L’EVOLUZIONE DELLA TEORIA DI DARWIN. (2/2)

Nella prima parte di questo studio (qui), abbiamo provato a dare una parzialmente diversa lettura della teoria di Darwin. In questa seconda parte, analizzeremo come venne a formarsi l’immagine di mondo che in parte influenzò lo stesso Darwin ed in parte contribuì a distorcerne l’interpretazione. Questa, è l’immagine di mondo anglosassone.

Ripensare l’interpretazione di Darwin è ritornare all’influente contesto del periodo storico-culturale nel quale la teoria apparve, periodo che contagiò e venne contagiato da Darwin. L’ambiente culturale europeo del tempo (metà XIX secolo), era fortemente influenzato da varie espressioni di pensiero tra loro coordinate in una ben specifica  immagine di mondo che non ha terminato di esercitare la sua influenza sino ad oggi. Le immagini di mondo sono sistemi di pensiero che al contempo, producono ideologie ma anche i criteri di verità e le logiche con cui sono costruite. In senso geo – culturale, parafrasando una deduzione di Marx, le immagini di mondo dominanti una certa epoca son quelle dei popoli dominanti[1] L’immagine di mondo che ha interpretato Darwin in un certo modo è la stessa che ha interpretato il giusto ed il vero di molte altre idee, costruendo un canone, il canone occidentale, che continua a dominare ancor oggi in ragione del perdurante dominio dei popoli che hanno prodotto quella mentalità, gli anglosassoni.

L’opera di Auguste Comte, che anglosassone non era ma ben interpretò lo spirito dell’epoca, a noi dice poco o niente se non che fu alla base di quel “positivismo” che noi 41KY3X3X0dL._SL160_PIsitb-sticker-arrow-dp,TopRight,12,-18_SH30_OU29_AC_US160_oggi mal consideriamo col rischio di espellerlo col giudizio dalla nostra tradizione di pensiero, quando invece nella tradizione di pensiero da cui derivano anche molte altre idee che non abbiamo affatto espulso, essa fu un’opera determinante, nel senso che determinò molto. L’Origine di Darwin è del ’59 mentre l’opera di Comte si sviluppò dagli anni ’20 fino proprio a gli anni ’50 in cui il francese meglio precisò il suo sistema di pensiero, incluso un “Sistema di politica positiva” scritto tra il ’51 ed il ’54. Il positivismo fu il riflesso filosofico e concettuale di una grande affermazione dello sguardo scientifico che accompagnò la più lunga “rivoluzione industriosa”[2] che coronò un lungo percorso intrapreso già nel XVI° secolo (ed in parte anche prima) con la rivoluzione industriale propriamente detta. Tutto ciò diventò il paradigma dell’epoca in cui gli stati europei furono impegnati in una triplice competizione: 1) per l’emancipazione dalla sudditanza dall’ignoranza e dalle incapacità che lasciavano l’uomo ancora troppo soggetto al dominio della natura, viaggio che aveva segnato l’inizio della modernità che subentrò al medioevo; 2) per la concorrenza reciproca tra i popoli che ha sempre connotato il nostro sub-continente la cui geografia produce complessità (molte varietà e molte interrelazioni che formano diversi sistemi in un piccolo spazio), viepiù laddove tutti si ordinavano con le nuove attività economiche; 3) per la gara alla conquista della migliori posizioni nel mondo che era diventato una proiezione dell’Europa in interna competizione, gara che prese le forme del colonialismo e dell’imperialismo. Tutti e tre questi punti, ruotavano intorno all’idea che l’ordine, la potenza ed il benessere di ogni Stato, dipendessero dalla performance economica che beneficiava Stato, popolo e soprattutto le sue élite (politiche, economiche, militari e culturali). Tale potenza era, tra l’altro, data dalla razionalità, tecnicità, scientificità dei processi che la sostenevano. Liberalismo, positivismo-scientista e social-marxismo, furono quindi le tre principali espressioni dello spirito dei tempi. Il liberalismo era l’ideologia delle élite, il social-marxismo del popolo, il positivismo scientista era il paradigma filosofico dei tempi.

