Riportiamo in due puntate un breve sunto dei quattordici interventi sul tema posto a cui faremo seguire un commento finale. Il tema lanciato è lo stato del mondo (migrazioni, terrorismo, stati falliti, incremento delle diseguaglianze, demagoghi autoritari, globale – nazionale, crollo dei sistemi intermedi come partiti – sindacati – media e naturalmente la parabola neo-liberista e globalista) al cui capezzale vengono chiamate alcune menti pensanti per fare il punto.
Per Arjun Appadurai, la regressione si legge nella nascente insofferenza verso la democrazia liberale a cui si contrappone una crescente adesione all’autoritarismo populista, il mondo vira a destra (come se la democrazia liberale fosse di sinistra). Di base, c’è l’erosione di struttura operata dalla globalizzazione (ritenuta irreversibile) che depotenzia ogni sovranità nazionale ma i leader autoritari/populisti si guardano bene dall’affrontare questa causa profonda e si presentano come sovranisti solamente sul più comodo piano culturale: sciovinismo culturale, rabbia anti-immigrazione, identità, tradizioni violate. Il fallimento dei tempi lunghi e di una certa sterilità della politica democratica nell’affrontare i problemi fa crescere l’insofferenza ed alimenta la delega a soluzioni imperative che però rimangono di facciata in quanto nessuno veramente sembra intenzionato a discutere i fallimenti del neoliberismo globale. La ricetta dell’indiano è stupefacente: l’opinione pubblica popolare e di élite, liberale ed europea, dovrebbero fare fronte per difendere il liberalismo economico e politico – “… abbiamo bisogno di una moltitudine liberale.”.
Passiamo al da poco scomparso Zygmunt Bauman che conviene sulla lettura dei tempi come perdita completa di ordine e prevedibilità, nonché di messa in discussione della stessa nozione di “progresso”. Tutto ciò viene catalizzato nel “panico da immigrazione”, reazione emotiva che poggia su una sorta di eredità biologica dell’intolleranza per l’ Altro che cozza contro un fenomeno epocale che si ritiene ineliminabile. Questa reazione emotiva ha fondamento nella “paura dell’ignoto” che non è alimentato solo dalle ripercussioni dei fenomeni migratori ma dal lungo elenco delle problematicità attuali, dalle diseguaglianze economiche alla precarietà esistenziale. Seguendo Ulrich Beck, siamo nell’epoca dell’inevitabile cosmopolitismo senza avere alcuna vera mentalità o attitudine cosmopolitica. Se il pattern fondamentale è storicamente quello del “noi” e “loro”, difficile portare coabitazione, cooperazione, solidarietà a livello di umanità intesa come un tutto che non ha “fuori di sé”. La ricetta del polacco è tratta da Francesco: insegniamo a i nostri figli (che erediteranno il mondo ed i suoi problemi) la buona battaglia dell’incontro e della negoziazione, dialogo, dialogo ed ancora dialogo. S’impone quindi una rivoluzione culturale: menti lucide, nervi d’acciaio, molto coraggio, pazienza, visione globale a lungo termine, disponibilità a contrattare la verità.
Poi c’è Donatella della Porta, sociologa della Normale di Pisa che analizza le diverse dinamiche che caratterizzano i movimenti di reazione all’offensiva neoliberal-globalista, da destra e da sinistra. A sinistra si è elaborato un pacchetto moderatamente nazionalista (inclusivo e tendenzialmente cosmopolita), appelli alla solidarietà ed ai beni comuni, potenziamento democratico in senso inclusivo e deliberativo, promozione e difesa dei diritti sociali accanto a quelli umani. Ma la tradizione culturale di sinistra che include forti disposizioni normative e sviluppa livelli sofisticati di discorso pubblico, ne limita la “popolarità”. Il sostanziale tradimento delle politiche di “centro-sinistra” che non solo hanno perso del tutto connotazioni di sinistra ma qualche volta anche di centro, penalizzano ulteriormente l’area progressista. “Popolarità” invece ottenuta più facilmente dalle versioni di destra, dove si elaborano appelli generici e bugie spudorate oltre alla totale cecità verso le contraddizioni intrinseche come nell’esempio Trump, un presidente miliardario che dovrebbe sanare le contraddizioni del liberismo-globalizzato. In questo senso, “populismo” andrebbe interpretato seguendo Kenneth Roberts, come quella forma di relazione politica che parte dall’alto e va verso il basso piuttosto che il contrario. Questa mobilitazione dall’alto è propria di legami e modelli plebiscitari, delega totale a figure paterne ed autoritarie che ricevano mandati vaghi, spesso in regime di aperta contraddizione logica tra ciò che si dice e ciò che realmente si vuol fare. La ricetta della sociologa per una politica popolare ma non populista è pazienza e spazi d’incontro, dibattito ed approfondimento delle pratiche di lotta che hanno mostrato efficacia.
