TEMPI COMPLESSI.

Questa intervista mi è stata fatta da Paolo Bartolini (analista filosofo, counselor formatore), collaboratore per l’area cultura della rivista on line Megachip. La si trova anche qui.

Lei si occupa da anni di “complessità” declinando con rigore e ironia una critica duplice: al capitalismo globale, con la sua classe politica e imprenditoriale, e ai nemici del Sistema che continuano a ragionare adottando schemi logici vecchi almeno di due secoli. Quali sono, a suo avviso, gli errori principali di coloro che, un giorno sì e l’altro pure, vorrebbero capovolgere il capitalismo e puntualmente non vi riescono?

Appunto il fatto che un giorno e l’altro pure, tentano, non vi riescono ma non riescono neanche a cumulare qualche avanzamento sostanziale nell’opera e dopo un secolo e mezzo non si pongono la domanda su cosa non va di questo loro tentare e non riuscire. Il sistema anticapitalista ha il suo problema nella sua stessa definizione, che è negativa. L’esercizio del negativo ha ragioni logiche che rispondono a valori, ma l’ordinatore del nostro vivere associato risponde solo alla capacità che ha di fornire un qualche tipo di adattamento. Possiamo criticarlo in quantità e qualità a piacere ma fino a che non verrà progressivamente mosso, manipolato intenzionalmente, per diventare qualcos’altro che produca miglior adattamento (magari non solo materiale, ma neanche solo ideale), da una parte rimarranno idee in forma di parole, dall’altra permarranno fatti in forma di prassi. Ultimamente sono stato preso da una delle Tesi su Feuerbach di Marx ma non l’undicesima che è la più nota, bensì la seconda che, tra l’altro, dice: “E’ nell’attività pratica che l’uomo deve dimostrare la verità, cioè la realtà e il potere, il carattere terreno del suo pensiero. La disputa sulla realtà o non-realtà di un pensiero che si isoli dalla pratica è una questione puramente scolastica”. Nel canone delle idee e delle prassi che hanno avuto come fine il cambiamento del nostro modo di stare al mondo si vede una certa indisponibilità all’auto-apprendimento, sembra un sistema non adattivo, non percepisce la realtà che vorrebbe modificare, non apprende dai suoi errori, è molto critico ma molto poco auto-critico, sembra indisponibile a ripensarsi con la radicalità che dovrebbe essergli propria, è immune alla falsificazione. Basato sull’astrattezza, ha prodotto metri cubi su metri cubi di librerie e biblioteche mentre il suo oggetto, ciò che critica, ha prodotto pochissimi libri ma tantissimo mondo. Del resto, questo canone, ha mostrato e mostra spesso tratti tipici di certe forme organizzate di credenza immodificabile, il dogmatismo, le scomuniche, l’impermeabilità al tempo ed al cambiamento, l’ ossessione per il Libro (il Capitale, il Manifesto, ad esempio), la formazione appunto di una “scolastica” con tanto di tentativo di subordinare la ragione alla fede, una fede inscalfibile su alcuni punti di analisi, prognosi ed anamnesi che però, non avendo prodotto ciò che dovevano produrre, andrebbero profondamente rivisitati. Ci si rivolge con passione, sebbene critica, a questo pensiero e soprattutto a coloro che ne condividono la supposta verità, perché sono queste le prime forze sulle quali si può contare per riprendere instancabilmente l’opera della trasformazione intenzionale del nostro modo di stare al mondo. Questa è una critica amica o meglio, una auto-critica.

Il primo punto, il punto originario dal quale si biforcano due diversi modi di sviluppare il discorso, è se ritenere questo modo dipendente dal gioco che s’instaura tra forze e rapporti di produzione – e tra questo sistema “materiale” e la sua proiezione “ideale” in quello che Marx chiama “modo di produzione” – o se ritenere il nostro modo di stare al mondo, una variante o diversa versione di una forma più semplice ed antica ovvero la forma gerarchica come forma d’ordine degli aggregati umani complessi. La gerarchia sociale cioè non origina dal modo di produzione e non è tentando la modifica del modo di produzione che s’annulla. Ha avuto forme di genere, di generazioni, di etnia, forme religiose, militari, politiche prima che economiche. La storia della gerarchia sociale, oggi che abbiamo qualche conoscenza archeologica ed antropologica maggiore di un secolo e mezzo fa, sembra dirci che la sua origine fu funzionale, forse addirittura delegata e solo nel tempo divenne un potere intenzionalmente conteso e difeso per ordinare tutto il complesso sociale. L’emancipazione da questa forma semplice, quella che per prima abbiamo trovato in una storia che ha solo 10.000 anni, che è ancora l’infanzia della complessità sociale umana, presuppone un percorso diverso che non modificare la proprietà dei mezzi di produzione. E’ un percorso in cui conta la massa critica e non questa o quella classe sociale, la distribuzione di conoscenza e non decisivamente questo o quel modo di organizzare il fatto economico che ne sarà conseguenza, il tempo della lenta trasformazione intenzionale e non il mito frettoloso della “rivoluzione”, la distribuzione quanto più equa ed ampia dell’intenzionalità politica e non il ruolo guida di questa o quella élite, anche di quelle “ben intenzionate”, le avanguardie che dovrebbero guidare le “masse”, termine questo che mi provoca un sussulto ogni volta che l’incontro. Già accorgersi dell’incongruità logica dell’idea omeopatica di combattere la gerarchia sociale con un sistema avanguardie/masse sarebbe un passo avanti.

Quali sono i libri e gli autori che hanno influenzato in modo profondo e corroborante le sue ricerche nel campo delle scienze, della filosofia e della critica sociale? In altre parole: può dirci qualcosa dei suoi compagni di viaggio?

Debbo premettere che la mia formazione è atipica. Ho lavorato nel “business”, addirittura in una delle sue enclave più avanzate per venticinque anni. Forse è anche per questo che quando poi sono tornato su i libri, in specie quelli di economia, ho faticato più che su quelli di fisica quantistica per capire questi signori di cosa stessero parlando. Nulla più del “verum ipsum factum” vichiano rivela il ruolo del tutto ideologico di certe costruzioni di pensiero. Tra le molte fortune che questo accidente esistenziale mi ha portato, oltre ad un senso della realtà concreta che ormai mi è istintivo, c’è stata la libertà di apprendimento: non sono stato formato dalla modellatrice istituzionale basata sulla divisione delle discipline. Credo che non sia molto chiaro il fatto che la divisione disciplinare è la forma che porta senza alternative a collezionare solo frammenti, viste frazionate, conoscenze irrelate di particolari che non hanno possibilità alcuna di riformar un generale. Forse Hegel nel suo linguaggio privato con “il vero è l’intero” voleva significare anche altro, ma trovo l’espressione geniale anche per denunciare il fatto che la parzialità specialistica degli sguardi impedisce in via di principio di porre nel pensiero gli oggetti macroscopici, l’Io, il Noi e l’Altro, il Mondo, il Tempo, le relazioni complesse che legano il tutto. E’ solo perché in cinque anni di studio l’apprendista economista non ha neanche un esame di antropologia o psicologia umana che è possibile definire dottori persone che credono nell’assunto surreale dell’homo oeconomicus. E’ solo perché il docente, anche marxista o critico, è geloso del suo recinto da cui proviene la sua posizione gerarchica che non si perisce di chiedere al collega di altra facoltà di venir a tenere almeno una lezione che aiuti a porre un po’ meno dogmaticamente ed astrattamente i fondamenti su cui poi costruire la formazione. Questo sistema di specializzazioni, nell’economia pratica, è proprio ciò che dà vita a quella forza di autorganizzazione che gli inglesi, inguaribili platonici, chiamarono “mano invisibile”. Ma nella conoscenza umana non c’è alcuna mano invisibile, c’è solo l’Io penso, l’unità di tempo e luogo in cui si accumulano le conoscenze in una unico motore mentale in grado di processarle. Marx, ad esempio, ebbe competenze nella precoce antropologia del suo tempo, praticamente inaugurò la sociologia e la storia culturale, s’infiammò nella lettura di Darwin e ne scrisse ad Engels, non gli si possono negare alte competenze nel pensiero economico, certo non era digiuno di filosofia, di diritto, di storia ed ebbe passione ma anche pratica politica attiva. Oggi, il nostro intero è molto più complesso e paradossalmente la possibilità di processarlo è molto minore di quella che ebbe Marx.

Mi scuso se non ho risposto direttamente alla domanda. Una guida molto approssimata dei pensatori della cultura della complessità, si trova sul mio sito. Ma in effetti, i miei compagni di viaggio sono stati tanti, dalla fisica alla metafisica e quello che mi sento di consigliare è proprio questo, farsi rapire da un libro di biologia, di archeologia, di world history, di geopolitica, di scienze cognitive, da Aristotele se si ha tempo, ricondizionare il proprio metodo e da ciò aprirsi a tutto l’albero delle conoscenze facendosi una idea in proprio. Dobbiamo riconquistare la capacità diffusa di indagare l’intero, altrimenti non lo cambieremo, mai.

Sul piano geopolitico il pensiero della complessità fatica a conquistare l’opinione pubblica. Ciò non stupisce ma è comunque molto grave, in quanto le crisi molteplici del presente richiederebbero di abbandonare semplificazioni e riduzionismi per essere colte al crocevia tra fattori ecologici, psicologici, culturali e politici. Può farci un esempio che renda conto dell’urgenza di un cambio di paradigma nella comprensione degli attuali (dis)equilibri fra potenze mondiali e interessi divergenti?

Come esempio possiamo prendere l’Italia e l’Europa. Partiamo dall’Italia. L’Italia è uno Stato-nazione di taglia europea, taglia europea significa relativamente piccola per ragioni storico-geografiche. Siamo divenuti un unico Stato tardi, poco prima della Germania e molto dopo la Francia e l’Inghilterra-Gran Bretagna, ma anche la Spagna. Il sistema eurocentrato ha dominato il mondo per tre secoli, poi è diventato parte di un macrosistema occidentale a perno americano con una prima corona nippo-anglosassone ed una seconda corona continentale. Nel frattempo, l’Europa, che negli anni ’70 valeva il 37% del Pil mondiale oggi vale il 24%, valeva il 21% della popolazione ed oggi vale il 7%, sia il peso Pil, sia il peso della popolazione scenderanno nei prossimi decenni, è cioè una sistema in contrazione. Un sistema in contrazione, per la forma di ordinamento che si è dato e cioè l’economia di produzione e scambio, vede progressivamente ridotte le sue condizioni di possibilità. Questa sistema in contrazione poi, non è un vero sistema, nel senso che non ha una sua soggettività, non ha una sua intenzionalità politica, economica, culturale, militare unitaria. Ha una rete di trattati il cui fondamentale è stato scritto quasi un quarto di secolo fa. Si sa che questo stato di cose ha tolto sovranità e quindi intenzione politica ai singoli stati e non per darla ad un nuovo macro-soggetto. Ma la sovranità è persa anche per quanto riguarda il fatto militare, il che è ben grave dal momento che lo Stato moderno nasce anche per prelevare con le tasse le sostanze che permettono di pagare una forza di difesa, se il soggetto non è neanche in grado di difendersi non è soggetto ma oggetto. Ed è persa per lo più anche sotto il profilo economico poiché i suoi agenti economici che competono contro altri nell’agone planetario, sono per lo più di taglia media o piccola. Un investimento in ricerca e sviluppo di una azienda italiana ma in fondo anche europea, è ridicolo se confrontato con identico di una multinazionale americana. Quindi è persa anche dal punto di vista finanziario perché società di rating, stampa finanziaria, broker, fondi privati, pensione e sovrani, sono parti di altri sistemi concorrenti ed in più mentre negli altri sistemi la banca centrale agisce attivamente nel bene del sistema paese, da noi agisce nel bene di un principio di sostanziale neutralità monetaria che favorisce solo la Germania che ha una storia di competitività produttiva che non ricorre alla valuta.

Una spinta sarebbe allora in direzione di fare di questo aggregato europeo un vero sistema, ma letture riduzioniste e specialistiche della statualità, quindi della sovranità, dicono il contrario. Dicono si debba tornare allo Stato-nazione originario, poco importa se di taglia tale da non poter credibilmente esercitare sovranità su se stesso perché troppo piccolo e debole. A questa spinta che torna al piccolo si contrappone una confusa spinta opposta ad andare verso il grande, all’unione indiscriminata di qualche centinaia di milioni di individui che hanno storie, tradizioni, linguaggi, culture, religioni e forme sociali, politiche ed economiche del tutto eterogenee. Questa idea del pensar possibile l’unione degli europei si sostiene solo con l’intuizione entusiasmata, solo non andando al dettaglio razionale di chi fa cosa, quando, come e perché. Prendete le tabelle della popolazione degli stati ipoteticamente da unire, quelle che proporzionatamente dovrebbero esprimere i rappresentanti di un ipotetico parlamento e poi ditevi se la maggioranza “latina” dominerà su quella del “Nord” o viceversa oppure se quella “occidentale” sarà dominante o dominata da quella “orientale” e ditevi se ritenete ciò possibile, se ciò possa essere accettato in base ad un astratto principio democratico che però confligge con le geo-storia concreta. Provate a prevedere se e come comporre gli interessi di un’unica politica estera, fiscale, economica tra sistemi che non riescono a fronteggiare neanche la blanda migrazione di cui siamo meta. Blanda perché al di là della nostra impreparazione al mondo complesso una cosa è certa: aumenterà e non di poco. Io credo noi si debba, per ragioni esterne ovvero di adattamento al mondo nel senso planetario, raggiungere forme più massive del singolo stato nazione europeo che ha cinque secoli di anagrafe e non è più adattativo, né sovrano su nulla visto che l’ambiente è dominato da una megafauna di stati grandi per dimensioni territoriali, materie/risorse/dimensione economico-finanziaria e/o popolazione, ma credo che per ragioni interne noi si debba prima puntare a formare sistemi che non rigettino il reciproco trapianto. Prima di passare da 20 o 30 stati ad uno, logica della progressione vorrebbe noi si passasse attraverso il già difficile compito di istituire un sistema latino-mediterraneo, un sistema del Mare del Nord, un sistema slavo-balcanico, ovviamente tenendo fuori l’Isola (il Regno Unito) che per altro non aderirà di suo a forme sistemiche sovrastatali con i continentali. Sono questi i sistemi che hanno presupposti di lingua, tradizione, cultura, religione, interessi geo-politici, sviluppo, comuni e sono solo questi i presupposti necessari per forzare un cambiamento intenzionale, un costruttivismo storico inedito e per altro assai difficile.

