decenni che la teoria politica e sociologica più lucida ha mostrato con chiarezza l’impostazione elitista di questa forma corrotta di democrazia “rappresentativa” che non meriterebbe neanche di appartenere alla categoria “democrazia”,  ma ecco che siamo a rimpiangerla come se avessimo raggiunto un eden che oggi ci vogliono sottrarre.  La seconda tradizione, i socialisti ed i comunisti,  prendevano la struttura sociale creata dal capitalismo, cioè una forma di piramide gerarchica che non ha inventato il capitalismo ma che si perpetua dalla nascita delle società complesse, quindi da più o meno ottomila anni (a dire che il “dominio dell’uomo sull’uomo” è evidentemente un problema sistemico di natura socio-antropologica prima che economica) e ne volevano invertire le gerarchie portando i Molti subalterni a farsi dominanti del sistema di produzione. Visto che poi erano Molti, sostanzialmente si risolveva  così per semplice contabilità, il millenario problema del dominio degli uni su gli altri. Forse si dovrebbe tornare a questa biforcazione e dopo centocinquanta anni, tirar giù una linea di totale, fare somme e sottrazioni e calcolare la “realtà” delle varie forme di pensiero di sinistra, potare selvaggiamente alcuni rami infruttuosi e concentrare la forza vitale che pur rimane in ciò che più promette un futuro concreto. Questo futuro sfuggente ma che già sappiamo molto ma molto problematico poiché portare una intera civiltà a riadattarsi al mondo che le è cambiato intorno non è mai riuscito a nessuno. Prima di disegnarlo col “io lo farei così” “ah, io no, lo farei cosà”, andrebbe affrontato decidendo chi e come si decide. Prima del menù (per le osterie del futuro-presente), c’è da decidere come funziona la cucina.

Delle marxiane Tesi su Feuerbach, a noi piace -in particolare- non l’enigmatica e troppo citata undicesima, ma la seconda che oltretutto ne chiarisce il senso: “La questione se al pensiero umano appartenga una verità oggettiva non è una questione teorica, ma pratica. E’ nell’attività pratica che l’uomo deve dimostrare la verità, cioè la realtà e il potere, il carattere terreno del suo pensiero. La disputa sulla realtà o non-realtà di un pensiero che si isoli dalla pratica è una questione puramente scolastica”. Dopo centocinquanta anni di “attività pratica” di sinistra, qual è la “verità cioè la realtà e potere”, del pensiero di sinistra? Qual è invece la sua degenerazione scolastica? Perché i ripetuti fallimenti nella pratica che voleva conseguire l’idea del cambiamento del mondo non hanno retroagito come avrebbero dovuto, modificando il pensiero originario? Non solo non abbiamo cambiato il mondo ma molti di noi continuano a ragionare con categorie di centocinquanta anni fa e certo se non impariamo a cambiare il sistema di pensiero in seguito al riscontro della prassi, la vedo difficile poi riuscire a cambiare effettivamente qualcosa di concreto là fuori.

Forse la sinistra radicale, che almeno non ha le illusioni di quella liberale che discute su i titoli delle canzoni che l’orchestrina della nave deve intonare durate il naufragio, deve ancora compiere la sua “grande trasformazione” e regolare i conti con la sua origine otto-novecentesca. Sarebbe forse più utile aggiornare le fonti di analisi dell’umana antropologia (quella di Marx è ferma ai guadagni ottenuti da questa disciplina al 1870!)[4], interrogarsi sulla stessa accettazione supina di una divisione dei saperi che ci fa rimbalzare senza rotta tra sociologismo ed economicismo, tra una antropologia lavoristico-produttiva e l’evidente collasso ecologico,  tra gli appassionati di “struttura” e quelli della “sovrastruttura”, tra vago cosmopolitismo stoico e geopolitica fondata su solide basi storiche e geografiche, materialismo vantato ma poi annegato in una ipertrofia idealistica che soffre atavicamente dello  “schifo del concreto”, analizzare i rapporti tra le diverse culture-civiltà che certo appartengono tutte al superiore ordine dell’umano ma che geografia e storia (di nuovo, non il “capitalismo”) hanno diviso in sistemi diversi che non hanno pratica e tradizione di convivenza reciproca. Chiarirsi anche su i controversi rapporti tra Stato e mercato poiché a volte sembra che a sinistra si sia creduto con troppa acquiescenza dell’esistenza di una dicotomia conflittuale lamentata dai liberali. Senz’altro tra i due ordini c’è storicamente tensione ma francamente nella storia non si vede questa preminenza della struttura (economica) su i sistemi (politici), si vede chiaramente che da Venezia ad Amsterdam, da Londra a Washington, oggi Pechino (ma vale anche per Tokyo e come ben vediamo e sappiamo dalle nostre parti anche per Parigi e Berlino), l’ordine economico si esprime sempre e soltanto all’interno della condizioni di possibilità che gli procura il politico. Anche la finanziarizzazione e certo la globalizzazione libera&bella, nascono da norme giuridiche e decisioni normative promosse da governi ben precisi (anglosassoni), gli stessi che oggi vorrebbero revocare parzialmente la seconda che paradossalmente finisce con l’essere difesa dalla sinistra liberale in preda alla più imbarazzante delle confusioni mentali.