In Nancy Frazer, teorica femminista e filosofa americana già autrice con Axel Honneth del rilevante “Redistribuzione o riconoscimento?” (Meltemi, 2007), l’orizzonte del suo intervento si limita a gli Stati Uniti come “sintomo” più generale dell’Occidente. Siamo così alla partizione tra neoliberismo progressista e populismo reazionario che occlude ogni spazio alla sinistra poiché il secondo (populismo) ha occupato lo spazio della contrapposizione al primo (neo-liberismo). Iniziato da Clinton (1992) e diffuso da Blair (i Reagan & Thatcher del lib-prog anglosassone), continuato da Obama e dalla femminista di Wall Street Hillary Clinton, il neoliberismo progressista ha unito la soppressione dei diritti sociali e l’esaltazione di quelli umano-individuali, rompendo il fronte delle minorità di genere (donne-LGTB) – generazioni (giovani) – razza/etnia (neri ed ispanici) e classi, promettendo ai primi tre l’accesso alle gerarchie produttive basate sullo sfruttamento dei quarti. Emancipazione e finanziarizzazione vs protezione, questa la promessa neo-lib-prog. Poiché, di contro, oltre ad alcune posizioni forse più genuinamente popolari, anche se chissà poi quanto realmente condivise, il fronte populista reazionario, non rappresenta altro che la voglia di rivalsa dell’élite perdente (ad esempio quella petrolifera ed industriale vs quella ecologista – finanziaria – digitale), il tavolo presenta solo “la scelta di Hobson” ovvero una falsa scelta con cui il sistema capitalistico si dicotomizza in due versioni offrendo “libertà” di scelta della forma di dominio a cui assoggettarsi. Scelta che però “sostanzialmente” non c’è. La ricetta Sanders (Corbyn), emancipazione e prosperità, sembra allora l’unica via perseguibile per riportare la sinistra in gioco e rompere le regole del tavolo accettate troppo supinamente. Frazer si augura un ripensamento dell’establishment democratico, un rifiuto della narrazione giustificatoria di aver perso per colpa di un branco di miserabili (“basket of deplorables” secondo la “felice” espressione usata da Clinton ad un comizio), Putin e manovre dell’Fbi ma da quello che leggiamo di questi tempi, la speranza della Frazer pare davvero malriposta.
Ivan Krastev è uno scienziato politico bulgaro che include nell’analisi il panico demografico. I normali ordini stanno scomparendo per via delle migrazioni e della globalizzazione, i normali lavori stanno scomparendo per via di una “trotzkista” rivoluzione tecnologica permanente, la cultura europea sta scomparendo anche solo per ragioni di bilancia demografica. Kristev riconda che Ken Jovitt (The New World Disorder, Univ. of Cal. Berkeley, 1992) avvertiva che la “fine della storia” celebrata da Fukuyama, avrebbe lasciato campo al grande ritorno delle identità etniche, religiose, tribali. Il mondo iperconnesso corrisponde in paradosso ad un mondo disintegrato, la “globalizzazione connette disconnettendo”, un mondo ricco di esperienza ma che distrugge identità e non crea fedeltà. Nel suo Authoritarian Dynamic (CUP 2010), Karen Stenner spiega che è predisposizione psicologica di ogni individuo diventare intollerante all’aumento dei livelli di minaccia, quando il “noi” dell’ordine morale teme di scomparire. Così, non c’è alcuna ragione sostanziale per la quale i paesi centro europei debbano manifestarsi così allarmati da una invasione dei migranti che -numeri alla mano- non esiste, c’è invece la chiara percezione che la contrazione demografica (anche per la lunga diaspora dei giovani di quei paesi che uscivano dal disgelo post sovietico) sta portando all’estinzione etnica. Di contro, nelle società dell’Altro mondo, se la felicità nazionale era prima indipendente dalle ragioni materiali, l’interconnessione televisiva – Internet ha pubblicizzato un modello di “vita e società felice” che si fa prima a raggiungere migrando, piuttosto che trasformando la propria società nativa. Le ragioni della svolta populista stanno in questo disordine permanente ed incrementale che chiama una qualsivoglia forma di ordine che si è disposti a pagare anche a costo di alcune libertà.