Il cambio di paradigma è partire dalle relazioni. Devi avere relazioni con soggetti sovrani grandi, grossi e potenti? beh allora devi raggiungere anche tu una qualche forma relativa di potenza. Nel farlo devi mettere assieme cose che sono per tradizione distinte e quindi devi stare attento a non trovarti con pezzi le cui relazioni, connessioni, condivisioni, sono impossibili o molto improbabili. Devi trovare il giusto mezzo tra l’esser qualcosa di nuovo e la possibilità fattuale di esserlo.

Che opinione si è fatto circa il presunto superamento della dicotomia Destra/Sinistra? Queste categorie e i relativi concetti vanno abbandonati o piuttosto ripensati?

La dicotomia ha origine, com’è noto, rispetto alle reciproche sedute dei rappresentanti delle Assemblee del 1789 francese, prima e dopo il 14 Luglio. Si sedevano a destra coloro che ritenevano che alcune minoranze quali la monarchia, l’aristocrazia, il clero dovessero avere qualche diritto di decisione privilegiato ed una sovra rappresentazione nelle assemblee elettive, si sedevano a sinistra coloro che ritenevano tale diritto fosse egalitario ovvero si dovesse rappresentare il corpo sociale in forme indifferenziate, al di là dell’origine, il censo, il ruolo sociale, su pura base quantitativa. Nel contesto storico specifico quindi, era una dicotomia relativa alla dicotomia politica storica (presente in scritto sin dalla Politica di Aristotele ma in vivo probabilmente da molto prima, senz’altro dalla riforma di Clistene e secondo alcuni anche da Solone, forse con tracce anche in Eraclito, Vi°-V° secolo a.c.) tra oligarchici e democratici ovvero la dicotomia concettuale che vede un privilegio di capacità o diritto di decisione dell’intenzione politica della comunità nei Pochi (destra) o nei Molti, per approssimazione dei Tutti (sinistra). Su questa fondazione dei termini della dicotomia si è poi sovrapposto tutto il XIX° e XX° secolo, socialismi, comunismi, fascismi, progressismi e conservatorismi. Mi pare ci siano però pochi dubbi sul fatto che le lotte per l’estensione del diritto di voto, per una maggior eguaglianza dei diritti e dei doveri, dei redditi, della formazione, dell’educazione ed dell’informazione, nonché correttivi delle ineguaglianze come la fiscalità progressiva e l’erogazione di prestazioni sociali generalizzate, siano state battaglie definibili di sinistra in accordo al significato originale. Non trovo nel registro storico alcuna presenza di destra in quei movimenti ed atti politici.

Poiché la dicotomia fondamentale, quella dei Molti vs i Pochi permane e segna l’intera storia delle società umane complesse, cioè le società che originano a partire da 10.000 anni fa, non vedo ragioni per ritenerla estinta.

Chi sostiene questo superamento, obietta che trattandosi di un problema di sovranità (chi decide l’intenzione politica delle comunità?), il problema della sovranità, oggi, si configura come una lotta tra organismi economici sistemici (BM, FMI, BCE, NATO etc.) e l’egemone imperiale (USA) da una parte e i popoli ripartiti in stati (nazione?) dall’altra, e che questa partizione non coincide con quella in oggetto. Ma questo fatto non vedo come possa annichilire la dicotomia, questo fatto che è indubitabile, dice solo che la dicotomia è trasferita in una tricotomia per la quale permangono coloro che condividono l’idea che la comunità e solo la comunità debba decidere di sé (autonomia) ed una terza posizione che pensa che le comunità debbano sciogliersi in un ordine economico – finanziario – culturale vagamente cosmopolita ma che poi, in realtà, è a sua volta ordinato da un centro imperiale, quindi militare e politico ben preciso, precisamente anglosassone e decisivamente statunitense (eteronomia). Ora, le due posizioni dicotomiche che prima coprivano l’universo politico ed oggi ne coprono solo una parte, possono ben convenire sul fatto di voler escludere il terzo che punta ad un sistema di tipo logico diverso (economico vs politico), così come cattolici conservatori e financo preti da una parte e comunisti rivoluzionari financo atei dall’altra, cooperarono contro il terzo fascista ma questo nuovo fronte d’ingaggio non sospende il fatto che, ripristinata la sovranità nella comunità, la dicotomia si tornerà ad esprimere né più e né meno per come si espressa storicamente. La tricotomia si presentò con assetti diversi anche quando USA e URSS cooperarono contro la Germania nazista ma nessuno si sognò di dire che le categorie comunismo – capitalismo erano desuete perché cooperavano contro un terzo che volevano escludere (tertium non datur!). Anche la destra estrema italiana post bellica collaborò tramite servizi segreti e non solo, con la CIA quindi col “nemico americano”, nella lotta contro la sinistra e lo fece rimanendo apparentemente anti-capitalista ed anti-imperialista, in taluni casi. Così oggi vedo un po’ di confusione nel fronte anti-capitalista in cui si trovano sovranisti, nazionalisti, russi ortodossi, la Chiesa cattolica, l’islam militante oltre che socialisti, comunisti, anarchici, democratici radicali, quasi che l’anticapitalismo dell’YPG e quello dell’Isis (ammesso sia tale) debbano portare ad un loro affratellamento che, in effetti, è semplicemente impossibile. Il nemico del mio nemico può anche essere, rispetto a un diverso contesto, momentaneamente mio “amico”, ma la tattica è di tipo logico inferiore alla strategia.

Infine, per non smarrire la diritta via, consiglierei di pensare le categorie non solo in forma negativa ovvero “contro” chi o cosa combattiamo, ma anche in forma “positiva”, per chi e cosa combattiamo. E lo consiglio perché è questa l’essenza del “politico” che è l’ambito in cui agiscono queste categorie: si è contro qualcosa perché si è favore di qualcos’altro, non perché si crede a priori nella “potenza del negativo”. Posso anche convenire tatticamente con chi condivide l’opposizione al terzo ordine, ma quando poi ci confrontiamo positivamente su quale ordine politico darsi e come ordinarlo praticamente, con chi crede nella naturale ineguaglianza e crede giusta tale asimmetria non ho nulla a che spartire ed anzi, ritrovo subito ciò che Schmitt chiamava “il nemico”. Sull’urgenza di superare la dicotomia, non vorrei agisse la tenace convinzione di fondo di forme di pensiero tardo hegeliano sempre in caccia del veritativo Aufhebung (superamento, appunto) che confermi che il motore della Storia, come quello delle idee, è dialettico. In effetti, questa “furia del dileguare” la dicotomia sembra più un urgenza di certi intellettuali che, pur essendolo, non si vogliono più definire di sinistra. La destra politica mi sembra ancor bene convinta delle sue ragioni e delle sue definizioni e il fatto che la sinistra sia smarrita riguarda questo ramo della dicotomia non la sua sussistenza.

Arriviamo al “Cosa fare?”. Riaggiornando Marx, non ritiene che il mondo possa essere cambiato solo dopo essere stato interpretato adeguatamente? Come si pone il pensiero della complessità dinnanzi alla coppia concettuale dei fatti e delle interpretazioni?

Credo che Marx, nella famosa undicesima tesi, non dica che il mondo vada cambiato senza interpretarlo ma che la stessa interpretazione filosofica dovrebbe avere a traguardo il cambiamento e verificare nel mondo reale se riesce a produrre questo cambiamento, altrimenti come dice la seconda tesi, la verità di quel pensiero è nulla e la disputa sulla sua verità diventa scolastica. Da questo punto di vista si segnalano tre fatti: 1) il pensiero di Marx ha centotrenta o più anni ed essendo come diceva Hegel “tempo appreso nel pensiero” mostra la sua storicità; 2) alla verifica della sua capacità di aiutare il cambiamento mostra risultati modesti o contradditori; 3) lo scenario stato-nazionale europeo (stante che Germania ed Italia non erano neanche Stati ai tempi di Hegel e iniziarono ad esserlo ai tempi d Marx) di un mondo di un miliardo di persone debolmente connesse non è lo scenario con 200 stati nazione in un mondo di 7 e passa miliardi di persone fortemente connesse . Marx è stato forse l’ultimo aspirante sistemico in filosofia, che è comunque l’ambito del pensiero umano che guida l’azione sul mondo in senso ampio e generale, dopo di lui però non si è presentato nessuno con l’intenzione e la capacità di creare un nuovo quasi-sistema o un sistema propriamente detto in grado di ospitare-superare quello di Marx. Non è stato un caso, si è formato un vero super-paradigma della divisione dei saperi e delle competenze in accordo analogico con il tipo di formazione degli agenti economici che debbono operare nel gioco che è il mercato che ha agito da vero e proprio divieto. In più, il suo quasi-sistema è entrato a far parte di concrete dinamiche storico politiche (rivoluzioni, stati socialisti, partiti, sindacati e movimenti politici vari) che lo hanno imbalsamato e non vi è stata più disponibilità a problematizzarlo per una riforma a più voci, mani, menti. O meglio, pensieri che potessero modificare qualche erronea assunzione ivi contenuta sono stati anche formulati ma l’adozione del “libro” (il Capitale, il Manifesto) a fondamento ideologico oltreché la mancanza di pensatori sistemici ed anzi, una sorta di paradossale divieto e sistematizzare come se questo sistematizzare portasse di per sé a forme totalitarie, hanno paralizzato l’evoluzione di quella che rimane la principale se non l’unica tradizione umana di attivo ingaggio per cambiare lo stato di cose del mondo. Da cui lo stato di cose attuale.

Uno stato di cose che a fronte di ripetute manifestazioni di dissesto e disfunzione delle immagini di mondo e del mondo che queste ordinano, intendendo con ciò quelle dominanti, non presenta alcun vero fermento di cambiamento. Cioè dovremmo cambiare molto ed anche con una certa urgenza, è questa una sensazione tra l’altro molto più ampia dell’ambito che la razionalizza teoricamente, dovremmo cioè cambiare radicalmente per necessità e non più solo per volontà (“a calci nel culo” secondo la felice espressione usata recentemente da M. Cacciari), eppure poco o nulla si muove davvero. Il problema, credo, è proprio che il complesso sociale, si muove quando ha un posto dove andare, posto, tempi, modi, tappe, forme, ragioni fondate più che sulle sensazioni su conforti razionali, insomma una strategia con un fine positivo. Il solo fine negativo non è un telos, ordina solo la distruzione a non ordina nel senso di dare ordine.

La cultura della complessità non dice, come pensava Hayek, che non si debba tentare il progetto umano di forme complesse e dinamiche, dice solo che tale progetto non può essere deterministico e riducibile ad un unico principio. Dice inoltre che per vivere, i sistemi passano il vaglio dell’adattamento, adattamento ambientale ed a gli altri sistemi. Essendo quindi la nostra epoca complessa, lo è e sempre più lo sarà, il pensiero orientato al mondo, alla sua costruzione intenzionale, dovrebbe assumere le forme del sistema ed al contempo aprirsi a forme di verità di cui ben si comprende lo statuto di relazione a presupposti e contingenze. Verità provvisorie (che è poi lo statuto naturale della verità sebbene a noi piaccia pensare platonicamente l’indipendenza della verità dal tempo), tentativi ed errori con riformulazione continua del sistema interpretativo a cui ricorriamo per orientare l’agire. Non abbiamo prioritariamente bisogno di un preciso disegno di come le cose dovrebbero essere, abbiamo bisogno di un sistema dinamico per dargli la possibilità di essere. L’economico ha il mercato, il politico dovrebbe avere la democrazia radicale. Guardi, c’è una brutta notizia da dare a chi sogna un mondo migliore. Non c’è modo di cambiare decisivamente il mondo ed il modo di stare al mondo dei complessi sociali che dia effetti lungo l’arco di una singola vita, noi questo “modo e mondo migliore” non lo vedremo mai. Il “capitalismo” nasce nel XVI° secolo, se non prima per certi aspetti, come si può pensare di superarlo martedì prossimo facendo a), b) e poi c)?

Se mi posso permettere, a chiusura, vorrei concludere con una sintesi. L’era moderna origina nel XV° secolo sebbene poi abbia impiegato secoli per dispiegarsi completamente. La sua essenza è che per la prima volta i sistemi di vita associata hanno adottato l’economico come ordinatore, per me il materialismo storico è una ottima descrizione del moderno non della storia complessiva. L’economico ha subordinato il politico, da subito, dal 1689 con l’istituzione del parlamento inglese rappresentativo. La forma economica interna che l’ordinatore ha sviluppato è peculiare ma non è decisiva tant’è che si è trasformata più e più volte, in questo senso quello che vedo come obiettivo è superare l’econocrazia anche perché non è più una forma adattativa per molte ragioni, da quelle geo-politiche e quelle ambientali. E’ chiaro che quando l’economico sarà subordinato al politico e questo alla democrazia naturale (cioè non quella bizzarra forma che è la democrazia rappresentativa con elezioni ogni quattro – cinque anni), il capitalismo cesserà di essere quello che è e le forme economiche (private, pubbliche, cooperative, bene-comunitarie che poi significa propriamente proprietà democratica inintermediata, una cosa difficilissima) torneranno plurali ed embedded al complesso sociale. Tra l’altro siamo pieni di cose e quelle nuove o di sostituzione le produciamo in tempi sempre minori, quindi è ora di ridurre il nostro tempo-lavoro in forme generalizzate anche perché tenendo fisse le otto ore si forma disoccupazione strutturale. Noi dovremmo concentrarci su come costruirci una casa, un focolare radicalmente democratico non sulla presa del palazzo d’Inverno, altrimenti l’inverno del nostro scontento sarà molto lungo e molto freddo.

Informazioni su pierluigi fagan

64 anni, sposato con: http://artforhousewives.wordpress.com/, due figli, un gatto. Professionista ed imprenditore per 23 anni. Negli ultimi venti e più anni ritirato a "confuciana vita di studio", svolge attività di ricerca multi-inter-transdisciplinare da indipendente. Il tema del blog è la complessità, nella sua accezione più ampia: sociale, economica, politica e geopolitica, culturale e filosofica. Nel 2017 ha pubblicato il libro: Verso un mondo multipolare, Fazi editore. Ogni tanto commenta notizie di politica internazionale su i principali media oltre ad esser ripubblicato su diverse testate on line. Fa parte dello staff che organizza l'annuale Festival della Complessità e pubblica su specifiche riviste di sistemica. Tiene regolarmente conferenze su i suoi temi di studio, in particolare sull'argomento "Mondo e complessità". Nel 2021 è uscito un suo contributo nel libro collettivo "Dopo il neoliberalismo. Indagine collettiva sul futuro" a cura di Carlo Formenti, Meltemi Editore. A seguire: "Europa al bivio. Tra radici e sfide" a cura di Vincenzo Costa, Marcianum press, 2024 Venezia e "L'era multipolare: competizione o cooperazione" a cura di Gabriele Germani, La Città del Sole, 2024, Napoli.
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9 risposte a TEMPI COMPLESSI.