Marx, con o senza Engels, produsse il pieno della sua opera tra il 1844 ed il 1859, poi continuò la ricerca sulle sole forme economiche che culminarono nel Capitale del 1867. Siamo dunque sovrapposti all’Origine ed Engels comunicò a Marx il suo entusiasmo per la lettura di Darwin e successivamente, di nuovo Engels, affiancò i due, Marx e Darwin, come scopritori di leggi naturali (l’uno) ed umane (l’altro)[3]. L’implicito era che esiste una evoseed01episteme (la conoscenza “certa” del positivismo) che crede nelle “leggi”, meta- categoria valida tanto per la Natura che per l’Uomo. Il progresso storico era un’evoluzione ed avveniva nella competizione tra classi per la diversa distribuzione delle risorse, quindi dei modi di produrle. La variazione genetica fonte di evoluzione, in economia era l’innovazione nei modi di produzione. Inoltre, sia la teoria di Darwin, sia più in generale la temperie dell’epoca positivista, dicevano della necessità di una mente “scientifica” per catturare quell’episteme che superasse l’inconcludente vociare delle opinioni. Per Marx questo suonava come prova del fatto che il materialismo economico, spiegasse meglio dell’idealismo filosofico, il mondo. Così il marxismo superava ogni idealismo ed utopismo garantendosi un istituto epistemico superiore e concretamente utile per cambiare lo stato delle cose[4] o almeno così ritenne.

Herbert Spencer, nove anni prima dell’origine di Darwin, in un’opera del 1950, usò per la prima volta l’espressione “lotta per la sopravvivenza”. Nell’Origine, Darwin rimarca di aver coniato il termine “selezione naturale” ma giudica altrettanto idonea l’espressione, di cui riconosce la paternità a Spencer di “sopravvivenza del più adatto”. Può darsi che a Darwin, ManVersusState_ePubche rifacendosi a Spencer si appoggiava all’autorità del filosofo ben interno alla cultura delle élite, in parte proteggendosi dalle violente polemiche ingenerate dalle sue idee, le due espressioni dessero lo stesso senso ma a noi no. Il concetto di selezione naturale, sebbene accentui forse troppo questa minacciosa “selezione” che forse non è poi così minacciosa e guardinga è più ampio e generico del dire che sopravvive il più adatto come se solo pochi nel mare magnum di una generalizzata strage perpetua, si salvassero.  Inoltre “sopravvivenza” dava più l’idea che la vita è effettivamente “solitary, poor, nasty, bruty and short” secondo la visione fondativa dell’antropologia anglosassone che è in Thomas Hobbes (capitolo 12 Leviatano).   Da Spencer deriva anche il social-darwinismo che si fonda sulla classica fallacia dell’analogia in quanto trasferisce per altro “presunte” leggi del mondo naturale al mondo umano come se da quello a questo non vi fossero salti di grado e differenze sostanziali. Oggi, parte della socio-biologia e della psico-biologia contemporanee, ancorché percorrere l’incerta catena deduttiva del riduzionismo molecolare, continuano questa tradizione della fallacia analogica. L’individuo di sesso maschile, il maschio alfa come si definisce il capobranco, violento, dispotico, egoista, dominante ed ordinante, nasce da questa mitologia spenceriana che però è solo un di cui di una ben più longeva tradizione della cultura anglosassone divenuta poi “occidentale” in senso esteso dato il doppio dominio imperiale britannico – americano e l’adozione dei principi su cui fondarono la modernità quei popoli, a tutto l’ecumene europeo occidentale.