L’argomentazione di Bruno Latour, socio-antropo-filosofo francese, ruota tutta intorno all’impossibilità dell’equazione tra i termini che spingono alla crescita economica neo-lib-global ed i termini ecologico-climatico-planetari che oppongono un invalicabile limite a quella cieca spinta. Accortisi di questa impossibilità, le élite hanno fatto -da tempo (già dagli anni ’70)- il cinico calcolo di accumulare per l’ultima volta il “più possibile” (esplosione delle ineguaglianze, del “privato” vs “pubblico”, deregulation anarco-capitalista), segnare un invalicabile confine sociale tra loro e l’irrecuperabile massa dei dannati, negare, occultare e rimuovere ostinatamente l’evidente per guadagnare tempo, scaricare le esternalità (ambientali, migratorie, disordini di vari tipi) su chi altro non poteva a sua volta scaricarle. Lo stigma del “populismo” serve a coprire ogni ragione di lamento e ribellione al crescente disordine procurato, ora che se ne discute la nebbiosa definizione altro tempo utile è stato accumulato per portare avanti saccheggio e fuga dal mondo. Il confuso sogno neo-imperiale di una Gran Bretagna che abbandona il Titanic europeo per mettersi in salvo da sola e quello ancora più evidente di Trump che rinserra gli americani nella loro isola – isolata, la grande fuga dei precedenti pifferai del “migliore dei globalismi possibili”, la dice lunga sull’egoismo lungimirante di questi irrecuperabili predatori individualisti. L’Europa sarà la prima a pagare il conto, globalmente assediata da competitor economici liberati ed invitati al grande gioco del mercato globale, assediata da migranti esuberanti, disordinata dai cambiamenti climatici in via diretta -come tutti- ma anche in via indiretta vista la totale mancanza di autonomia per energia e materie prime. Il futuro apparterrà a coloro che per primi, rifiutando l’irresponsabile fuga, sapranno atterrare su un territorio comune abitabile, sempre che gli altri non abbiano prima fatto scomparire il pianeta su cui cercarlo.
Paul Mason, giornalista e scrittore britannico, ha pragmaticamente il pentalogo del “che fare?”: reimportare l’industria nel Nord del Mondo, costringere le imprese a riadottare atteggiamenti di responsabilità sociale, rinazionalizzare i servizi pubblici essenziali, alzare impenetrabili muri per impedire alla finanza di sottrarsi alla pubblica fiscalità, congelare (o ristrutturare o cancellare) i debiti e de-finanziarizzare l’economia. Poiché, secondo il nostro, l’obiettivo dovrebbe esser quello di salvare la globalizzazione uccidendo il neoliberismo, ricostruire il consenso per l’immigrazione passa attraverso tre cambi decisivi delle politiche: 1) gestirla, dirigerla e non subirla; 2) non farla diventare “esercito di riserva” e quindi controllare e gestire anche il mercato del lavoro; 3) inserirla dentro il più ampio progetto di sostituzione dell’austerità con un nuovo ciclo espansivo. Il tutto andrebbe a costituire una nuova e sostitutiva narrazione post-neo liberista. Il finale che abbiamo anticipato, giunge dopo una veloce ricostruzione del cosa è successo in questi anni accompagnati da una narrativa neo-liberale che ora giunge al suo drammatico fallimento conclamato, inclusa la disintegrazione del consenso all’immigrazione, segnalando che quella dell’Est Europa è stata (almeno per i britannici) quella più insidiosa avendo impattato i piccoli centri più che le più attrezzate metropoli. Il nuovo soggetto sociale da compattare ed azionare con il pentalogo di obiettivi è l’essere umano giovane, interconnesso e relativamente emancipato. Altrimenti aspettiamoci una new wave di capitalismo nazionalista, oligarchico, xenofobo.