Visto poi che ormai è dedita più all’intellettualità che alla pratica, la sinistra ha dei compiti seri anche in questo campo ristretto.  Il fastidio di Streeck, il fastidio  per quella brodazza di concetti dai confini sbiaditi e dalla consistenza dubbia (neoliberismo, globalizzazione, internazionalismo, cosmopolitismo, nazionalismo, populismo, e mi permetto di includere anche capitalismo, un concetto saponetta che ogni volta che tenti di prenderlo in mano sguscia via da tutte le parti), è -credo- anche il fastidio per una minorità concettuale.  Ci facciamo spesso imporre l’agenda, ci facciamo imporre i concetti, ci facciamo imporre i giudizi traendoli per antitesi meccanica da quelli posti in forma dominante. La sinistra dovrebbe trovarsi lì dove garrisce la bandiera dell’autonomia, del darsi la legge da sé ma se non riesce più ad avere una egemonia nel pensiero sul mondo imponendo sua agenda, sue categorie e suoi concetti , vuol dire che non è una alternativa, è embedded all’intero Occidente in completa regressione, de-civilizzazione, fallimento adattivo.

Notoriamente, il problema del mito della caverna di Platone è che quelli nella caverna non sanno che quella è solo una caverna, non l’universo. Difficile non pensare all’occidentale per un occidentale. Forse sarebbe utile un secondo volume sulla Grande regressione che si dia in oggetto proprio e solo la grande regressione della sinistra occidentale, come uscire da un sistema di pensiero -per lo più- scolastico, un sistema che ha perso visione e si è divaricato tra utopia stanca e gestione della contingenza. Senza una nuova sintesi, non c’è scampo al naufragio che questi “diari collettivi” accompagnano con la mestizia del “lo sapevo, lo avevo capito, ma non son riuscito a fare nulla”. E’ questa impotenza che genera depressione ed è anche questa che contribuisce alla grande regressione.

0 = 0

[1] Se sia causa prima o peggiorativa c’è poca chiarezza.

[2] W. Benjamin, Capitalismo come religione, Il nuovo melangolo, 1985-2013

[3] “Naturalmente” non significa proporzionatamente. Come osserva nel suo intervento B. Latour, tutta la contrazione è stata scaricata dai dominanti su i dominati. Che la festa fosse finita è diventato il mantra delle élite per far passare aggiustamenti sociali al fine di “passare la nottata”, promettendo vari tipi di luci psichedeliche in fondo al tunnel. Il punto è che la contrazione è definitiva e strutturale, non episodica e momentanea e quindi la festa era finita pure per loro. Ma poiché per loro la festa non può finire mai, tutto il peso dell’hangover è finito in carico a chi alla festa aveva fatto solo da cameriere.

[4] Le forme della gerarchia sociale (dominio di A su B), che siano basate sul sesso, genere, età, classe o etnia, risalgono alla nascita delle società complesse. Leggendo certe analisi, sembra che a sinistra si sia aperto il libro della storia umana solo alle pagine che vanno dal 1850 in poi.

Informazioni su pierluigi fagan

64 anni, sposato con: http://artforhousewives.wordpress.com/, due figli, un gatto. Professionista ed imprenditore per 23 anni. Negli ultimi venti e più anni ritirato a "confuciana vita di studio", svolge attività di ricerca multi-inter-transdisciplinare da indipendente. Il tema del blog è la complessità, nella sua accezione più ampia: sociale, economica, politica e geopolitica, culturale e filosofica. Nel 2017 ha pubblicato il libro: Verso un mondo multipolare, Fazi editore. Ogni tanto commenta notizie di politica internazionale su i principali media oltre ad esser ripubblicato su diverse testate on line. Fa parte dello staff che organizza l'annuale Festival della Complessità e pubblica su specifiche riviste di sistemica. Tiene regolarmente conferenze su i suoi temi di studio, in particolare sull'argomento "Mondo e complessità". Nel 2021 è uscito un suo contributo nel libro collettivo "Dopo il neoliberalismo. Indagine collettiva sul futuro" a cura di Carlo Formenti, Meltemi Editore. A seguire: "Europa al bivio. Tra radici e sfide" a cura di Vincenzo Costa, Marcianum press, 2024 Venezia e "L'era multipolare: competizione o cooperazione" a cura di Gabriele Germani, La Città del Sole, 2024, Napoli.
Questa voce è stata pubblicata in globalizzazione, modernità, mondo, occidente, recensioni libri e contrassegnata con , . Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.