Di questa formazione culturale di marca anglosassone fa certo parte anche quel Thomas Malthus la cui opera principale è del 1798 (Essay in the Principle of Population) ma continua a precisarsi e diffondersi ancora fino al 1830. Darwin trae il teatro della “lotta per la sopravvivenza” proprio dalle sceneggiature di Malthus e con esse ribadisce una interpretazione del contesto molto cara a tutto il successivo pensiero economico: la scarsità[5]. Al dramma della scarsità maltusiana, risponderà poi l’americano Emerson dicendo che l’uomo è anche inventore (cioè scienza + tecnica).  Se non venisse postulata ed assolutizzata la scarsità non ci sarebbe lotta, non ci sarebbe competizione, non ci sarebbe selezione dei migliori, coloro che, nonostante il contesto sfavorevole, riescono a ritagliarsicopc789 un posto al sole e così dare destinazione all’evoluzione perpetua dei migliori. Che lo debbano fare su i cadaveri degli altri è solo una realistica accettazione di quel particolare disegno di mondo. Tutti i piani di questa quinta rappresentativa concordano con coerenza nel preciso divieto espresso di nuovo da Spencer, a che lo Stato non intervenga mai e per nessuna ragione a migliorare le condizioni sociali pena il disordinamento del meccanismo selettivo che a quel punto, innaturalmente, avrebbe selezionato non più i migliori in quanto più adatti ma anche quelli che andrebbero scartati o usati per il progresso dei migliori. Questo farà del successivo welfare state originariamente inventato, anche se per sola convenienza e non certo per bontà, dal tedesco Otto von Bismarck, un istituto che gli inglesi faranno molta fatica ad accettare. Si imporrà infatti solo a partire dal Rapporto Beveridge, nel ’42, mentre rimarrà del tutto alieno dalla mentalità americana. Questo “divieto” è stato poi ripreso da Hayek e la temperie neoliberale tuttora vigente.

Jeremy Bentham, compie una operazione di strutturazione filosofica decisiva. Decisiva perché le strutture delle immagini di mondo sono registrate prevalentemente attraverso il discorso filosofico. Registrate significa che la filosofia raramente inventa, più spesso come ebbe felicemente a notare Hegel, registra le forme dell’epoca col pensiero, sistematizzandole. Bentham, soprattutto con le opere degli anni ’20 del XIX secolo,  positivizza la morale con un’operazione dalla doppia valenza. Riprendendo Beccaria, Helvétius e Hutcheson (e i temi del più ampio Illuminismo scozzese di Ferguson, Smith, Hume) coniando il principio dell’utilitarismo della massima felicità per il maggior numero 9788841893876di persone, formula un’algebra morale che permetta di quantificare piacere e dolore ottenuti tramite l’azione, una preparazione di quella “scelta razionale della massimizzazione dell’utilità” a base del moderno pensiero economico. Poiché attraverso la mano invisibile, l’egoistica ricerca del massimo piacere va a vantaggio di tutti ecco realizzato d’un sol colpo il bene generale, quello personale, la scientifizzazione del desiderare e dell’agire, con beneficio morale collettivo finale. Mano invisibile e selezione naturale, al cui giudizio debbono sottomettersi i competitori, sono omologhi. La competizione individuale porta benefici generali e quindi ha valore morale. Bentham avrà forte influenza anche su i due Mill, di cui John Stuart sarà l’autore di quel On Liberty (del 1859, anno dell’Origine), altro pilone dell’edificio liberale, in questo caso, con venature socialisteggianti.

Il concetto di evoluzione, è poi in debito con la cultura del XVIII secolo in cui si espresse una parte dell’Illuminismo ed in particolare il concetto di progresso. Questo concetto idealizza un perfetto progresso stadiale della storia umana, originariamente nelle concezioni storiche di Condorcet, poi in Hegel, poi anche in Comte e di nuovo in Marx. Questo progresso è dotato, un po’ per tutti i citati, di motivi che lo fanno inevitabile, forse rallentabile o accelerabile ma non evitabile, in una corsa verso la crescente perfezione. Con una certa inevitabilità che a noi oggi appare assurda eppure che non più di un secolo e 9788843037834gmezzo fa era merce comune nei più grandi pensatori, il “culmine del progresso” sono stati i francesi per Condorcet, i tedeschi per Hegel, gli inglesi per un po’ tutti gli inglesi, di nuovo i tedeschi per Hitler e gli americani con la dottrina del destino manifesto. Per altro lo pensano di se stessi anche gli ebrei, i cinesi ed i giapponesi. E non si pensi che Hitler fosse una devianza nella sua deriva ariana, l’eugenetica è una idea inglese lanciata dal cugino di Darwin, Francis Galton e la manipolazione del genoma è oggi medaglia di prestigio per la ricerca biomolecolare statunitense. Gli anglo-sassoni sono appunto di origine germanica e l’Hitler che voleva unirsi ai cugini inglesi per sottomettere il resto del mondo al dominio ariano, lo sapeva molto bene, così come lo sapevano parti dell’aristocrazia inglese, inizialmente molto attratte dall’ascesa del nazismo tedesco[6]. C’è una doppia componente in questo wishful thinking, che la Storia sia determinata e quindi prevedibile e che chi sta leggendo questo percorso si veda come terminale finale, come frutto dello sforzo evolutivo, come “migliore”.