Pankaj Mishra, saggista e scrittore indiano, dà una lettura tutta culturale della fase storica in cui le cose vanno male ma potrebbero anche peggiorare. Il punto di Mishra è il fallimento dell’immagine di mondo e di uomo dell’Illuminismo, quel presupposto di un umana razionalità calcolante che, costruendo un presupposto infondato da cui far partire catene di conseguenze logico – normative, ha pensato con ciò di aver reso razionale il reale. I vari maestri del sospetto o fuori dalla definizioni culturaliste, gli intellettuali forse meno colonizzati dall’immaginario dominante, lo hanno continuato a dire inascoltati, l’uomo è altro. Freud, Nietzsche, Weber, Musil, Dostoevskij, Max Scheler, Camus, i dialettici dell’Illuminismo Adorno e Horkheimer, Arendt e Weil, financo Tocqueville, fors’anche Rousseau, hanno svolto un inascoltato controcanto sulle componenti emotive, inconsce, irrazionali, passionali, mammifere intorno alle quali la razionalità svolge la funzione di un sottile e precario velo che incarta una scatola nera di ben altra, contraddittoria, complessità. Se -come ha detto lo storico S. Kotkin-, la Russia di Stalin, con la sua ingegneria culturale, sociale ed economica ultramoderna, è stata “l’utopia illuminista per eccellenza”, ne consegue che anche i fondamenti della seconda diade del pacchetto illuminista, il pensiero marxista, ha radici interne a questo infondato presupposto. Ma questo “altro” dialettico ha pur svolto una funzione equilibrante e stablizzatrice costringendo il dominante liberale a compromessi che ne hanno migliorato le performance finali. Dopo l’89, scomparsa l’antitesi, la tesi ha pensato di essere finalmente libera di dedicarsi alla sua onnipotenza ma ha solo rivelato la sua vena delirante, avviandosi al big bang metafisico attuale. Che fare? Rivedere a fondo i presupposti fondanti delle nostre immagini di mondo e di uomo prima che -citando Tocqueville- fissando ostinatamente le macerie ancora visibili sulla riva, si finisca trascinati dalla corrente verso l’abisso.
E’ nel riuscire a tenere assieme integrati che vogliano ulteriormente progredire ed emarginati o in via di emarginazione che vogliono sentirsi di nuovi integrati, la dilemmatica equazione che si pone alla perdente sinistra, secondo Robert Misik, giornalista e scrittore austriaco. Il problema è ben esemplificato dall’ondeggiamento tra le leadership del Labour di Blair e quello di Corbyn, dilemma di ogni centro-sinistra che risolto donerebbe quella maggioranza che permette di governare, non risolto porta a rappresentare solo una delle due minoranze che però -politicamente- rimangono tali. La ricetta di questa ratatouille che come tutte le ratatouille nel cercare di sapere di tante cose non sanno di niente, sarebbe una sinistra più assertiva e meno educata con le élite globalizzanti, meno arrogante ed intellettualista quindi genuinamente popolare, attenta ai bisogni di rappresentanza delle istanze concrete oltre alle toilette pubbliche per i transgender, realistica ma sognante, che torni nei territori, che rifletta nella sue forme organizzate di partito la pluralità sociale che vuole rappresentare. Partiti di sinistra in grado di vincere le elezioni nazionali, che però condividano una unica narrazione europea, in grado di formare alleanze tra governi (di sinistra), stante che l’ambiente e la stessa architettura europea odierna è intrinsecamente neo-liberista. Tornare alle analisi di classe ma constatare che la contabilità sociale presenta non più solo la vecchia classe operaia ma anche la nuova classe precaria, più anziana e provinciale la prima mentre più giovane ed urbana è la seconda, istintivamente protezionisti e tradizionalisti i primi mentre cosmopoliti ed innovatori sono i secondi. Misik, come altri di questo libro, è liberale e di sinistra ma di come, quando, con quale elaborazione teorica, si sia pensato vincente o prima ancora possibile questo mix, non è chiaro.
