CHI CONTROLLA I CONTROLLORI ?

 

La nuova rivoluzione industriale è quindi una spada a doppio taglio. Essa può essere usata per il benessere dell’umanità […]. Ma se noi continueremo a muoverci sui binari liberi ed ovvi del nostro comportamento tradizionale, e a seguire il nostro tradizionale culto del progresso e della quinta libertà – la libertà di sfruttare – è certo che dovremmo  aspettarci un decennio ed anche più di rovina e disperazione.

N. Wiener, 1950[1]

 

Tema caldo, di recente lanciato e rilanciato, è la prossima catastrofe nell’ambito del lavoro determinata dall’erosione della funzione umana da parte delle macchine. La retorica tecno-futurista induce a pensare che l’intelligenza artificiale stia per replicare l’umano ma piuttosto che replicare le funzioni superiori  sono invece quelle inferiori, il calcolo, la elaborazione dei dati, la sequenza lineare di if…than ad essere replicate e visto che le macchine non hanno disturbi emotivi o limiti biologici, le svolgeranno senz’altro meglio degli umani stessi. Potremmo allora dire che più che scoprire quanto intelligenti stanno diventando le macchine, stiamo verificando quanto ancora è stupida ed alienante la routine di molti lavori umani.  Senz’altro però, questa componente routinaria ed esecutiva che compone ancora la totalità o grande parte o piccola parte di molti lavori, vedrà l’implacabile sostituzione dell’umano con l’informatico-meccanico. Sebbene inizialmente molti lavori non saranno cancellati ma progressivamente mixati tra umano e info-maccanico, alla fine il saldo netto sarà in termini di posti di lavoro. Quello che giustamente preoccupa è la stretta relazione  tra l’enorme quantità di ore lavoro umane sostituibili, l’incentivo del profitto che deriva dalla comparazione tra costo del lavoro umano e costo del lavoro info-meccanico e il tempo estremamente breve in cui tutto ciò sta accadendo. Ulteriore preoccupazione, sembra che gli esperti del problema prevedano a breve una sorta di salto quantico delle performance dei robot e dei software[2], una di quelle rivoluzioni stile “periodo Cambriano”[3] per le quali, ricombinandosi i fattori, il risultato è di molti gradi superiore alla somma delle parti[4]. Lo stato interconnesso delle nostre economie intorno la principio di concorrenza, imporrà il cambiamento come nuovo standard planetario, lo si desideri o meno.

Il libro inchiesta di Riccardo Staglianò, Al posto tuo. Così web e robot ci stanno rubando il lavoro, Einaudi, Torino, 2016, è un competente ed onesto lavoro sul tema, una aggiornata overview sul fenomeno su cui l’autore, già centrato da anni su i temi delle nuove tecnologie, ha raccolto informazioni negli ultimi cinque anni. La posizione di Staglianò è critica verso il tecno-entusiasmo[5] e cerca di indagare fattivamente quanto il fenomeno sia in effetti preoccupante[6], soprattutto in via previsionale.

Ma al di là delle ancora non stabilizzate previsioni c’è anche un segnale indiretto che avverte con chiarezza di dove la bilancia stia pendendo. Ci riferiamo alla mobilitazione dei grandi del settore (Google, Facebook, Amazon, Apple etc.), in favore di un set di idee che vanno dal reddito  di base, alla partecipazione azionaria diffusa al capitale delle imprese che sfornano innovazioni di modo che quegli stessi che perdono il lavoro o parte del reddito ne recupererebbero almeno un po’ in quanto azionisti[7], alle spinte a rivedere a fondo la formazione scolastica in direzione meno specializzata e più complessa, alla commissione di studi (Deloitte, Forrester research, PWC ed altri) che cerchino di ribilanciare le previsioni più allarmate ed allarmanti. Stante che -comunque- nessuno di loro ha la minima intenzione di mettere in discussione quei 100-130 miliardi di dollari di sottrazione fiscale dovuta alla ricca offerta di tassazioni di favore di cui approfittano con implacabile sistematicità. Così, le previsioni sul futuro espanso dell’economia digitale, oltre a prevedere consistente crescita della disoccupazione tecnologica, indicano anche l’ennesima creazione di valore ristretta a sempre meno persone[8] con conseguente ulteriore radicalizzazione di quella diseguaglianze che ci sembravano già insopportabili ma il cui fondo insondabile siamo -pare- ancora ben lungi dal toccare.