C’è quindi una determinabilità della storia, c’è un fine di “progresso del migliore” che premia i migliori, c’è un modo scientifico di adattarsi a questo movimento ed è quello che premia la ricerca dell’utilità egoista, poiché questa -grazie alla mano invisibile- porta alla premiante redistribuzione dei benefici. Ma tutto ciò non è che narrazione ex-post. Di base, la prova provata del successo di questa immagine di mondo e della predestinazione dei popoli che l’hanno distillata è il ruolo di vertice che Regno Unito prima e Stati Uniti dopo, esercitarono e continuano ad esercitare sul mondo, in particolare quello occidentale.

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Si tenga conto che nulla di ciò a cui abbiamo appena accennato è veramente, propriamente ed esclusivamente il pensiero dei citati (tranne in alcuni casi) e comunque la citazione fuori contesto fa apparire chiaro e terso il significato che nelle opere o nel più generale sviluppo di pensiero di un pensatore lo sono diversamente. Inoltre, se effettivamente c’è qualche risonanza del pensiero pregresso al pensatore, da parte di questo non c’è certo responsabilità per lo svolgersi della catena dei rimandi a lui successivi. Anche quando c’è questa risonanza poi, occorre vedere da cosa proviene. Possono essere idee riprese e reinterpretate, che viaggiano o compaiono in altri autori o si trovano riferite in altri contesti e non sempre apprese dalla lettura diretta delle opere. Darwin era notoriamente slide_9anti-schiavista  e ne “L’origine dell’uomo” pose severi limiti alla trasferibilità nel sociale di ciò che si presumeva essere lo standard competitivo nella natura. Condorcet era notoriamente un progressista e così Saint-Simon che credeva, come poi crederà anche Comte, che gli aggregati sociali avrebbero dovuto esser guidati dalla tecno-scienza. Spencer era pacifista, anti-schiavista, anti-colonialista, anti-militarista, a favore della parità dei sessi e secondo alcuni addirittura filo-anarchico. Malthus voleva parlare “solo” del disallineamento tra progressione aritmetica delle risorse e progressione geometrica demografica e contenere l’eccesso riproduttivo. Comte era anti-schiavista ed anti-militarista e forse, confusamente social-pre-keynesiano, sebbene “scientificamente” convinto della superiorità maschile. Era però anche convinto che l’uomo avesse parimenti ereditato due caratteri, l’egoismo e l’altruismo, quest’ultimo particolarmente importante proprio per i destini della specie, ad esempio per le cure parentali e la formazione delle società (Comte fu anche fondatore della sociologia).  Le intenzioni di Marx ed Engels sono al di sopra di ogni sospetto. L’illuminismo è un movimento troppo vasto ed eterogeneo per dire che sia stato precisamente in un modo o nell’altro, sebbene Adorno ed Horkheimer[7] vi abbiamo poi voluto vedere un paradigma ben preciso, i pensatori furono tanti e tante le modulazioni dei pensieri[8] . Una buona parte dell’Illuminismo in realtà aveva come negativo il medioevo (o per lo meno una sua semplificata immagine) e la sua motivazione di fondo, almeno quella iniziale, era di tipo emancipativo. Alcuni limiti poi che oggi rinveniamo in alcuni pensatori, non sono meno giustificabili delle considerazioni sulla naturalità della schiavitù fatte a suo tempo da Aristotele. Questo riduzionismo del portare il complesso delle idee o dei fatti di un dato periodo storico, alla supposta origine delle idee espresse in questo o quel libro, porta fallacia di attribuzione com’è nel caso del riportare i fenomeni totalitari del XX° secolo alle ideologie. Nel compiere l’analisi è idoneo un atteggiamento generale anti-determinista, cioè più complesso[9].