  1. Luciano Aguzzi ha detto:

    Leggere questa intervista mi fa uno strano effetto. Pier Luigi Fagan, nelle prime risposte e in altri passi successivi, sembra un critico forte del marxismo, tanto da fare piazza pulita di tante pretese “rivoluzionarie” elaborate all’interno del filone marxista. Ma poi, i continui richiami a Marx (e a Hegel), l’affermazione della necessità di una forma sistemica, l’esprimersi con un implicito e vigoroso senso utopico, mi inducono a sospettare che Fagan sia solo uno che cerca di riformare il marxismo, riformulandolo in chiave evoluzionistica (di evoluzione sociale), di utopia realizzabile nel corso di secoli (e non con una netta e improvvisa discontinuità rivoluzionaria). Cadendo così proprio in quell’astrattismo per altri versi deprecato e perdendo di vista l’empirismo e il pragmatismo storico (e psicologico) dell’agire umano.
    Due punti, in particolare, mi confermano in questa impressione complessiva:
    1) La risposta sulla dicotomia sinistra/destra, che non sta in piedi alla luce della storia, perché qualunque tentativo di definizione è contraddittorio. Ad esempio, da quello che Fagan dice sui pochi vs i molti, lo stalinismo dovrebbe considerarsi di destra, alla pari del nazismo, e così anche il castrismo, il guevarismo ecc. (Infatti Fagan critica la concezione delle avanguardie). O al contrario, se lo stalinismo è di sinistra, dovrebbero essere di sinistra anche il nazismo e il fascismo (che mutuarono molto dalle utopie socialiste). In realtà, al di fuori dello specifico contesto storico che di volta in volta cambia, non esistono destra e sinistra, perché ognuna delle due, secondo le particolari definizioni che storicamente sono state date, ora e per certi aspetti sono di sinistra e ora di destra, in un continuo rimescolamento delle carte. Non per nulla il nostro (nel senso di italiano, non certo mio) Matteo Renzi può essere considerato di destra o di sinistra, appena si sposta di qualche grado il punto di vista. La disputa destra/sinistra, sulla quale anche Bobbio ha scritto sciocchezze piene di ideologia astratta, non è né risolvibile e nemmeno esistente se non all’interno della contingenza politica, dove le definizioni assumono significati assolutamente non scientifici ma solo identitari o propagandistici. All’interno di ogni sinistra, comunque definita, ci si trova anche la destra, e viceversa. Destra e sinistra, più che una dicotomia razionale, con fondamenti di differenziazione oggettivi, rassomigliano a bande molto simili (hanno in comune statalismo, fiscalismo da rapina, centralismo autoritario, avversione per un’autentica libertà dei soggetti della sovranità popolare ecc.) in lotta fra di loro per spartirsi il bottino.
    2) L’accento critico ad Hayek, anche in chiave di critica della libertà (e dell’imprevedibilità complessiva) come elemento strutturale dei comportamenti umani individuali e collettivi, un certo spirito “comunitario” e il richiamo ripetuto alla “democrazia radicale” e al “focolare radicalmente democratico” che dovremmo costruire, ribadiscono il sospetto che, sia pure in forme modernizzate e culturalmente sofisticate, non siamo ancora usciti dal millenario pensiero utopico che tanti disastri ha prodotto.

    • pierluigi fagan ha detto:

      Beh, innanzitutto grazie per la critica, competente e stimolante. Parto dal secondo punto: Hayek diceva due cose. La cosa esplicita che è poi la base della Scuola di Vienna era l’aderenza stretta all’idea che l’intero sistema economico viene dinamicamente ordinato al meglio solo dai meccanismi del libero (ma libero davvero) mercato. Dal punto di vista della complessità e Hayek sviluppò ragionamenti interni a questo punto di vista, non v’è dubbio che sistemi dinamici e molto complessi, impersonali, si auto-organizzino meglio di qualunque forma di organizzazione intenzionale esterna. La cosa implicita però, che è poi a base della concezione economicista dell’umano vivere associato, era che è appunto la prassi economica spontanea a formare l’infrastruttura migliore per ordinare le società umane. Questo è un assunto di valore, scarsamente dimostrabile e forse anche falsificabile. Quel “migliore” è un giudizio relativo, come qualsiasi altro giudizio. Non credo si possa dire che l’Atene classica fosse ordinata dalla prassi economica e credo però si possa dire che presa tutta la storia, il teatro, la scultura, la poetica, l’are, la filosofia, la politica di quei decenni, l’Atene classica è stata uno dei periodi relativamente più ricchi ed esaltanti della storia dell’espressione umana sociale. Come poi da Lei osservato nel primo punto, il richiamo a Darwin, il richiamo all’imperativo adattativo cioè a valutare quel “meglio” o il suo simmetrico “peggio” in funzione del grado e della qualità di adattamento prodotto da questo o quell’ordinatore, fatto questo che slega il giudizio dalle pure opinioni e lo lega tendenzialmente ai fatti (per quanto i fatti stessi siano in parte definiti tali da una forte componente di opinione), serve proprio per valutare meglio il nostro o altro modo di stare al mondo in termini di compatibilità con ciò che abbiamo intorno, altre civiltà, altri popoli e culture, l’ambiente geo-bio naturale. In questo senso, mi sembra vi siano inequivocabili segnali del fatto che il mercato non ordina affatto virtuosamente né più le relazioni tra gli individui all’interno dei sistemi stato-nazionali (diseguaglianze, precarietà esistenziale, desertificazione culturale, disoccupazione e marginalità), né le relazioni tra sistemi stato-nazionali (conflitti, attriti, instabilità, disordine valutario e finanziario), né le relazioni complessive tra il sistema umano planetario e l’ambiente che ci genera e ci ospita (auto evidente). A prescindere dal fatto che la convinzione che esista un mercato senza uno stato che lo promuove e lo protegge è di un’astrattezza insostenibile. La teoria economica li chiama “fallimenti del mercato” ma sarebbe meglio chiamarli “fallimenti dell’ordinatore economico” perché la bizzaria non è nel mercato ma nella pretesa umana, valoriale, di far ordinare tale macro-complessità dallo spontaneo agire degli individui o degli agenti economici dell’intero pianeta (convinzione distopica alla Murray Rothbard). Di base, mi sembra che ciò che le nostre due immagini di mondo hanno di diverso è che Lei (mi corregga se sbaglio) è convinto della separabilità dei giudizi di fatto e dei giudizi di valore, io no. Altresì, ritengo che se il mercato è il miglior ordinatore dell’economico, la democrazia diretta è l’equivalente miglior ordinatore del politico. Se Lei mi concede che la teoria pura del mercato è utopica perché il mercato non è mai totalmente libero e gli agenti economici non sono mai pienamente informati, né le loro scelte sono mai totalmente razionali, io Le concedo che la democrazia diretta è altrettanto utopica. Ma forse potremmo venirci incontro convenendo che entrambi gli ordini portano ad un “tendere a” che pur non raggiungendo mai la perfezione ideale, hanno un positivo e benefico effetto normativo. La mia tesi è che Hayek aveva le sue ragioni per dire che il mercato è il miglior funzionamento dell’economico ma io credo che non sia l’economico il miglior funzionamento del nostro vivere associato, credo che sopratutto oggi ed in futuro, dovrebbe essere il politico il cui ordine migliore è il mercato delle opinioni e delle scelte ovvero la democrazia diretta di individui quanto più liberi, informati, razionali, per quanto solo nel loro “tendere a…”. Sull’utopico poi il discorso sarebbe lungo. La pretesa che l’umano non debba seguire e neanche proferire aspettative di miglioramento di sé e dei suoi modi di stare al mondo, la trovo anti-biologica. E’ nella natura del nostro principale organo adattativo, il cervello-mente, essersi evoluto per simulare il come potrebbe o dovrebbe essere, l’essere. “Fatti non fummo per viver come bruti” se mi passa la citazione. La cognizione ci ha portato ad una potenza di azione ben maggiore dall’istintualità ed è natura della cognizione umana simulare l’altrimenti possibile del mondo, del nostro Io e delle loro relazioni. Se lo possiamo pensare, per tentativi ed errori, possiamo e dovremmo anche cercare di costruirlo concretamente. Questo divieto al costruttivismo, unisce gli auto-definiti “liberali” a Sant’Agostino, ci pensa il mercato la Provvidenza impersonale o Dio la Provvidenza in quanto tale. Dissento, parafrasando Heidegger direi che “solo noi possiamo salvarci”. Sul primo punto ci toccherà passare ad un altro post, a seguire…

      • pierluigi fagan ha detto:

        A premessa è il caso di dirLe come la penso a monte. Secondo me occorre partire (occorre sempre partire da qualche parte) dalla situazione principale.La situazione principale è che c’è un Io (Io penso ed agisco), ci sono Altri e c’è Mondo, cioè che mi e ci contiene tutti, tutte e tutto. “Io” pensa ed agisce con gli Altri nel e sul Mondo. Pensa ed agisce è un loop, pensa poi agisce vede come va e pensa di nuovo per agire poi di nuovo etc. o se preferisce agisce vede come va e ci pensa su per deliberare un nuovo agire etc. La relazione pensare – agire è l’umano, l’ipostatizzazione di un puro pensare al netto dell’agire (Kant direbbe i pensieri senza contenuto sono vuoti, le intuizioni senza concetti sono cieche) e della valutazione dell’agito è un’aberrazione mentre la pretesa esista un agire senza il pensare o il valutare l’esito dell’azione è insostenibile. Ne consegue che la dialettica idealismo vs pragmatismo/empirismo è un accidente dell’evoluzione del pensiero filosofico occidentale e non va presa troppo sul serio se non siamo impegnati in una discussione specifica di storia della filosofia (o filosofia della filosofia, meta-filosofia). Dopodiché, il mio rapporto con Marx è quello della nota frase di Bernardino di Chartres “salire sulle spalle dei giganti per guardare più lontano” che mi pare una buona definizione di storia della filosofia in generale. Questo “salire sulle spalle” non significa riformare, dialettizzare nel senso di mantenere e superare, prendere o lasciare, significa più sfumatamente condividere alcune cose ed altre no. Poiché credo che coscienti o no, noi pensiamo sistemi, sistemi di pensiero che chiamo (altri chiamarono ad esempio Dilthey e poi via altri cambiando anche il termine a seconda del vocabolario del filosofo in questione) -immagini di mondo-, ci sono cose che non cambiano la struttura ed in questo senso “riformano” e cose che cambiano la struttura, creano cioè una nuova forma. Il mio salire sulle spalle del gigante è un invito a creare una nuova forma, non riformare. Detto ciò, ho argomentato nell’intervista sulla dicotomia e la sua sussistenza ma trattandosi del noto problema della parola e della cosa (che c’è anche in Confucio ed infatti l’ultimo libro di J-C Michéa, I misteri della sinistra, apre in esergo proprio con citazione del zhengming o rettificazione dei nomi, uno dei capisaldi del pensiero di Confucio) ci vorrebbe tempo e spazio a sufficienza per intenderci. Forse scriverò una recensione sul libro di Michéa che debbo ancora leggere e potremmo, se vorrà, tornarci su. Infine, è chiaro che Lei propende per il terzo ordine, un mondo ordinato dall’economico ordinato dal libero mercato che definisce modo liberale ed io propendo decisamente per un mondo ordinato dal politico ordinato dalla democrazia diretta che definisco mondo emancipato. A proposito di rettificazione dei nomi però, le segnalo che -a mio avviso- non esiste un mercato senza stato (potrà poi essere più o meno ipertrofico, io non sono in via di principio favorevole a statalismi ipertrofici, la democrazia radicale non lo è perché non è accentratrice ma al contrario, distributiva delle competenze e facoltà). Negli USA, dopo la Seconda guerra mondiale, l’aliquota maggiore superava il 90%, il capitalismo funzionava lo stesso, l’intrapresa pure, l’innovazione non è mai stata così creativa e diffusa. Infine, comprendersi sul significato che diamo a “libertà” merita un discorso che prima o poi dovremmo fare (non io e Lei, in generale). L’aspirazione alla libertà è una di quelle imprescindibili componenti del pensiero utopico che Lei censura. Definirla come libertà d’impresa, di tenersi tutti i profitti derivanti da attività sociali (e quindi esentarsi dai costi sociali), di consumo, di fare come ci pare e piace non mi sembra la sua miglior versione. Spero di esser stato chiaro e comprensibile, grazie ancora…