L’argomentazione di Oliver Nachtwey, socio-economista tedesco, è probabilmente un po’ troppo complessa per stare dentro un articolo e viepiù nella sua riduzione che qui tentiamo. Il tedesco si appoggia alla celebre teoria della civilizzazione di Norbert Elias che lo aiuta a spiegare quella che a lui sembra l’attuale de-civilizzazione. C’è un nucleo di uomini di mezza età e medio reddito in occidente, che si sentono dispregiati e sfruttati, dalle élite, dalla globalizzazione, dalle donne e perfino dai migranti. Questa incipiente insicurezza chiama l’eterocontrollo da parte di un capo forte che ripristini l’ordine giusto delle cose. Questa chiamata ad un vertice paladino, sconta la sistematica distruzione di tutte le associazioni e comunità intermedie operate da un liberalismo che ha semplificato la società come una rete di singoli individui, tagliando appunto tutti i sottosistemi intermedi. Agisce così la nostalgia per il vecchio ordine (in parte, immaginario) dato che quello nuovo, ammesso possa definirsi un ordine, ha visto questo gruppo finire tra i perdenti, mentre élite occidentali cosmopolite, inclusi nelle specializzazioni tecniche vincenti (finanza, tecnologie, alcuni servizi) e le nuove classi medie soprattutto asiatiche, sono tra i vincenti. La de-civilizzazione, la rottura della convenzione sociale, provoca anche la violenta reazione delle élite nei confronti di questi amareggiati che devolvono consenso politico a formazioni che sfidano il potere dei dominanti. Quindi, non solo si sentono disprezzati, lo sono a tutti gli effetti. Le società occidentali moderne hanno fatto qualche passo avanti nell’integrazione orizzontale (minoranze) al prezzo di molti passi indietro in quella verticale (classi). A sua volta, non come soggetti sociali ma in termini di soggetti nazionali, è ormai chiaro che l’integrazione planetaria non è gioco a somma positiva e l’ascesa dei nuovo mondi è pagata con la discesa di parti sociali dei vecchi mondi dominanti, l’Occidente in specie. Il mercato (i suoi obblighi, i suoi valori, i suoi voleri) è stato interiorizzato come paradigma unico ed assoluto (privo di alternative), ma l’autocostrizione e l’interiorizzazione hanno prodotto effetti di estraniazione sociale progressiva alla quale si reagisce con risentimento. Il processo di civilizzazione in Elias, non è mai ritenuto una evoluzione incrementale che si solidifica strada facendo, esso “non è mai terminato ed è sempre in pericolo”, pericolo di volgersi nel suo contrario. Quella a cui assistiamo è appunto una de-civilizzazione regressiva e così si spiega l’inizio del ragionamento del sociologo tedesco che in Trump, vede proprio la negazione dell’immagine che il mondo occidentale ha di se stesso.
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Concludiamo così la prima parte dello scritto. Abbiamo omesso il contributo di Eva Illouz, sociologa israeliana poiché il suo intervento è molto stretto su vicende interne alla società israeliana che hanno poco interesse per noi. In breve, la sinistra askenazita israeliana ha snobbato i mizrahi (ebrei di etnia araba) poi sdoganati dalla destra ed oggi base del partito Shas, ultraortodosso – sefardita, stampella di destra del Likud. Non solo nella Illouz, l’autodenuncia di una sinistra intellettualista, accademica, salottiera, in fondo integrata nella stessa società di cui rappresenta il critico di corte, percorre vari interventi.
Riprenderemo con l’ultimo quarto dei contributi (tra cui W. Streeck e S. Zizek) e nostre considerazioni critiche finali. (Qui la seconda parte)