Il pensiero di un’epoca, si forma in maniera più complessa che non rintracciando l’origine dei pensati in questo o quell’autore. Le catene sono più lunghe ed intricate e viepiù che si è affermato il mondo moderno, le interpretazioni e le riduzioni, i commenti e le citazioni, le riviste, le televisioni, oggi i social media, le riprese nei  discorsi degli influencer che non è detto poi siano studiosi o intellettuali, hanno più importanza dei pensieri originari[10]. Giustamente ad esempio, Marx identificò a suo tempo la mentalità che stiamo analizzandorobinson-crusoe-riassunto con il Robinson Crusoe di Defoe (1719) che con la sua forma immaginifica e narrativa, ebbe sulla sua epoca e quella successiva un impatto certo ben maggiore di tutti i pensatori da noi considerati. Sempre dei primi del ‘700 è la Favola delle api di Mandeville che per egoismo privato  con ricadute di bene comune e mano invisibile, è senz’altro più influente di Adam Smith (vedi nota 9) e ben precedente.  Come visto nel rapporto tra idea contenuta nel pensiero originario e le intenzioni del pensatore, c’è un diverso allineamento rispetto a quello che poi si trova nell’immagine di mondo di un’epoca. Le idee vengono prelevate dal loro contesto e poste in un altro, poiché il senso è dato dal rapporto tra testo e contesto, cambiando il contesto, slitta il senso. In un cero senso, il pensiero di un’epoca, si auto-organizza in una continua reciproca selezione tra i pensieri e la realtà ma anche viceversa. I grandi pensatori non sono dichiaratamente al servizio di una ideologia sebbene respirino e si nutrano dello spirito dell’epoca ma il loro prodotto è prelevato e riassemblato da una seconda categoria intellettuale che intermedia con l’opinione pubblica, sono loro a costruire gli invisibili raccordi che formano l’immagine di mondo di un’epoca. E’ ormai luogo comune ermeneutico il dover staccare l’autore dal suo “-ismo”, così per Marx, così per Darwin ma forse dovremmo aggiungere anche il necessario distacco tra l’-ismo e la vulgata ed invece la connessione tra questa ed il complessivo Zeitgeist dominante un’epoca, non sempre facile da ricostruire quando da un’altra epoca guardiamo a ciò che non c’è più[11].

L’ideale riduzionista, determinista, tecno-scientista[12], la fascinazione del metodo della causa singola, la vis duramente competitiva, l’individualismo eroico è stato alla base della mentalità delle nazioni dominanti della modernità, prima la Gran Bretagna – Regno Unito, poi gli Stati Uniti d’America[13]. L’ideale è stato apparentemente verificato dal “successo” di queste nazioni, successo che le ha poste in cima alla piramide del potere 31UhP18k52L._BO1,204,203,200_planetario. Ma desumere la verità di quell’ideale dal successo ottenuto da quelle nazioni è, in parte, proprio in base al metodo della causa singola, anche un nesso causale “magico” dove la correlazione che si forma in chi osserva darebbe magicamente dimostrazione della relazione causale tra le due variabili,  un saltare dalle premesse alle conclusioni senza considerare condizioni, situazioni accessorie, accidenti e lunghe ed intricate catene di causazione complessa. Tra queste la più importante, non è certo quella che porta dalla tecno-scienza (via economia) al benessere ma dalla tecno-scienza allo strapotere militare che porta a dominare porzioni di mondo molto più grandi della propria porzione nazionale, da cui si estraggo ragioni che alimentano un sistema economico che porta al benessere. E tutto ciò, comunque, a volerla fare breve perché la trama reale  è ben più intricata a lunga.