  2. Luciano Aguzzi ha detto:

    Apprezzo le risposte di Pier Luigi Fagan e di Ennio Abate, che rilanciano una discussione che richiederebbe interi volumi per tentare di svolgerla per intero. Non potendo farlo, mi limito a rispondere in parte direttamente e in parte indirettamente riprendendo alcuni spunti:
    1) Non esiste un mercato completamente libero, e crederlo sarebbe davvero un’utopia (che, nella realtà, ogni tentativo forzato di realizzazione trasformerebbe in distopia, come è, del resto, di ogni utopia di qualunque natura). Gli ostacoli sono molteplici e relativi sia al mercato stesso (trasparenza incompleta, operazioni speculative ecc.) sia al comportamento umano (comportamenti illeciti e criminali, legalizzati o no; rapporti imposti con la forza ecc.). Tuttavia non è lo Stato a creare e proteggere il mercato, anzi lo Stato è proprio uno dei maggiori ostacoli alla libertà di mercato. Lo Stato, sempre, senza eccezioni, strumentalizza il mercato e promuove e protegge quel mercato, così strumentalizzato, che gli fa comodo. Non il libero mercato, dunque, ma il mercato condizionato, più o meno condizionato, compatibile con il potere dello Stato e con l’autoreferenzialità dei suoi apparati, è ciò con cui oggi abbiamo a che fare. Anche da qui, ma non solo da qui, nasce l’esigenza libertaria di meno Stato e più mercato, perché più mercato vuol dire più libertà, mentre più Stato vuol sempre dire meno libertà.
    2) Fagan nega che sia «la prassi economica spontanea a formare l’infrastruttura migliore per ordinare le società umane. Questo è un assunto di valore, scarsamente dimostrabile e forse anche falsificabile». Formulato il concetto in questo modo, siamo tutti d’accordo. Ma Fagan sembra ignorare (in altri scritti però non l’ignora, ma forse non ha chiare tutte le distinzioni) che non esiste una «prassi economica spontanea», ma piuttosto una prassi complessiva, che comprende anche gli aspetti economici, e spontanea solo nella misura, spesso molto ristretta, in cui l’organizzazione sociale / giuridica / statale permette la spontaneità. Il liberalismo, e nemmeno, in senso stretto, il liberismo, non è una dottrina economica, ma innanzitutto è una dottrina politica sulla libertà, con una concezione della libertà che pone al suo centro la libertà degli individui e i suoi diritti “naturali”. Ne consegue che il terreno delle libertà economiche è essenziale per garantire la libertà dell’uomo, in tutti i sensi. Non può esistere, come credeva Benedetto Croce, libertà politica senza libertà economica. E «libertà», nel senso liberale e ancora più in quello liberal-libertario, non significa libertà di un qualche collettivo (patria, nazione, Stato, comunità, partito, ecc.), ma libertà dell’individuo, in quanto individuo, il quale costruisce quei collettivi come strumenti e organi del suo operare, ma non gli attribuisce valori ontologici superiori e tanto meno il diritto di sacrificare gli individui in nome della libertà del collettivo. Ciò non porta, come accusano i comunitaristi di ogni tipo, all’egoismo sfrenato e alla mancanza di ogni solidarietà sociale, bensì porta a fondare la solidarietà (fino al sacrificio, in certi casi, della vita) sulla libertà, e non sugli obblighi forzati e legalizzati che la strumentalizzano trasformandola in tutt’altro. Non per nulla le società più libere sono anche le più ricche e le più solidali, nonostante i molti difetti che anche queste società presentano.
    3) Fagan scrive: «il mercato non ordina affatto virtuosamente né più le relazioni tra gli individui all’interno dei sistemi stato-nazionali» ecc. Il mercato non è certamente perfetto, ma credo che il concetto di perfezione non sia applicabile a nessun tipo di organizzazione sociale e a nessuna politica. Certamente però la storia ci permette di registrare una situazione migliore nelle società più libere politicamente e con libero mercato più esteso (esteso nel senso di maggiore libertà, non in senso geografico). La libertà permette una progettualità di perfezionamento, la non libertà non lo permetto.
    4) Fagan scrive: « Lei (mi corregga se sbaglio) è convinto della separabilità dei giudizi di fatto e dei giudizi di valore, io no». Questa è una vecchia questione di scuola sulla quale la logica ha elaborato molte risposte. In certi casi i giudizi di fatto possono e devono essere separati dai giudizi di valore, in altri casi ciò non si può fare. Più l’oggetto del giudizio è complesso e indefinito, più il fatto e il valore si mescolano. Persino le teorie cosmologiche, anche quelle strettamente scientifiche basate solo sulla fisica e sulla matematica, a un certo punto sono influenzate largamente da giudizi di valore, impliciti o espliciti. In politica, in genere, non ci sono giudizi di fatto separati da giudizi di valore, tuttavia la proporzione della miscela è variabile, e va dallo sforzo di distinguere il fatto dalle scelte valoriali, riducendo al minimo le influenze di queste ultime, al fanatismo valoriale che perde i contatti con ogni realtà fattuale. La differenza non è cosa da poco.
    5) Fagan scrive: «se il mercato è il miglior ordinatore dell’economico, la democrazia diretta è l’equivalente miglior ordinatore del politico», e poco dopo aggiunge: «il miglior funzionamento del nostro vivere associato, credo che soprattutto oggi ed in futuro, dovrebbe essere il politico il cui ordine migliore è il mercato delle opinioni e delle scelte ovvero la democrazia diretta di individui quanto più liberi, informati, razionali». Qui si usa il concetto di «democrazia diretta», mentre nell’intervista si parla di «democrazia radicale», e ovviamente sono cose molto diverse, anche se si può ipotizzare una «democrazia diretta radicale» o «democrazia radicale diretta». Ma si cade nel gioco di parole. Di fatto la storia ci documenta decine di tipi diversi di democrazia diretta (da ultimo quella informatica invocata dai grillini) e decine di tipi di democrazia radicale, per cui l’espressione in sé ha poco significato. Ad esempio la democrazia teorizzata da Rousseau può portare, e storicamente ha portato, quando intesa in un certo modo, al totalitarismo. E, altro esempio, i concetti di «dittatura popolare» del Buonarroti e quello di «dittatura del proletariato» di Marx e seguaci sono pure stati interpretati da molti come forme di realizzazione di democrazia radicale. Per altro verso, anche il fascismo ha rivendicato un’identità democratica radicale che ha ravvisato nell’unione assembleare e plebiscitaria fra il “duce” e il “popolo” radunato in piazza e nelle decisione che da questa unione scaturirebbero. Non c’è concetto più equivoco e politicamente puttanesco di quello di democrazia, dietro il quale si è mascherata ogni nefandezza, senza che tuttavia la storia abbia mai dato un solo esempio, uno solo, di democrazia come sinonimo di governo del popolo e di libertà (come ai suoi tempi annotava anche Roberto Michels).
    6) Se la democrazia diretta la si intende come «mercato delle opinioni e delle scelte» (dunque, come hanno sempre sostenuto i libertari, il mercato non è solo prassi economica), allora la democrazia diretta è innanzitutto massima libertà possibile dei singoli individui, e la definizione migliore, per quanto approssimativa, rimane quella dell’art. 4 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 (ma a sua volta copiata da fonti precedenti del pensiero liberale inglese e americano): «La liberté consiste à pouvoir faire tout ce qui ne nuit pas à autrui: ainsi l’exercice des droits naturels de chaque homme n’a de bornes que celles qui assurent aux autres Membres de la Société, la jouissance de ces mêmes droits. Ces bornes ne peuvent être déterminées que par la Loi». I giacobini francesi hanno formulato e subito smentito questo documento, scippando i cittadini della loro libertà attribuendola allo Stato e accumulandola nelle mani del potere pubblico (della Repubblica, della Nazione), e di fatto nelle mani della nomenclatura che detiene il potere. Pertanto la democrazia diretta, se vuole avere un senso conseguente, non può coincidere con la volontà della maggioranza, ma con la volontà del singolo individuo, unico titolare del potere di governare se stesso. E solo e limitatamente per i poteri che i singoli individui delegano a corpi collettivi da loro stessi creati per scopi specifici, il principio di maggioranza può valere nei limiti della delega e dei poteri di decisione affidati ai corpi collettivi (soggetti giuridici, dalle più elementari associazioni allo Stato). Se la volontà della maggioranza si arroga il diritto di decidere su questioni di interesse privato dell’individuo, cessa di essere democrazia e diventa «dittatura della maggioranza», concetto elaborato e discusso fin dalla fine del Settecento, proprio in relazione alla piega dittatoriale presa dalla democrazia giacobina.
    La salvaguardia della libertà non sta, pertanto, nella democrazia diretta, ma nell’evitare di affidare al giudizio politico, anche di maggioranza, ciò che appartiene al giudizio dell’individuo. Ovviamente, se parliamo più in generale di forme di Stato e di governo, le forme democratiche sono preferibili a quelle dittatoriali e a quelle teocratiche ecc., ma questo vuol solo dire, secondo la frase attribuita a Churchill, che la democrazia è meno peggio di altre forme di governo, non certo che è ottima in sé. Se la democrazia diretta avesse solo il potere di decidere di cose spesso inessenziali o di tecnicismi per i più incomprensibili, la partecipazione a questo tipo di democrazia diverrebbe più una condanna da evitare che un privilegio da rivendicare. Se al contrario avesse tutti i poteri, compreso quello di vita e di morte dei cittadini (tanto per fare un esempio per eccesso), parteciparvi non sarebbe un privilegio né un diritto ma un crimine.
    7) In quanto alla «democrazia radicale», che in senso etimologico sarebbe quella che va alla radice delle cose, si tratta di stabilire di quali radici si parla. Nella maggior parte dei casi si parla di eguaglianza e si qualifica come regime sociale spinto al massimo nella distribuzione dei beni in senso egualitario. Questa è però la strada che porta velocemente all’esproprio, all’eliminazione della proprietà privata, del libero mercato e quindi della libertà in senso lato. Quel che è peggio è però che, così operando e con queste derive storicamente verificatesi più volte sia nei tempi dell’antica Grecia sia in quelli contemporanei delle rivoluzioni comuniste, non si arriva a una maggiore eguaglianza e felicità dei cittadini (trasformati in sudditi), ma solo a una maggiore e diffusa povertà e infelicità a cui si contrappone lo strapotere della nomenclatura. La democrazia radicale non si è mai, dico mai, dimostrata virtuosa.
    8) Fagan scrive: «Sull’utopico poi il discorso sarebbe lungo. La pretesa che l’umano non debba seguire e neanche proferire aspettative di miglioramento di sé e dei suoi modi di stare al mondo, la trovo anti-biologica […]. è natura della cognizione umana simulare l’altrimenti possibile del mondo, del nostro Io e delle loro relazioni». Anche i termini «utopico» e «utopia» sono inflazionati e hanno perso ogni esattezza semantica. Si registrano oltre cento accezioni diverse di «utopia», anche in contrasto fra di loro. Ad esempio non è sempre vero che utopia significa qualcosa di bello ma di non realizzabile. Capita che l’utopia sia realizzabile ma non bella. Il nucleo di ciò che distingue l’utopia sta piuttosto nel suo tipo di progettualità, che anziché seguire procedure logiche e realistiche, segue procedure pseudologiche, direi quasi di tipo onirico. Concordo con Fagan che le aspettative di miglioramento sono proprie della natura umana, ma questo non è il problema. Il problema è quello delle procedure da seguire nel progettare il miglioramento. Queste possono essere diverse, per riassumere diciamo: a) di tipo scientifico/logico; b) di tipo mitologico/religioso; c) di tipo sentimentale/valoriale sovraordinato rispetto alla realtà (se la realtà non corrisponde alla dottrina, peggio per la realtà!). Ecco, gli utopisti utilizzano molto le procedure del tipo b) e c) e poco del tipo a). Per questo sono utopisti e per questo i loro progetti, se e quando realizzati, producono effetti molto diversi da quelli attesi e voluti. Nella realizzazione delle utopie l’eterogenesi dei fini si verifica sempre, e spesso con un alto grado di difformità rispetto alle finalità perseguite. Ciò ha fatto sì che sempre, tutte le utopie, da quelle antiche a quelle religiose dell’età moderna a quelle degli ultimi decenni, se arrivano alla realizzazione, si realizzano come distopie, cioè utopie rovesciate, in cui ogni bene promesso si materializza e rovescia nella forma del male. Progettare il miglioramento va bene, tendere al futuro anche in nome di un ideale va bene, ma farlo in modo scientifico/logico è necessario per evitare le sorprese crudeli della storia. Non utopia sociale, dunque, ma ingegneria sociale e tanta, tanta libertà, per evitare che anche l’ingegneria diventi un utopico costruttivismo totalitario.
    9) Fagan scrive: «parafrasando Heidegger direi che “solo noi possiamo salvarci”» e poco dopo aggiunge: «la dialettica idealismo vs pragmatismo/empirismo è un accidente dell’evoluzione del pensiero filosofico occidentale e non va presa troppo sul serio». D’accordo, solo noi possiamo salvarci e, in politica, possiamo anche disinteressarci della in sé interessante discussione filosofica nei suoi termini tecnici. Però ognuno di noi sceglie di salvarsi in modo diverso; alcuni tramite la religione, altri per mezzo dell’ideologia, altri ancora in mille altri modi. Io scelgo di salvarmi riservando a me solo la scelta, rivendicando la salvezza nella libertà (e, se mi va male, anche la perdizione nella libertà), per cui non voglio essere obbligato alle leggi di una Chiesa (si chiami pure laicamente Stato, patria o nazione). Se si rispetta la libertà, nella sua massima estensione, riservando allo Stato solo compiti di garanzia di essa (il cosiddetto ordine pubblico), poco m’importa se il mio simile, il mio prossimo, si definisce idealista o pragmatista, perché il «pragmatismo della libertà» sarà comunque garantito.
    10) Fagan scrive: «Poiché credo che coscienti o no, noi pensiamo sistemi, sistemi di pensiero che chiamo […] immagini di mondo». Certo, noi pensiamo «sistemi» e cerchiamo di farlo in modo «sistematico», ma non possiamo ignorare che questo modo naturale di pensare (a dir la verità non proprio naturale, ma diciamo naturale per chi ha capacità di pensiero avanzato), quando si distacca dai dati empirici e su di essi, o a prescindere da essi, ma comunque al di là di essi, costruisce un’immagine sistemica del mondo, quest’immagina è più vicina ai prodotti della produzione religiosa che a quella della produzione scientifica. Nessuno vieta a nessuno di darsi un’immagine del mondo di tipo religioso o pseudoreligioso e comunque sovraordinato rispetto alla realtà conosciuta, ma è certamente censurabile chi, sulla base di questa immagine, costruisce progetti politici e pretende di imporli agli altri.
    La sistematicità (e il sistema) è utile in ogni campo del sapere, ma solo se resta all’interno dell’ambiente logico del conosciuto e se non cerca di fare salti logici nella procedura e di colmare in modo pseudologico i buchi del sistema, pur di arrivare a una completezza non altrimenti raggiungibile. Quando si ha a che fare con sistemi complessi, non solo nel campo della metafisica e dei massimi problemi ma anche in quello più a terra a terra della politica, dell’economia e dell’organizzazione sociale in genere, non si ha mai una conoscenza completa delle variabili in campo e del loro interagire, per cui ogni pretesa di completezza è una forzatura che falsa la logica della conoscenza del sistema e che porta a delle decisioni controfattuali che spesso si rivelano sbagliate e producono danni, più danni di quanti se ne avrebbero se si lasciassero le decisioni alla somma delle decisioni “spontanee” dei singoli individui. Intendiamoci: una percentuale di errori e di fallimenti nell’adottare le decisioni ci sono e ci saranno sempre comunque, ma le decisioni costruite sulla base di sistemi errati sono maggiori e soprattutto più pericolose e dannose di quelle spontanee, perché queste, se libere, creano una “media” in cui gli errori sono annullati dalle giuste decisioni di altri, mentre le decisioni errate che vengono imposte dall’alto (dal potere politico) gravano su tutti e non sono compensate da nient’altro. Inoltre, quasi sempre, creano strutture di potere che, anziché tendere alla loro correzione, tendono al loro mantenimento, perché non c’è mai una decisione politica errata che non si riveli comoda e vantaggiosa per qualcuno, il quale si organizza per conservare il suo vantaggio a danno della maggioranza della popolazione. Il meccanismo dei corporativismi, delle alleanze, delle clientele, della creazione di élites fa poi sì che i gruppi che traggono il loro privilegio da decisioni errate si alleino facendo in modo che le decisioni errate si moltiplichino e diventino la parte maggioritaria dell’ordinamento giuridico, economico, sociale ecc. della società, difeso a denti stretti dallo Stato e dai poteri pubblici in genere. Marx diceva – sbagliando – che lo Stato è il comitato d’affari della borghesia, mentre avrebbe dovuto dire che è il comitato d’affari dei ladri, borghesi o no che siano.
    11) Fagan scrive: «L’aspirazione alla libertà è una di quelle imprescindibili componenti del pensiero utopico che Lei censura». Su questo sono in totale disaccordo. Mi sono occupato per anni del pensiero utopistico e delle opere degli utopisti. Non ci ho mai trovato una qualche apprezzabile «aspirazione alla libertà». Casomai ci si può trovare uno spirito di ribellione e di rifiuto della società del loro tempo, a cui si contrappone la loro utopia, come in Thomas More e in Tommaso Campanella, ma non certamente spirito di libertà. Tutte le utopie, salvo pochissime, di tipo liberale (in genere limitate a rivendicare qualche radicale miglioramento in settori specifici e non a immaginare una nuova società nel suo complesso), mostrano uno strano concetto di libertà, identificata con il riconoscere che ciò che la legge (dottrina, religione, morale, potere carismatico ecc. che presiede l’organizzazione sociale descritta nell’utopia) impone è giusto e quindi, come anche Rousseau e Hegel dicono e prima e dopo di loro tante religioni e ideologie hanno sostenuto, la vera libertà starebbe nell’accettare e nel fare ciò che è giusto, ma giusto secondo l’autorità che lo afferma e l’impone, non secondo l’individuo a cui non resta, di fatto, che obbligatoriamente obbedire. La libertà come dote e facoltà personale dell’individuo non è proprio prevista nelle costruzioni utopistiche. Chi persegue la libertà come ideale non può essere utopista, o, se lo è, si inganna e prima o poi si disingannerà con dolore e danno, come è capitato a tanti seguaci di movimenti radicali utopistici.
    12) Fagan, a proposito della “riforma” del marxismo scrive: «Il mio salire sulle spalle del gigante è un invito a creare una nuova forma, non riformare». E Ennio Abate, nel suo commento a Fagan e al mio precedente post scrive: «Una concezione tutta empirista e pragmatica, che liquidi non solo la scolastica marxista più sterile o certe attese rivoluzionarie sicuramente “ottocentesche” ma proprio tutto tutto Marx e qualsiasi richiamo all’”intero” di Hegel, mi pare inaccettabile». Sono d’accordo con l’affermazione di Fagan, purché poi non mostri, come nell’intervista da cui è partita la mia osservazione critica, di considerare Marx più gigante di altri e salire prevalentemente sulle sue spalle. A Ennio Abate ho già risposto in un mio vecchio commento inserito nel suo blog «Poliscritture». Non liquido affatto tutto Marx o tutto Hegel (anche se a proposito di quest’ultimo Werner Karl Heisemberg scrisse che i suoi sembrano discorsi di un pazzo perché totalmente privi di scientificità e logica), liquido il loro sistema, in quanto sistema. Poi, all’interno dei molti volumi che hanno scritto, alla pari di molti altri classici della filosofia e di altre discipline, apprezzo singole parti, analisi intelligenti e stimolanti e anche, talvolta, errori provocanti che sanno suscitare ricche riflessioni. In sostanza apprezzo l’intelligenza e ciò che riesce a dirmi/darmi di utile, non il sistema sovraordinato alla realtà e che pretende di dettarmi in che modo devo comportarmi per salvarmi (che poi significa salvare l’anima, non il corpo, che non è salvabile comunque). Mi esprimo volutamente in questo modo perché i sistemi di Hegel e di Marx, come in genere tutti i sistemi filosofici e ideologici, hanno più a che fare con la religione che con la conoscenza delle umane e terrestri e celesti cose. Il loro nucleo intimo ha le radici nel problema teologico della salvezza e nella dottrina dei «novissimi», cioè nell’escatologia o destino dell’anima (o di qualunque altra sua “maschera”) dopo la morte.