Poiché tra intellettuali e sacerdoti il confine è labile, lo è da sempre, ecco spigato come e perché molte menti apparentemente lucide e ben informate, abbiano recitato i salmi del rosario anglosassone, la religione dell’individuo impaurito che lotta contro l’altro individuo impaurito, per sopravvivere nella natura nemica ed il cui ricorso all’oggettività scientifica garantisce armi più affilate per sottometterla (Bacone) e, non avendo gli anglosassoni tradizione di convivenza stanziale e  numerosa, l’unico modo per stabilire la verità tra simili. Questo vero e proprio trauma profondo dell’antropologia dei barbari del Nord Europa (germani poi anglosassoni, goti, antichi indoeuropei di varia origine) è diventato lo standard di una certa mentalità occidentale che élite di altra origine culturale (ad esempio i mediterranei) condividono per puro interesse utilitario, poiché i discendenti degli antichi barbari hanno dominato il mondo, sottomettendolo e loro corrono incopvf soccorso dei vincitori per raccattarne le briciole[14].

L’amore per la libertà di questi popoli è l’insofferenza per ogni istituzionalità, l’amore per un sostanziale stato di natura il cui passo successivo non è lo stato di cultura e civiltà del Leviatano ma lo stato di natura degli egoismi non più totalmente liberi di configgere ma invitati a cooperare nel far mercato, che grazie alla mano invisibile[15], produce ordine dal disordine. Sostituito l’idromele con la birra e poste le asce bipenne al servizio della foga combattente che ha sempre contraddistinto queste genti, gli anglosassoni si sono garantiti la prova del successo del loro modo di stare al mondo con la forza e la prepotenza, deducendo narrativamente che tale successo provenisse invece dall’astuzia del saper far mercato, tecnica, scienza, competizione individuale. Mercato magico poiché misteriosamente in equilibrio come la Natura, intelligente perché redistributore come la selezione naturale, naturale perché sublima il carattere competitivo che determina il più adatto, nobile perché libero quindi soggetto alla legge di natura. L’evoluzione, per gli anglosassoni,  è corsa sempre lungo il continuum di un difficile rapporto con la Natura, prima blandita con atteggiamenti mistico-pagani, poi affrontata con potenza mistico-scientifica.

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Questo sistema formato da scarsità, lotta, egoismo, competizione, brutalità, individualismo, mistica del conflitto, riduzionismo monoculare, l’eterna presunzione che mia verità è più vera della tua, scientismo ed oggettivismo, ha oggi più di centocinquanta anni ed era riferito ad un mondo di un miliardo e poco più di persone, con una Europa centro dello sviluppo politico, militare, economico, sociale e culturale che oltretutto alimentava collezionando vari centri di insiemi imperiali estesi a tutto il mondo. L’ambiente non aveva ancora dato segni di sofferenza, c’era ancora molto da inventare e produrre, le demografie occidentali erano esuberanti ed esportavano umani con le migrazioni, la guerra si faceva ancora guardando negli occhi l’Altro.

Questo sistema di pensiero, oggi monopolizza l’immagine di mondo occidentale in una versione ulteriormente semplificata e radicalizzata dagli americani. Ma noi europei non siamo più centro del mondo, siamo sempre più anziani, facciamo meno figli, non è più nostra mentalità (per fortuna) l’idea di dominare anche militarmente il mondo. Abbiamo debiti e non siamo molto felici. Sebbene la nostra condizione storico – anagrafica – esistenziale non sia delle migliori, sarebbe il caso di darci una robusta svegliata e cominciar a tirar fuori qualcosa di nuovo nelle nostre immagini di mondo, a cominciare dall’interpretazione di quel pensiero del XIX° secolo da cui liberalismo, scientismo para-positivista e parte del marxismo discendono.

Rinnovare l’interpretazione di Darwin in senso adattativo è un tentativo, poiché  il principale problema teorico-pratico che oggi abbiamo è proprio il come adattarci a tempi nuovi superando le mentalità vecchie. Mentalità e popoli che con esse si identificano, mentalità e popoli che pur con un brillante passato, non sembrano più adatti al presente e viepiù al futuro.

(2/2 La prima parte è qui)

(Qui, l’articolo in formato completo)

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[1] Forse l’unico a cui è diventato per primo chiaro che oltre alle divisioni di classi interne alle nazioni, c’è una divisione di classe tra nazioni, fu Lenin nel suo lavoro sull’imperialismo (ma anche J.A.Hobson). L’idea è poi passata alla scuola sistemica di Wallerstein che suddivide il sistema-mondo in Centro, Semi-periferia e Periferia.

[2] Il concetto di rivoluzione industriosa si deve allo storico Jean de Vries. Già dal XVII 51d4NhuTDvL._UY250_secolo, si notano in varie parti del mondo e non solo in Occidente, una serie di profondi mutamenti della domanda. Le popolazioni aumentavano di volume, si moriva meno di malattie e pandemie, alcune società si complessificavano, le varie élite chiedevano simboli di status che di loro prima natura sono “esotici”. Questo diede vita ad una rivoluzione degli scambi e solo due secoli dopo, la rivoluzione industriale accompagnerà il movimento con un mutamento dell’offerta. La rivoluzione industriale, secondo questa ipotesi storica, si sarebbe sviluppata per ampliare il target della domanda e far di tutta la società, una società desiderante, desiderio diffuso che ne ha poi alimentato la crescita e lo sviluppo del moderno sistema economico (una terza rivoluzione fu quella consumistica del ’50-’60 e successivi). La rivoluzione industriale fu un amplificatore ma il segnale originario, nasce con l’inizio della modernità, nel ‘600.

[3] Lenin  in Cosa sono gli “Amici del popolo”?, 1894.

[4] Quanto la presunzione di scientificità del marxismo, si debba a Marx o Engels o al solito Kautsky (noto pervertitore dell’interpretazione del canone), è difficile dire. Le parti del pensiero di Marx che non siano la critica dell’economia politica, sono notoriamente frammentarie ed a-sistematiche per quanto le polemiche iniziali col socialismo utopistico, facciano pensare che qualche grado di oggettività fosse auspicato dallo stesso Marx. Ma ai fini del nostro discorso, in questo caso, l’interpretazione è anche più importante del pensiero originario dell’autore, poiché è proprio quella che ha attraversato un’epoca, segnandola con un discorso che risulta, almeno metodologicamente, accordato al discorso dominante. Marx comunque lesse ed apprezzò Darwin tanto da inviargli una copia del Capitale con dedica (resoconto delle tracce di Darwin nel pensiero di Marx, alla voce Charles Darwin, qui: https://en.wikipedia.org/wiki/Influences_on_Karl_Marx#Charles_Darwin

[5] Si consideri l’effetto sorpresa che colse gli anglosassoni trapiantati in Nord America, Lì, per ragioni geografico – ambientali, si manifestava invero una terra dell’abbondanza, ben diversa dalle steppe e foreste del Nord Europa che avevano fatto da culla ai popoli barbari originari. Da ciò, gli “americani” trassero l’idea di essere i predestinati, poiché Dio aveva dischiuso loro la terra delle opportunità.

[6] Su i rapporti tra nazisti ed aristocrazia nera inglese si veda G. Galli, Hitler ed il nazismo magico, Rizzoli, Milano, 2005

[7] Adorno – Horkheimer, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino, 2010

[8] J. I. Israel, Una rivoluzione della mente, Einaudi, Torino, 2011

[9] Il caso forse più eclatante è quello della Ricchezze della nazioni di Adam Smith che c’è da pensare sia un libro in cui la proporzione tra lettori effettivi e citatori, sia di 1 a parecchie decine. Contrariamente a quanto riportato nell’articolo della nota 15, a me risulta che la mano invisibile, nella RdN, compaia non tre ma solo una volta e che tale concetto origini da B. de Mandeville che Smith sbeffeggiava pubblicamente per la sua cinica pretesa che l’egoismo porti a pubblici benefici.

[10] E’ il caso, ad esempio, della poco conosciuta Ayn Rand, americana acquisita , fondatrice di una specie di 41TbEywJ2cL._SX288_BO1,204,203,200_idea filosofica detta “oggettivismo”. La Rand disprezzava in modo generalizzato quasi tutti i filosofi ma uno più di tutti, colui il cui pensiero definì addirittura “mostruoso”: Immanuel Kant (!). A. Greenspan e la prima Hilary Clinton si sono dichiarati suoi simpatizzanti. La Rand scrisse la sua specie di filosofia sotto forma narrativa e quindi il suo impatto fu ben maggiore e profondo di molti altri, più strutturati  e noti, pensatori.