    • pierluigi fagan ha detto:

      Bene, continuiamo il dialogo. Come anche Lei scrive, trattiamo immagini di mondo che si ramificano viepiù in esse ci inoltriamo e quindi la scelta d’intervento diventa à la carte, nel senso che prendiamo punti e spunti e su quelli argomentiamo, precisiamo, distinguiamo. Preferisco quindi risponderLe confrontando quelli che credo essere i nostri due sistemi di pensiero (sul suo “deduco” ma farò degli errori, spero non troppi), sul mio spero di offrirle dei chiarimenti utili alla reciproca comprensione.

      DEMOCRAZIA 1. Purtroppo il termine, convengo, è diventato la più classica delle parole-saponetta (Libertà non gli è da meno). Esso soffre soprattutto di due fatti. Il primo è che dalla schematica formulazione greca (Aristotele), la sua trattazione teorica (parlo di teoria politica, di filosofia politica da Machiavelli – Bodin in poi) è stata molto poco sviluppata. Il secondo è che il termine, da B. Constant in poi, è stato assunto per nominare un sistema (il sistema rappresentativo all’interno dello Stato-nazione) che simula il principio ma non la sostanza. La stessa trattazione teorica degli antichi, visto che non ci sono pervenute le opere di Protagora (forse anche Anassagora sarebbe stato utile) ed altri sofisti ma solo la critica di Platone e di Aristotele, Anonimo oligarca etc., è legata a ben poco, tipo il discorso di Pericle riferito per altro da un oligarchico (Tucidide) ed alla Costituzione degli ateniesi di scuola aristotelica. Da qui la necessità di usare democrazia con aggettivazione per specificare che non mi riferivo a quella “dei moderni” ma a quella -supposta- degli antichi, “radicale” e “diretta” nel mio uso sono sinonimi e il primo termine non allude al giacobinismo ma alle conseguenze radicali che derivano dalla concezione diretta della democrazia. Va da sé che una democrazia simile, comporti una riformulazione dell’organizzazione sociale politica, cioè porta ad una concezione diversa dello Stato, forse uno Stato non molto differente dall’ultra-leggero che Lei sembra preferire. Ahimè qui ci andrebbe una lunga trattazione sulla teoria dello Stato che non mi posso permettere (per spazio e forse anche per capacità). Dico solo che Constant ragiona di democrazia già dentro lo Stato centralizzato (deducendo l’ineluttabilità della rappresentanza parlamentare perché uno Stato di varie città non è una città-stato) mentre se si ragiona di democrazia diretta prima e poi se ne deduce la forma del vivere associato, si arriva ad una sorta di federazioni più o meno estese delle comunità, comunità che in base al principio di partecipazione diretta, non potranno essere molto grandi, federazioni che comporteranno poi una qualche forma di partecipazione delegata sebbene a tempo, revocabile e con vincolo di mandato. Poiché il termine “comunità” ha poi preso molti più vasti significati, può intenderlo come gruppo – sistema – area territoriale. Lei dovrebbe sapere che esistono varie teorizzazioni sulla democrazia, personalmente non approvo quelle sulla democrazia della rete perché infrangono alcuni principi base quali la prossimità, il dibattito argomentato, la reputazione ovvero il faccia a faccia. Ma la democrazia infrastrutturata da Internet, così come quella referendaria alla svizzera, non la disprezzo come strumento parziale ed iniziale, per smuovere l’imperio delle gerarchie elitiste. Sull’auto attribuzione di democrazia all’organicismo RSI stenderei un pietoso velo. In linea generale, la progressività dei cambiamenti/miglioramenti a cui si appella nell’ambito del paradigma liberale me lo deve concedere anche per il paradigma democratico. Le faccio solo un esempio. E’ dalla convenzione del 1919 che la giornata lavorativa è fissata alle 8 ore e negli anni ’70 si sono cancellate solo le 5 della mattina del sabato, in Europa. E’ chiaro ai più che già oggi e viepiù nell’immediato futuro dovremmo fortunatamente prender atto che tale impegno debba/possa esser ridotto. Immagini un mondo (non molto lontano, mi creda e non per volontà ma per necessità) in cui si lavorerà 4/5 ore ed immagini quindi come cambierà radicalmente la nostra attitudine alla partecipazione della cosa comune visto che molto della qualità della nostra vita, da questa dipende. “Alla radice” significa che da un diverso genotipo, vien fuori un totalmente diverso fenotipo per cui non mi può tenere fermi i sistemi di politica internazionale, militare, sistemi economici e finanziari, sistemi culturali e delle credenze e poi dirmi “vedi, come puoi pensare di organizzare questo meglio che col mercato?” perché io le dico “io parto da un progetto di autonomia delle decisioni su come condurre le comunità in cui siamo biologicamente, antropologicamente e storicamente iscritti, tutto il resto sarà modificato di conseguenza e verrà modificato da individui formati ed informati che contratteranno vincoli e possibilità del comune progetto. Lei ad esempio, ci proporrà i vincoli ed i limiti del diritto individuale, altri di quello sociale e se la discussione è fatta e partecipata da competenti, alla fine ci sarà una decisione competente, rivedibile, aperta alla verifica dei fatti”. La battaglia delle idee avviene in ogni sistema e quindi così come in quello rappresentativo si è convenuto (in Europa non in USA) di ostracizzare la pena di morte che viola il diritto naturale all’essere dell’essere, non vedo ragioni perché ciò resti convenzione anche nell’auspicato sistema diretto. Sulla devianza totalitaria, la mia idea è che essa non derivi dalla forma politica ma dall’esistenza di élite che impongono una rigidità per paura che il sistema che le sostiene fallisca. Passare da Luigi XVI alla democrazia o passare dai Romanov al comunismo o dagli imperatori alla modernità in Cina ma anche passare dai Savoia alla società liberale in Italia o dal Secondo Reich alla democrazia, sono tutte transizioni sincopate che hanno prodotto sistemi rigidi che sono ricorsi all’ideologia ma la cui rigidità non deriva da questa ma da più complesse ragioni di dinamiche del cambiamento storico. Riprenderò il discorso subito dopo aver specificato il punto successivo.

      ANTROPOLOGIA. Trovai sul Fornero (Abbagnano) non mi ricordo dove, la considerazione che in fondo, esplicitato o no, ogni filosofia presuppone una antropologia, una pregressa convinzione sul “cos’è l’uomo?”. Concordo e tra l’altro, l’antropologia filosofica, al di là del promettente ramo tedesco primo Novecento, è un altro di quei rami del pensiero poco sviluppato il cui sviluppo, ci aprirebbe a nuovi alberi, quindi ad altre foreste del pensiero in cui ritrovare la diritta via, oggi forse smarrita. Schematicamente, io rifiuto la dicotomia individuale – sociale, la rifiuto come dicotomia e la considero una diade dialettica (in senso eracliteo, non hegeliano) problematica. Penso cioè sia nella natura umana, sia la posizione dell’Io vs Altri/Mondo, sia quella Io/Noi vs Mondo. Fa parte della nostra stessa complessione biologica la difesa unilaterale (direi ontologica) della sovranità assoluta dell’Io su se stesso, fa parte della stessa complessione biologica (linguaggio, mimica, neuroni specchio o “simpatia” se ama Smith, sessualità, istinto gruppale etc.) e soprattutto della nostra stessa storia antropologica aver costituito gruppi per ingannare la severa selezione naturale, strategia per altro inventata dal vivente sin dall’origine cellulare, quindi paleo-biologica e continuata poi da tutta la preponderanza di strategie “sociali” nel regno vegetale ed animale. C’è poi anche quella olistico-panteistica della fusione nel Tutto ma mi concederà di metterla da parte. Dalla dialettica problematica Io vs Io/Noi, secondo me, origina la dicotomia individuale vs sociale che organizza il pubblico dibattito occidentale su parte della filosofia politica. Rifiutando la dicotomizzazione (che poi sarebbe la dialettica della distinzione secondo Platone ma come vedrà sul siti io “non amo” Platone) ed a fronte dei suoi appassionati appelli alla sovranità dell’individuo, non mi posizionerò di contrasto a ricordarle quanto oggettivamente dipendiamo e siamo costretti anche per il solo “egoista interesse” a dipendere, dagli Altri. Seguo quindi la logica compositiva dell’ “e-e” e non quella disgiuntiva dell’ “o-o”. L’uomo è individuale e sociale senza apprezzabili primati del primo o del secondo termine, questo porta ad un dialettica problematica nello stesso individuo che ognuno di noi può leggere riflessivamente in se stesso ma che poi si riflette sul macro dei comportamenti e dei sistemi sociali. La definizione della Dichiarazione appella al primo punto di vista, la democrazia degli individui appella al secondo, non li ritengo in via di principio incompatibili sebbene dobbiamo ammettere che il sottostante (Io – Noi) ha una sua problematicità, non è una relazione liscia. Diventano incompatibili proprio sul piano del principio, se cioè si forza l’antropologia di riferimento e si cerca di motivare il primato dell’uno (individualismo metodologico e programmatico) o del secondo (zoon politikon, primato comunitario). Stiamo cioè scambiando una diade per una dicotomia. Per andare “oltre” e smetterla nel pubblico dibattito di recitare le stanche partiture del periodo che dobbiamo superare (periodo che va dal XVII al XX secolo, detto modernità), dobbiamo provare a manipolare i fondamentali. Smetterla con la dicotomia individuo-società mi pare assai più necessario che non l’inutile dibattito su destra-sinistra.

      DEMOCRAZIA 2. Proprio considerando i due punti del sistema binario umano Io – Altri/Noi, mi pare che la composizione della intenzione politica (decidere sul da fare che è un da fare di gruppo perché noi siamo embedded a gruppi, ci piaccia o no e fatto salvo i monaci anacoreti cristiani detti gli “stiliti” ed altra tradizione eremitica), “politica” poiché inerente la polis (o altra definizione, comunità, gruppo, sistema), sia la migliore. Essendo protagoreo, più di “migliore” non possono andare nel giudizio. Altresì e proprio per difesa del problematicamente alienabile diritto individuale di decidere di sé, non vedo altra via che mediare questo diritto tra Noi e non vedo modo migliore di farlo che componendo la decisione nel mercato del dibattito sull’intenzione che è l’assemblea degli individui, la democrazia nel senso prima specificato. Come ben converrà, mercato degli scambi, delle relazioni umane, dell’interazione politica, avvenivano nello stesso luogo, l’agorà, la piazza. Piazza che esiste nell’urbanistica greco-romana, quindi nella tradizione socio storica e culturale di questa parte di mondo e non esiste in quella barbara (anglo-sassone). I barbari convenuti in civiltà in quel della Britannia (assai a fatica e con perdurante disagio) hanno poi accettato il mercato perché innamorati della lucentezza dell’oro ma non l’obbligo sociale. Lei saprà che arrivarono obtortocollo a mitigare il diritto di faida, istituendo il pagamento del controvalore economico della vita violata, lì inizia la loro passione per il diritto connesso all’interesse economico, da cui la Magna Charta. Di contro, ci hanno insegnato anche qualcosa tra cui l’indomita resistenza a gli inviolabili confini del diritto dell’individuo e bisogna anche dire che vichinghi ed altri barbari, al crescere delle comunità, istituirono forme di assemblea democratica per prendere le decisioni, tant’è che quello islandese (l’Althing) è il più antico parlamento della storia europea (930 d.c.) e non a caso le democrazie (per quanto imperfette) scandinave risultano sistematicamente le “relativamente migliori” secondo vari metri di analisi e giudizio. Fu nel profondo passato una democrazia delle élite (gli anziani, i capifamiglia, i capitribù) ed infatti il parlamento inglese dal 1689 fino ai primi del ‘900, fu espressamente un parlamento delle élite, élite delegate alla gestione del bene comune (common wealth) ma pur sempre élite. Ora, tra i guai che ha portato la piega che ha preso la riflessione filosofico politica delle nostre parti (euro-occidentale) c’è la pretesa di risolvere il problema della qualità della decisione attraverso questa o quella forma politica. Ma la forma è solo una precondizione e la democrazia (nel senso, spero, chiarito) è la miglior precondizione per mediare i due punti della nostra costituzione antropologica, sociale ed individuale. Per raggiungere la miglior qualità, prima di arrivare a votare questa o quella intenzione della maggioranza, c’è la diffusione della competenza e la ulteriore distribuzione e mediazione dei punti di vista nel dialogo, nel dibattito continuo. Dalle regole degli scacchi non escono deterministicamente né belle, né brutte partite, queste escono dall’interpretazione del gioco che sta ai giocatori ed alla loro preparazione. Non a caso, dalla scuola pedagogica svizzera che poi origina dalle stesse radici storico-sociali da cui origina Rousseau a John Dewey, dai sofisti che volevano mettere tutti in grado di argomentare nel pubblico dibattito alla scuola pubblica di Condorcet, i “democratici” sanno che prima di arrivare a decidere, ci vuole la migliore diffusione delle competenze e la diffusione quanto più egalitaria possibile della facoltà di dialogare (mettere logos tra due, come stiamo facendo noi qui). Riprendendo il tema dell’approssimazione mai finita già espressa nel primo testo e che ricordo Lei ha condiviso, questo è un “tendere a…” che taglia la testa alla presunzione di verità assoluta e definitiva, rende chiaro che la democrazia è una utopia che dovrebbe orientare l’agire e la costruzione, che tale agire e costruzione non finirà mai, che i compiti dei democratici sono difficili e richiedono sforzo come qualsiasi altra complessa costruzione umana concreta, che è “solo” una convenzione sul come si prendono le decisione nel sistema gruppale e che non ha nulla di spontaneo e richiede una educazione e sviluppo personale che di solito tralasciamo di considerare. Mi permetto un inciso relativo a quanto sostenuto da Abate, questo non depotenzia affatto l’ingaggio con la realtà per trasformarla, solo, rende chiaro che il migliore dei mondi possibili è un relativo, relativo alle condizioni socio-storiche date. Altresì, è chiaro che questo “costruire democrazia” ha i suoi vantaggi a step provvisori. Una comunità democratica, ben formata ed informata, già oggi contrasterebbe senza timidezze e le vaste impotenze che registriamo, le sempre maggiori e gravi sbavature del delirio delle élite di governo ed i fallimenti ecologici e di distribuzione del mercato, invece che subire praticamente tutto sognando però la redenzione mitologica della “rivoluzione”. Uno sforzo prioritario, della Lunga marcia democratica, sarebbe quello di riformare i nostri linguaggi in modo da farci comprendere quando discutiamo (vedo che Lei si fa comprendere ma converrà che sono pochi i pensanti che non ricorrono alla gergalità respingente che dà loro l’impressione di essere iniziati a chissà quali misteri esoterici della conoscenza umana) e l’eros a far capire e capire meglio noi stessi, una etica democratica del discorso. Il mio ideale “movimento” democratico, sarebbe una vera e propria centrale culturale, formativa ed informativa oltre ad essere un veicolo di lotta ed ingaggio politico nel contingente. In premio, l’autonomia, il darsi la legge da sé (il gruppo si dà la legge da sé perché gruppale è la nostra condizione adattativa se non si è stilita o un liberale anglosassone, cioè un sociopatico) che è il contrario dell’eteronomia. Affidare la costruzione ed il regolamento sociale a Dio, alla Provvidenza, al Mercato, al Grande Uomo, all’Eroe, per me, è eteronomia. Io vedo solo uomini, costretti a mediare la loro intenzione per convenire una efficace intenzione comune.

      DUE PAROLE SUL NOSTRO DIALOGO. Se nota, sulla testata del mio blog, c’è la citazione di Kant tratta dal famoso “Che cos’ è l’Illuminismo?” ovvero “il coraggio di pensar da sé”. Tra l’altro, ho cercato di scalare molti giganti, Aristotele e Kant sono i miei preferiti in filosofia ma le mie frequentazioni sono molto più varie ed eterogenee ed attengono a molte discipline. Tra l’altro non sai mai cosa comporterà lo stimolo di un pensatore, una delle intuizioni decisive per la formazione della mia immagine di mondo, il concetto di interrelazione in ontologia, fu sotto la doccia e provenne da estenuanti letture di meccanica quantistica. Ho parlato di Marx ed Hegel perché avevo in mente un preciso pubblico del sito in cui è comparsa l’intervista e perché ritengo che esista una vocazione al cambiamento tra coloro che si riferiscono a questo pensiero anche se avvolti da dubbi, contraddizioni, incertezze proprio in riferimento a questi problematici padri del pensiero. Ora, poiché io credo noi si pensi, coscienti o no, consapevoli o meno, in grado o meno di farlo intenzionalmente, per sistemi (immagini di mondo), io cerco di produrre il mio sistema. Il mio sistema, per ragioni di fortunata auto-formazione, non è copia incolla di alcun altro sistema sebbene sia molto dipendente da quella che io chiamo “cultura della complessità” che per altro ha una tradizione più epistemologica che filosofica (il secondo è un ambito superiore al primo, per me). Uno dei miei impegni è tra l’altro proprio assumere la cultura della complessità e la sistemica in ambito filosofico e non solo epistemologico, il che ha un impatto decisivo soprattutto sull’ontologia. Quindi, non cerchi di capire quanto sono marxista o hegeliano (https://pierluigifagan.wordpress.com/2013/12/01/hegel-il-logos-e-sistema/) o roussoviano o seguace dell’anarchismo municipale di Murray Bookchin che tra l’altro in sé e come tradizione di certo pensiero anarco-libertario mi porterebbe poi magari e forse non troppo lontano da quello che mi sembra il suo sistema di riferimento; perché il sistema è originale, le parti sono certo prese qui e lì ma parti di un sistema, messe in un altro sistema, cambiano anche se parzialmente, senso.

      SUL PRIMATO DEL SISTEMA DI RIFERIMENTO PER IL PENSIERO. Il mio sistema, è ordinato dal meta sistema che chiamiamo filosofia poiché lo ritengo il sistema del pensiero umano più generale e trattando di problemi che più generali non si può (Io, Altri, Mondo, loro relazioni, Tempo, Valore etc.) non vedo alternative possibili. Essendo per l’autonomia e non per l’eteronomia non lo appalto al fuori di me (un dio ad esempio, il mercato, la tradizione etc.). Ma anche “filosofia” è uno di quei concetti che nel mio sistema prendono un senso parzialmente diverso. Per me, la filosofia dovrebbe interamente assumere, anche problematicamente certo, l’intero patrimonio del sapere scientifico. Altresì, non vedo possibile appaltare il trattamento di temi così generali come quelli citati, al pensiero scientifico e dubito che coloro che sostengono questa bizzarra tesi, conoscano bene il pensiero scientifico stesso, la sua storia, la storia del suo metodo e soprattutto la storia dei suoi oggetti, dei suoi successi ed insuccessi, delle sue pertinenze e dei suoi limiti invalicabili. L’appello allo scientifico spesso ha dello scientifico l’immagine newtoniana ma gli scienziati fisici oggi sono relativistici e/o quantistici che è tutta un’altra epistemologia. Di base, c’è un meccanismo logico nella mente umana, un meccanismo che serve all’induzione, per il quale ricorriamo sfrenatamente all’analogia. Ma l’analogia porta molto spesso alla fallacia dell’analogia (scambiare pere per mele). Ora, gli oggetti e le relazioni che li determinano, osservati dalla scienza sono solo una parte del Tutto e non perché la scienza è giovane ed un giorno saremo capaci di scientificizzare tutto o perché preti e metafisici tramano in senso inverso, sono solo una parte perché solo una parte del tutto è matematizzabile e passibile di esperimenti falsificatori, l’essere non ci dice del dover essere e spesso neanche del poter essere. L’irrazionale ad esempio, non è che non sia teoricamente matematizzabile, è che lo sforzo di matematizzarlo porterebbe ad una stringa lunghissima ed in fondo insignificante, perderebbe potere di sintesi e non sarebbe di alcuna utilità al pensiero, non potrebbe far predizioni induttive e dubito possa indicarci ricorsività utili a comporre leggi, leggi che già oggi nella scienza più dura di tutte, la fisica, sono probabilistiche ed indeterministiche. Quindi, sulla pretesa di render scientifica l’intenzione, l’agency, la Storia, il giudizio di valore, le relazioni umane, l’etica e molto altro tra cui quel complesso di sistemi di pensiero che sono la ragion pura, quella impura (da Nietzsche, Freud a Matte Blanco e Damasio Lacan l’ho poco approfondito) e le immagini di mondo personali e sociali , mi spiace, ma i nostri punti di vista divergono irrimediabilmente. E’ una faccenda molto complessa e converrà che non si può ridurre a questo scambio veloce, segnalo solo che qui c’è un punto critico del nostro dialogo (logos messo in comune) ammesso io abbia ben inteso la sua posizione. L’uso della parola “scientifico” con un sottofondo di giudizio di valore positivo ed auspicabile, quando si tratta di discipline che vanno dalla psicologia, alla sociologia, all’antropologia, all’economia, all’archeologia, alla storia e fino alla filosofia, semplicemente, mi provoca l’orticaria. La biologia generale (non quella molecolare) e le “scienze”cognitive sono, per me, sul crinale. Biologie più specifiche, chimica e fisica sono il regno dello scientifico sebbene siano forme di pensiero umano (ma con un chiaro oggetto di mondo concreto, che è ciò che poi permette loro di essere “scientifiche”) e quindi a livello di epistemologia risentono di presupposti, consapevoli o meno, di tipo filosofico. Non è che abbiamo problemi solo con Marx ed Hegel, una epoca si supera nell’insieme, Weber fa parte del pacchetto e con lui buona parte dell’economia politica che ben decostruì Marx ed anche della filosofia inglese del XVIII° e XIX° secolo. Sono molti i sogni dogmatici da cui risvegliarsi per non rimanere nell’incubo di trattare il mondo del XXI° secolo con i sistemi di pensiero di ciò che è stato.

      IN ORDINE SPARSO. Io non replico sulla dicotomia Stato-mercato perché non difendo il primo in favore del secondo sebbene difenda il politico nei confronti dell’economico. La mia utopia è sul metodo democrazia vs mercato, sull’inversione di ordinatore politica vs economia, non mi immagino questa o quella Nuova Atlantide o Città del Sole. Far ordinare le nostre società dal mercato è, secondo me, appena più efficiente che farle ordinare dal Vecchio e Nuovo Testamento. Mi piacerebbe inglobare l’economico nel sociale-politico (Karl Polanyi se le è noto, riportare l’economia embedded) ordinato da un impianto democratico (nel senso dato). Sono stato manager ed imprenditore ed ho conosciuto imprenditori che, mi creda, per quanto forse miliardari, non avevano né yacht, né Rolls, si alzavano alle 6 di mattina e godevano fondamentalmente a “fare”, creare, sviluppare, affermare. Per me, nella società democratica ipotizzata, possono benissimo continuare a farlo. Ho incontrato però anche altri, io fra quelli, che avrebbero amato società di soci cooperativi come per altro avviene nell’alta consulenza oltreché in alcune coop agricole, dei servizi ed in forme più rare nell’industriale o nel consumo. Ma si può ben immaginare anche società di produttori-utenti che amministrano democraticamente la propria impresa, almeno nella scelta annuale delle politiche di gestione e sviluppo e nella delega veramente consapevole al consiglio degli amministratori (ad esempio quelle che oggi sono le municipalizzate). Alcuni possono agire nella logica dello scambio diretto o mediato da altre unità di misura che non siano il denaro (il tempo, ad esempio). L’inventiva sulle forme proprietarie e sulla separazione tra proprietà e gestione, su pubblico-comune e privato, sono un mondo molto più vario del creduto. Inoltre, certe cose sono naturalmente soggette alla logica di mercato e soffrono quando sono poste sotto altra logica, così il contrario penso a buona parte dei servizi pubblici tra cui istruzione, sanità, trasporti, difesa. L’invito quindi è quello a pensare plurale perché il complesso è naturale ed il naturale è plurale, più è plurale più tra l’altro è resiliente e più è resiliente più è adattativo. Una costante della Natura è la varietà, così la complessità, varietà molteplici in molteplici interrelazioni, così quella pappina molliccia che abbiamo nella scatola cranica, molteplici neuroni connessi nella più molteplici geometrie. La riduzione del plurale al singolare del concetto non possiamo evitarla per pensare e comunicare ma poi dobbiamo ricordarci di sciogliere il concetto che sussume la pluralità originaria quando andiamo nel mondo ad applicarlo. Stato – mercato sono concetti, non esiste una società che possa avere economia solo di Stato o solo di mercato.
      Lo Stato nazione ce lo troviamo come fatto, ci piaccia o meno, nell’attesa di evolverlo, occorre prender atto che solo lo stato egemone (il Regno Unito fino a gli anni ’20, gli Stati Uniti negli ultimi decenni) ha ideologicamente promosso il libero mercato extra-nazionale. Più concretamente, F. List economista liberale tedesco del XVIII° secolo ma le stesse prassi economiche concrete rilevate da insospettabili storici (giganti) dell’economia come Bairoch, Bayly, Landes, l’intera scuola istituzionale americana ed altri ovvero l’intera schiera degli economisti eterodossi, confermano che la protezione nazionale dei mercato è stata -com’è ovvio che sia- la norma. Sulla correlazione causale tra libero mercato e successo nazionale mi permetto di dirle che ormai, in sede storiografica (non marxista ma certo neanche liberale à la Nial Ferguson che uno storico serio neanche ammetterebbe alla congregazione), da Pomeranz a Braudel, alla World History à la McNeill ma anche marxisti eterodossi come Wallerstein ed Arrighi e qualche geografo come Harvey ma le posso assicurare che il coro prende forme di semi-unanimità anche con i principali studiosi di Relazioni internazionali, realisti per lo più o di geopolitica da Mackinder a Brzezinski e Kissinger, nessuno più crede esista un nesso puro tra libero mercato e potenza nel senso che è la seconda che porta al primo e non viceversa come lei sembra sostenere. E’ ben chiaro cosa ha fatto la forza di coercizione, la potenza in senso militare nel determinare gli equilibri tra sistemi, tra cui sovralimentare le macchine di produzione e scambio con prodotti ed energie coloniali o imperiali, dotare di mano d’opera schiavile o servile, offrire mercati secondari di sbocco per le eccedenze della macchina che è quasi sempre fuori registro e le cui vantate facoltà di autoregolazione sono un mito, in questo sto con Keynes. Si vada a leggere gli Act del parlamento britannico del XVIII° secolo e poi mi dica se qualcosa di simile al libero mercato autoregolato si sarebbe mai potuto affermare nella Storia, senza Stato. E mi dica del recente sistema americano senza le plurime nomine di Greenspan (17 anni, una monarchia), la gestione e l’imposizione stessa del dollaro come moneta di uno Stato epperò anche di un sistema mondiale, l’abolizione del Glass-Steagall Act del ’99 di Clinton e le ottomila bombe atomiche ed il più imponente apparato militare che la storia ricordi nonché gli investimenti in R&S dello Stato americano (diretti ed indiretti). E se vuole parliamo del drenaggio fiscale degli off shore anglosassoni (tutti inglesi ed americani più qualche olandese, svizzero e poco altro) o del potere di protezione delle élite locali che perdurano un colonialismo per procura. E’ questa abnorme coercizione esterna che permette quella che Lei vede come libertà interna alla società più sviluppate ed oggi infatti è proprio la difficoltà occidentale a prorogare le condizioni di questa coercizione esterna che retroagisce su livelli sempre meno aperti di libertà e la sempre maggiore eteronomia che constatiamo. Ora, se però leviamo tutto questo perché è coercitivo e poco veramente liberale, ho l’impressione che il mercato torni ad essere una modesta rete di piazze di scambio tipo fiere della Champagne del XV° – XVI° secolo che non auto-organizza alcunché delle società umane complesse.