[11] Inoltre, il ruolo di questa seconda categoria di intellettuali assemblatori e sviluppatori del pensiero dei “grandi” è occultato dall’aristocrazia intellettuale che ovviamente li disprezza anche perché invischiati nei prosaici interessi della commercializzazione del pensiero, essendo questo il loro lavoro specifico.

[12] A questo dominio paradigmatico che si espresse nel XIX secolo, si deve anche la annosa questione dello statuto delle scienze umane, quell’intermedio campo che si trova tra le scienze dure e gli umanesimi storico-filosofici. Lo statuto e la discussione sul metodo di queste discipline è una questione centrale nel processo di revisione dell’immagine di mondo dominante.

[13] Questo ideale ha toccato i vertici negli Stati Uniti d’America, una vera Repubblica delle scienze positive, inclusa la politica, infatti battezzata “scienza politica” (e l’economia politica ribattezzata “economics”), soggetta al paradigma postivista – comportamentista della Scuola di Chcago (H. Lasswell. D.Truman, D.Easton oltre al fondatore C.E.Merriam). Questa tradizione, a cui iscrivere anche il filosofo politico A. Kaplan, consegue quella più generale del pragmatismo (o pragmaticismo) filosofico di C.S.Peirce, W. James e J. Dewey.

[14] Chi scrive non condivide affatto quella critica della tecnica e della scienza che arriva la rifiuto di entrambe. E’ triste constatare che da una parte c’è l’intera immagine di mondo anglosassone (che critichiamo nell’insieme non nello specifico di contributi al pensiero che non sono da minimizzare) e dall’altra un confuso senso di nostalgia di non si sa cosa, che oscilla tra Hegel, Heidegger, il medioevo e la new age.

[15] http://evonomics.com/the-invisible-hand-laissez-faire/

Informazioni su pierluigi fagan

64 anni, sposato con: http://artforhousewives.wordpress.com/, due figli, un gatto. Professionista ed imprenditore per 23 anni. Negli ultimi venti e più anni ritirato a "confuciana vita di studio", svolge attività di ricerca multi-inter-transdisciplinare da indipendente. Il tema del blog è la complessità, nella sua accezione più ampia: sociale, economica, politica e geopolitica, culturale e filosofica. Nel 2017 ha pubblicato il libro: Verso un mondo multipolare, Fazi editore. Ogni tanto commenta notizie di politica internazionale su i principali media oltre ad esser ripubblicato su diverse testate on line. Fa parte dello staff che organizza l'annuale Festival della Complessità e pubblica su specifiche riviste di sistemica. Tiene regolarmente conferenze su i suoi temi di studio, in particolare sull'argomento "Mondo e complessità". Nel 2021 è uscito un suo contributo nel libro collettivo "Dopo il neoliberalismo. Indagine collettiva sul futuro" a cura di Carlo Formenti, Meltemi Editore. A seguire: "Europa al bivio. Tra radici e sfide" a cura di Vincenzo Costa, Marcianum press, 2024 Venezia e "L'era multipolare: competizione o cooperazione" a cura di Gabriele Germani, La Città del Sole, 2024, Napoli.
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2 risposte a L’EVOLUZIONE DELLA TEORIA DI DARWIN. (2/2)

  1. gengiss ha detto:

    Analisi interessante, complimenti.
    Sulla sopravvivenza del più adatto e del più forte, va sempre notata la contraddizione del connotarla in termini etici e di progresso civile: il più adatto/forte non è il migliore. Ad es. in guerra è più probabile che sopravvivano gli spietati, gli insensibili, i furbi, i vigliacchi ecc., e che muoiano i coraggiosi, gli onesti, gli altruisti ecc.
    Nemmeno Nietzsche, pervaso dallo spirito del tempo, era riuscito a sottrarsi a questa logica errata.

    • pierluigi fagan ha detto:

      Grazie. In realtà, è probabile che in guerra, sopravvivano i più cooperativi (se non ci fossero gli ordini gerarchici). Ne parlerò nel prossimo articolo che uscirà a giorni, una recensione dell’ultimo libro di Michael Tomasello del Max Plank Institute di Lipsia. A presto.

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