      Mi scusi se sono stato erratico e se ho perso di chiarezza nell’esposizione. Volevo non lasciare il suo intervento senza risposta ma ho dovuto fare i conti con i compromessi tra sistematicità e tempo a disposizione. Cordialmente e comunque grazie, è assai piacevole discutere così.

  3. Luciano Aguzzi ha detto:

    Caro Fagan, la discussione si allunga e si allarga al di là della mia disponibilità di tempo per seguirla in dettaglio, per cui sono costretto a chiuderla, magari riprendendola in altra occasione sotto forma di commento ad altri articoli. I suoi scritti sono indubbiamente stimolanti, per la vastità dei temi, per la ricca bibliografia, per l’accurata e in genere chiara esposizione. Ciò, tuttavia, com’è ovvio, non evita qualche equivoco interpretativo, perché davvero, senza citare né Pirandello né Wittgenstein, la comunicazione è, sempre, il tentativo di compiere quel miracolo che tende a trasformare il mondo personale, quello intimo dell’individuo, nel mondo sociale del linguaggio. Per lo più il miracolo riesce quasi al cento per cento ai bassi livelli di comunicazione, ma in percentuale minore ai livelli più sofisticati ma non formalizzati, come nel campo della politica e delle scienze sociali e umane in genere.
    Per chiudere gli interventi (ma non la discussione, che è aperta da oltre due millenni e non si chiuderà probabilmente mai), mi limito a riprendere solo alcuni punti.

    1) Lei ha giustamente intuito che il mio programma di riferimento è quello del miniarchismo (o minarchismo o minimal-statismo), con tendenza all’anarchismo liberale, o libertariano. Da questo punto di vista il suo concetto di “democrazia diretta” mi pare interessante, come nel passato mi ha interessato, e mi interessa ancora, il pensiero di Aldo Capitini teorico della “omnicrazia” e della diffusione del potere (“il potere di tutti” era il titolo del suo giornale, le cui pagine mi permisero – ancora adolescente – l’incontro con Capitini ormai giunto all’ultima fase della sua operosità). Oggi, in Italia, le tesi libertarie mi sembrano rappresentate soprattutto dal gruppo di studiosi che ha fondato l’IBI (Istituto Bruno Leoni). Dunque, per ogni punto non chiuso della nostra discussione, rinvio alle dottrine miniarchiche e libertariane.

    2) Lei scrive: «io rifiuto la dicotomia individuale – sociale, la rifiuto come dicotomia e la considero una diade dialettica (in senso eracliteo, non hegeliano) problematica. […] L’uomo è individuale e sociale senza apprezzabili primati del primo o del secondo termine». Lei ha indubbiamente ragione se intende dire che non può esistere l’individuo in astratto, al di fuori della società, né la società in astratto non fondata sugli individui e sulla conservazione, per quanto minima, delle specifiche individualità. La dicotomia non è certamente fra termini in opposizione, e in tale senso non è nemmeno dicotomia. Ma si parlava non di antropologia, bensì di organizzazione sociale, quindi di ordinamento giuridico. In questo campo fa differenza che l’individuo sia concepito come libero, in quanto individuo dotato di diritti naturali inalienabili, o che sia subordinato all’organizzazione sociale considerata prima e al di sopra degli individui stessi. Il pensiero libertario (e liberale in genere) considera i corpi collettivi (Stato, patria, nazione, comunità ecc.) non entità dotate di un proprio quid ontologico (ma certamente hanno un quid storico, culturale ecc.), ma entità formate dalla volontà degli individui. Al contrario tutti gli “organicisti” considerano i corpi sociali dotati di un proprio essere indipendente dagli individui e sovraordinato ad essi. Lei, come soluzione, propone la democrazia diretta e stima possibile che la discussione all’interno degli spazi di questa democrazia determini i limiti della libertà individuale, che non sono prefissati in modo naturale e inequivoco. Ma il problema è che il potere tende ad aumentare se stesso e limitare gli spazi di libertà di ogni altro soggetto. Pertanto, come fondare e limitare (limitare già al suo sorgere, non rinviare il problema alle discussioni e decisioni successive) il potere della stessa democrazia diretta? Non ci sono che due vie: o il reciproco riconoscimento dei soggetti, ognuno interamente proprietario della propria libertà con il solo limite che questa non danneggi la pari libertà degli altri (quindi un fondamento contrattuale); o un atto di forza di qualcuno su qualcun altro. Questo atto fondativo precede, logicamente, il sorgere stesso della democrazia diretta e ne determina la qualità. Sono poi d’accordo che in concreto, storicamente, può non precedere ma nascere, faticosamente, dal crescere della democrazia stessa. Da qui, forse, l’idea di democrazia che, come un’utopia, non si realizza al cento per cento, ma che con il suo “tendere a” costituisce pur sempre un’utile guida.

    3) Lei scrive: «L’uso della parola “scientifico” con un sottofondo di giudizio di valore positivo ed auspicabile, quando si tratta di discipline che vanno dalla psicologia, alla sociologia, all’antropologia, all’economia, all’archeologia, alla storia e fino alla filosofia, semplicemente, mi provoca l’orticaria». Posso capire il suo punto di vista, tuttavia l’uso del termine è piuttosto diffuso e comunemente accettato e permette di distinguere tipi diversi di lavoro in questi ambiti disciplinari. Ad esempio, nel campo storiografico, dire che un libro è “scientifico” vuol dire che è stato costruito seguendo uno specifico iter procedurale, che comprende l’uso di una metodologia condivisa almeno da una parte consistente degli storici per professione e/o per dedizione. Questa poi consiste nell’adozione di un procedimento che comporti, nel modo più rigoroso possibile, la corretta ricerca delle fonti, la loro lettura, la loro interpretazione e la costruzione della narrazione (che comprende le “spiegazioni”, le ipotesi, le teorie ecc.). Ciò permette di distinguere facilmente un libro “scientifico” da uno divulgativo o da uno scritto in modo farraginoso e con salti logici, basato più su convinzioni personali che sulla ricerca che ha nelle fonti documentarie il suo punto di partenza. Un libro scientifico, qualche volta, potrebbe anche essere noioso e tutto sommato inutile, mentre un libro dilettantesco può contenere, qualche rara volta, intuizioni brillanti e utili, ciononostante la differenza resta ed è facilmente individuabile.

    4) Lei scrive: «Mi piacerebbe inglobare l’economico nel sociale-politico (Karl Polanyi se le è noto, riportare l’economia embedded) ordinato da un impianto democratico (nel senso dato)». Credo che l'”economico” e il “sociale-politico” siano sempre e obbligatoriamente strettamente connessi e inscindibili, e il primo (secondo alcune dottrine) già compreso nel secondo, oppure (secondo altre dottrine) il secondo compreso nel primo. Intendo dire che, a secondo di come è organizzato l'”economico”, ne deriva una specifica organizzazione del “sociale-politico” e viceversa. Se si parte dall’adozione/formazione del “libero mercato”, ne segue un ordinamento sociale e politico coerente con esso, fondato sul principio di libertà dell’individuo; se invece si parte dall’ordinamento del sociale e del politico, potrebbe darsi che il libero mercato sia negato o limitato e piegato a qualche fine etico a lui estraneo, negando e limitando così anche la libertà degli individui. In ogni caso “economico” e “sociale-politico” sono inglobati in un unico “sistema” o, per meglio dire con un termine più tecnico, in un unico “regime” (qui uso regime non nel senso comune di Stato autoritario, ma nel senso politologico di organizzazione statuale e sociale che risulta dalla considerazione complessiva e unitaria del diritto costituzionale, dell’ordinamento giuridico, della storia e cultura di un popolo. È la nozione di “regime” che spiega perché costituzioni e leggi identiche possono, in pratica, dare esiti molto diversi quando sono applicate a “regimi” diversi. E spiega perché l’esportazione della democrazia è destinata al fallimento, almeno a breve termine).

    5) Lei scrive: «Stato – mercato sono concetti, non esiste una società che possa avere economia solo di Stato o solo di mercato». Concordo. Con la precisione, però, che se non può esistere un’economia solo di Stato (perché anche nel più totalitario controllo si creerebbe una certa quota di traffici illeciti e di mercato nero e illegale), può esistere un’economia senza Stato, come la storia dimostra. All’interno dell’economia di libero mercato esiste sempre anche un settore di scambio non strettamente economico, come il dono e il baratto, che può assumere, anche in società sviluppate come quelle odierne, dimensioni notevoli (si pensi alle tante “imprese” filantropiche, di volontariato, di assistenza gratuita ecc.). Se però teniamo presente una nozione antropologica e non solo economica di “libero mercato”, vediamo subito che anche il dono e il baratto formano un loro “mercato” interconnesso con i rapporti sociali di parentela, amicizia, altruismo, ma anche di potere politico, clientelismo ecc.). Per mercato si dovrebbe, correttamente, intendere non solo il luogo (fisico o metaforico) di incontro fra chi vende e chi compra, ma anche quello di scambio non economico di qualunque bene e utilità, compresi idee e sentimenti. Il mercato è la “piazza” dove gli individui si incontrano e organizzano la loro vita. Se la piazza è regolamentata (troppo) dallo Stato o da qualsiasi altra autorità esterna, verrà a mancare la libertà degli individui di organizzare la propria vita, che sarà pre-organizzata (e obbligatoriamente organizzata), in misura più o meno ampia, da quelle autorità che controllano la piazza.

    6) Lei scrive: «nessuno più crede esista un nesso puro tra libero mercato e potenza nel senso che è la seconda che porta al primo e non viceversa come lei sembra sostenere». Qui c’è un equivoco, lei ha frainteso il mio pensiero. Io non credo che il libero mercato accresca la potenza dello Stato e nemmeno che la potenza dello Stato accresca il libero mercato. Credo invece che libero mercato e Stato siano tendenzialmente incompatibili. Dove c’è più libero mercato c’è meno Stato e viceversa. Gli esempi storici da lei citati dimostrano il mio assunto: gli Stati tendono sempre a limitare, distorcere e utilizzare a proprio vantaggio il mercato, lasciandogli solo quella libertà a lui vantaggiosa. Talvolta lo Stato può dare l’impressione di favorire il libero mercato, ma solo nel senso che favorisce il “proprio” libero mercato, magari imposto a cannonate a Paesi più deboli. Se lei mi cita gli Stati Uniti come esempio di libero mercato, le dirò che negli Usa c’è più libero mercato che in Italia (dove il settore pubblico supera il 50% delle attività economiche e dove le aziende private sono sottoposte a migliaia di leggi, controlli, permessi ecc.), ma non c’è assolutamente un libero mercato completo e autoregolamentato. Basti confrontare gli attuali livelli di libertà dei mercati e delle imprese Usa con gli analoghi esistenti alla fondazione degli Usa e per gran parte della prima metà dell’Ottocento. In seguito, un passettino per volta, il potere Federale si è ampliato a danno dei poteri federati (i singoli Stati dell’Unione) e il potere politico si è accentrato a danno di ogni altro potere e libertà. Ormai gli Usa sono uno Stato federale solo formalmente, ma di fatto sempre più simile ad uno Stato con poteri deboli decentrati, avvicinandosi così ai modelli statuali europei, tutti accentrati per origine, definizione costituzionale e storia politica.

    7) Parlare di libertà in teoria può non rendere l’esatta idea di che cosa si voglia dire. Faccio dunque un esempio concreto. In Italia esiste un sistema pensionistico obbligatorio. Lo Stato lo gestisce direttamente e con propri criteri, attraverso l’Inps, istituto in cui sono stati concentrati tutti i fondi pensione precedentemente distinti, fra cui anche diversi privati (in pratica lo Stato ha confiscato di forza queste proprietà private). Sulla busta paga dei lavoratori una parte dello stipendio o salario è trattenuta obbligatoriamente ai fini previdenziali. Il che vuol dire che l’individuo non è libero di gestire a modo suo questa parte del suo stipendio, che gli viene requisita perché lo Stato si reputa miglior gestore e impone la sua legge. Dopo avere requisito questa parte dello stipendio, lo Stato l’amministra come meglio crede, cambiando le leggi a suo piacere, in pratica cambiando le regole del gioco a carte in tavola. Non contento di questo suo comportamento arbitrario, i fondi requisiti a scopo previdenziale vengono in realtà utilizzati, in proporzione enorme, per altri fini, ad esempio a fini assistenziali (che invece dovrebbero essere a carico della fiscalità generale), ma in gran parte anche a fini clientelari, cioè di remunerazione parassitaria dei suoi apparati politici, dirigenziali e burocratici. Così avviene che alcune categorie hanno pensioni inferiori a quanto loro spetterebbe in base ai contributi versati, mentre altre categorie hanno pensioni superiori, privilegiate a scopo di consenso politico. Questa, anche se formalmente legalizzata, è pur sempre una truffa. Ma c’è di più, e la truffa si aggrava, se pensiamo alle distorsioni di fondi a scopi diversi dalla previdenza e alla ridistribuzione di enormi ricchezze tratte dai fondi previdenziali a vantaggio di categorie di cittadini i quali, per parentele politiche e sindacali, godono di privilegi. Uno dei tanti esempi è quello dell’immenso patrimonio edilizio che l’Inps possedeva, dato in affitto a canoni inferiori anche di dieci volte a quello di mercato, tanto che il bilancio della gestione patrimoniale, anziché fornire degli utili destinati alla previdenza, era in rosso. Per questo, dopo l’esplodere di vari scandali che hanno documentato come molti affittuari privilegiati erano politici, sindacalisti, loro parenti e amici e clienti, si decise di vendere il patrimonio edilizio, e lo si fece svendendolo, di fatto regalandolo proprio a quegli inquilini già privilegiati. In questo modo un patrimonio ingente, di parecchi miliardi, è stato semplicemente rubato e trasferito dalle tasche dei lavoratori a cui era stato confiscato parte dello stipendio a fine previdenziale alle tasche dei ceti parassitari, politici in primo luogo. Perché i cittadini non devono essere liberi di gestire il proprio stipendio e di costruirsi la propria previdenza senza interferenze truffaldine dello Stato? Perché la stessa cosa avviene in mille altri settori, dove lo Stato si comporta sempre come se i cittadini fossero dei dementi incapaci di gestire se stessi? Lo “Stato” non è altro che questo generalizzato esproprio di risorse economiche e di libertà a danno dei cittadini, con la pretesa che lo “Stato” sa meglio ciò che serve ai suoi cittadini e lo sa realizzare meglio. Non è così. Lo Stato non lo sa meglio, non lo sa fare meglio e soprattutto non ci prova nemmeno a fare meglio, perché lo scopo e la natura dello Stato è quello di rapinare i cittadini, non proteggerli e migliorarne le condizioni. Non c’è quasi nulla (i libertariani spinti dicono nulla, in assoluto) di ciò che fa lo Stato che i cittadini non potrebbero fare meglio per conto loro, o come individui o associandosi liberamente in organizzazioni specifiche.
    Per dettagliare ancora meglio l’esempio dirò di più. Dal 1994 ad oggi diverse leggi hanno peggiorato le condizioni pensionistiche adducendo come pretesto che altrimenti il sistema era destinato al fallimento. Ciò è vero, con il modo truffaldino in cui lo Stato gestisce i fondi pensionistici. Ma se facciamo i conti in tasca a molti pensionati troviamo che le loro pensioni sono molto inferiori a quanto avrebbero potuto ricavare investendo nel mercato privato il denaro trattenuto sulla loro busta paga. Infatti, mentre le leggi previdenziali rivalutavano i contributi al 2 o al 2,5 per cento annuale, per molti anni i titoli di Stato denominati BTP hanno pagato cedole fra il 13 e il 20%. Il che vuol dire che, prendendo un lavoratore che avesse iniziato a lavorare nel 1960 e fosse andato in pensione nel 2000, se questi avesse investito in BTP l’equivalente delle trattenute previdenziali, allo scadere del 2000 avrebbe potuto godere di una rendita superiore alla pensione e restare proprietario del capitale investito in titoli.
    La differenza di rendimento è pari alla ricchezza truffata dallo Stato a quel lavoratore e alla mancanza di libertà nel gestire in proprio tutto il suo stipendio.

    • pierluigi fagan ha detto:

      Caro Aguzzi, visto che abbiamo ampiamente (nei limiti del mezzo) già discusso, vado a chiudere brevemente:

      2) Inizialmente, credo, il punto in discussione fosse politico, quindi giuridico ed antropologico al contempo. Io penso che non debba esserci nulla “prima” del politico. Sarà politico, quindi democratico, il processo di formazione progressiva del contratto e quindi anche la contrattazione dei limiti che il contratto deve stabilire. Noi abbiamo bisogno di una forma che ci unisca nel fare del politico la nostra procedura di convivenza e penso che la sua miglior forma sia il democratico, questo è, secondo a me, il principio. Dato il principio, da discutere esso stesso democraticamente, tutto consegue, inclusa la discussione progressiva su i regolamenti generali, i contenuti del contratto. Come altrimenti stabilire i contenuti del contratto? Una Costituzione democratica non può che avere una formazione e deliberazione democratica.

      3) Concordo se l’interpretazione del termine “scientifico” è posta nel senso comune alla nostra cultura da lei indicato. Ho dato la specifica perché nei miei studi, mi sottopongo spesso ad una faticosa lettura di testi di cultura prettamente anglosassone, lì dove “scientifico” ha un senso molto più stretto. In quella cultura che è oggi la cultura ampiamente dominante l’Occidente, c’è un uso di “scientifico” che assimila l’umano alle sue parti. Essendo le sue parti fisiche e chimiche ed essendo queste parti oggetto di scienza in senso stretto, conseguono che anche tutto l’uomo e le sue opere debbano essere trattate “scientificamente” e dove “ciò non può esser detto, meglio tacere” (W.). Il collasso dell’intera filosofia a filosofia logico linguistica,della psico-sociologia a biologia molecolare, dell’economia alla matematica, riduzionismi da cui per altro stanno cercando di emanciparsi essi stessi già da un po’ di tempo, denota la natura ideologica di questa scelta insensata. La cultura della complessità che per altro ha origini scientifiche in senso stretto, punta a rivedere i confini tra scienze dure, scienze sociali e scienze (?) umane ed anche le pertinenze metodologiche. Come vede, già l’uso del prefisso “scienza” per i tre ambiti, termine che però prende diversi significati, comporta confusione.

      4-5-6) Mi pare che ognuno di noi abbia con chiarezza espresso la sua posizione. Lei ha a principio il libero mercato, io ho a principio la democrazia degli individui. Per me quindi vale il punto 2) perché, per me, anche la competizione tra principi, può esser sciolta solo democraticamente.

      7) Il caso da lei posto è evidente. Non sarò certo io a contestarlo. Le dico solo che un sistema democratico nel senso più volte specificato, non ammetterebbe mai questo stato di cose. Il clientelismo è un fenomeno che in Italia ha dimensioni particolari ma ciò deriva da fatti storici non strettamente dall’applicazione di questo o quel sistema. In Scandinavia, lo Stato ha altre performance, il che ci dice di nuovo che non è il sistema ma il contesto socio-storico-culturale in cui è applicato a fare la prima (non l’unica) differenza. I sistemi certo non sono neutrali ma non sono neanche la fonte di ogni distorsione. Nel caso in questione, lo Stato assume una posizione paternalistica del tipo “poiché Voi non siete tutti in grado di autogestirvi vi gestisco io” che è il contrario dell’autonomia democratica. Va però detto che, allo stato attuale delle cose, è vero che non tutti siamo in grado di autogestirci. Per questo, nel mio intento, democrazia è prima e soprattutto distribuzione quanto più equa possibile delle conoscenze e delle informazioni. Se ci fosse questa distribuzione, nessuno accetterebbe l’esproprio della decisione su i propri risparmi ma al contempo, gestendoli in proprio o dandoli a chi ritiene (incluso magari il “centro” della cosa comune a quel punto democraticamente gestito e controllato e quindi in grado di ottenere performance migliori di coloro che le debbono gravare anche del profitto personale che ogni impresa “privata” deve conseguire), otterrebbe risultati congrui alla proprie aspettative di sicurezza per la parte finale della propria vita.

      La ringrazio del vasto e stimolante scambio di idee. Alla prossima!

  4. Jacopo Coro ha detto:

    http://nuova-eden.blogspot.it/2016/01/schiavi-della-complessita.html
    Che ne pensi Pierluigi? Si lega a quella frase critica sulla complessità da te citata su Facebook…
    Ho il vago sospetto che anche il concetto di complessità contenga in sè diversi significati, però mi domando anche davvero qualcosa per essere migliore, più funzionale, più adattivo deve essere complesso? Cosa significa realmente complesso? Qualcosa che ha molte e diverse relazioni?
    Ma allora anche i batteri, citati nell’articolo a dispetto della loro semplictà rispetto ad un organismo pluricellulare sono in realtà complessi, quindi l’autore dell’articolo si sbaglia?
    Davvero non esiste un principio che regola il complesso?

    • pierluigi fagan ha detto:

      Buongiorno Jacopo,

      sì, per chi non è contatto facebook, in un post mi riferivo al sociologo olandese John Goudsblom il quale notava che ad ogni nostra soluzione trovata per aumentare il nostro controllo sul mondo, aumentava la nostra dipendenza da essa. Forse un milione di anni fa, con la domesticazione del fuoco, abbiamo iniziato una divergenza che da una parte ci ha permesso molte performance che in seguito ci hanno portato al superamento dei grandi predatori tramite la metallurgia (armi difesa-offesa, attrezzi agricoli ed edilizi), la cultura alimentare del “cotto” (per dirla alla Levi Strauss), il mattone etc. Questo ha poi retroagito positivamente sull’incremento demografico ma, inevitabilmente, i sistemi umani hanno finito poi col configgere nella competizione per le energie fossili. Oggi, sapremmo anche della necessità di emanciparci da queste ma la struttura economica e sociale, preme sul politico affinché questa dipendenza rimanga perché alcune élite (petrolieri, logistica, militari, industria delle armi, inerzia dell’industria, possessori di materie prime) “dipendono” da questa stessa dipendenza, L’Arabia saudita, ad esempio, ed in parte Israele, dipendono dal fatto che gli Stati Uniti supervisioni l’intera regione per controllare le fonti energetiche e l’emancipazione degli USA dal Medio oriente (per l’energia tramite lo shale gas, poi ci sono altri spetti geopolitici che frenano, in parte, questo disimpegno) è vista come un pericoloso disimpegno che pone loro a diretto contatto con un girone di competizioni locali in cui non sono più garantiti, o meglio, “protetti”. Il progetto saudita “Isis” proviene anche da questo.

      Gli archeo-antropologi hanno verificato, dallo stato degli scheletri trovati, che l’agricoltura fu invero una iniziale perdita di varietà di alimentazione rispetto al regime di caccia e raccolta, al punto che la malnutrizione retroagì diminuendo l’età della vita media ed anche la mortalità infantile. Ma, ignari del fatto, gli uomini si felicitarono della possibilità di avere cibo a richiesta invece che dipendere dall’incertezza della ricerca e paradosso delle dipendenza dalle soluzioni, non s’accorsero che la loro giornata di lavoro passò da 4 a 6-7 ore/giorno (ne ha scritto l’antropologo Marshall Sahlins) sopperendo alla mortalità infantile aumentando drasticamente il numero di figi partoriti. La quantità (cibo, disponibilità fare più figli) sopperì alla perdita parziale di qualità e portò in dote nuove qualità ma anche problemi tra cui la complessità sociale, la gerarchia, le guerre, il dominio del maschio sulla femmina etc. Si potrebbe allora parlare di “costo delle soluzioni” ovvero la valutazione di un bilancio complessivo delle perdite ed acquisti di quantità e qualità di vita nel praticare alcuni soluzioni che aumentano la complessità, creano problemi per risolvere problemi

      La principale remunerazione che abbiamo ottenuto da questo aumento della complessità, è probabilmente, l’aumento della vita media. I cacciatori raccoglitori vivevano poco più di un terzo di quanto facciamo noi. Non è un aspetto secondario. L’intera nostra complessione biologica ci spinge a quello che chiamo “imperativo ontologico”, ovvero: vivi il più a lungo ed al meglio possibile. Sul bilancio tra il “più a lungo” ed “il meglio” si gioca il discorso che qui stiamo facendo. Probabilmente, ora che abbiamo strappato in avanti la quantità di vita (le soglie dei 75-85 anni sono molto recenti), ci si pone il problema della qualità. Se ad esempio, nominalmente vivessi fino a 90 anni ma per 15, con l’Alzheimer, forse preferirei il “meno è meglio”. Meno è meglio non è una legge ma non è un caso che sia comparso (decrescita, downsizing, riciclo e riuso, ritorno del comunitario, lavorare meno – lavorare tutti etc.) come concetto, proprio ora che proveniamo da una lunga stagione di “più”. Tutto si gioca sempre nell’equilibrio, del “giusto mezzo” come giù i saggi antichi sapevano (Sette sapienti, Aristotele, Confucio). E’ la valutazione comune del giusto mezzo che dobbiamo conquistare.

      Sul resto permettimi di essere sintetico altrimenti scriviamo un altro saggio. Nella nostra cultura (quella che unisce i complessologi termine orribile), c’è il concetto di scala di complessità, ci sono complessità maggiori (l’uomo) e minori (i batteri), tutto è complesso, il semplice è un complesso relativo. Studiosi di complessità, dragando la letteratura del campo, hanno contato più di 70 definizioni di complesso, la mia che è solo parzialmente differente da quelle più in uso, la trovi qui: https://pierluigifagan.wordpress.com/complessita/ . La complessità è un modo di pensare, “un tipo di sguardo cognitivo con il quale orientiamo le indagini compiute dal nostro intelletto. Se tale è lo sguardo, tali risulteranno le strutture del mondo alle quali si chiederà, se e quanto corrispondono a questa descrizione.”. Sviluppare una cultura della complessità è necessario per adattarci al complesso che noi stessi abbiamo creato e creiamo ogni giorno di più. Adattarci significa anche conquistare la capacità di valutazione collettiva dei costi delle soluzioni. Principi ve ne sono parecchi, alcuni li troverai nel testo mentre nell’altra pagina (Complessità 2), troverai alcuni dei principali pensatori che hanno dato vita a questo pensiero.

      Grazie per l’intervento, a presto.

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