Se a tutto ciò, uniamo i quarti di luna su i “web nazionali” che secessionano dall’impero delle signorie della Valle del Silicio[9], i propositi di web tax che aleggiano in molte parti d’Europa (con il significativo distinguo del nostro ex Presidente del Consiglio ormai colonna portante dell’internazionale libertarian-liberista-liberale, di recente proprio a prendere il brief in Silicon Valley), il sempre più vasto movimento di conflitto contro le ricadute perverse di Uber, Airbnb, Foodora e company e da ultimo, la certificazione pubblica data da Wikileaks (Vault 7) sull’utilizzo dei device personali e casalinghi (Internet of Things, IoT) da parte della Cia e dei suoi 15 tra fratelli e sorelle (più amici privati che ne hanno comprato le tecnologie sottobanco tanto tutto ha un prezzo), allora vediamo che il problema c’è, ci sarà sempre di più e le reazioni che s’annunciano preoccupano quelli stessi che prosperano sul fenomeno che crea e sempre più creerà tali problemi.

Loro sanno, prevedono e si preoccupano, quindi vanno presi sul serio e non come taluni hanno fatto, pensando che Bill Gates che si danna per propagare la “sua” idea di tassare i robot (guadagnare meno, guadagnare a lungo), ha i neuroni deteriorati dall’età e si è trasformato in un tecno-luddista. Questa gente si vede, si parla, fa piani e strategie comuni salvo poi azzannarsi nell’agone competitivo e pare evidente che questa cupola di tecnologi è preoccupata degli effetti del proprio stesso agire, stante che su questi effetti, ne sanno senz’altro più di noi avendo sdoganato fondi massicci su ricerche che hanno previsto gli effetti finali di ciò che si ripromettevano di produrre. Non certo preoccupati al punto da fermarsi ma al punto da spingere gli stati a fornire le migliori condizioni di possibilità sociali affinché loro possano continuare a sfornare salti quantistici di performance tecnica. Addirittura disponibili a far tassare i loro clienti, cioè le aziende che comprano robot e software per sostituire lavoro umano, stante che i margini sono così abbondanti (il caso medio sembra essere un vantaggio di costo di 1.10 se non di più) che un po’ di redistribuzione non fa male a nessuno[10]. Si preoccupano loro e con loro, l’industria finanziaria che li sorregge, i servizi d’informazione dello stato da cui provengono (sono tutti americani), il complesso militar-industriale che sulle loro invenzioni prospera, il complesso educativo-intellettuale che fornisce loro il personale e la giustificazione culturale nonché l’attraente immagine di mondo, l’area politica lib-dem che scambiando il concetto di progresso come incremento dell’emancipazione umana con la Legge di Moore, li coccola e li protegge. Ecco quindi la mobilitazione in direzione dell’ampio ventaglio di soluzioni-vasellina, sempre che Zukerberg, Bezos, Page e company non meditino di scendere direttamente in campo se le cose dovessero mettersi davvero male. Le operazioni di basic lobbyng ovvero usare gli utenti per premere sulle istituzioni locali in favore di questo o quel servizio-azienda della sharing economy, prefigurano nei fatti, un potenziale elettorato[11]. Potenziale elettorato affascinato dalla disintermediazione, la partecipazione diretta e dal basso che si veste di idealismo democratico quando, in assenza di concrete condizioni per una reale democrazia, si rivela  solo come demagogia sfocata preda della sindrome da petizione stile Change.org et affini.  Petizioni che fanno bene all’animo del “democratico indignato” che lascia poi la sua mail che verrà venduta al mercato dello spam.

Se quindi i nostri dioscuri si agitano tanto, vuol dire che i rischi sono all’orizzonte degli eventi. Staglianò apre ogni capitolo evidenziando la categoria che rischia l’impatto distruttivo delle innovazioni di cui poi ci fornisce il racconto aggiornato delle possibili minacce. Commercianti e vari addetti, distribuzione, logistica, trasporti, call center, traduttori, giornalisti, insegnanti e professori, industria già pesantemente aggredita ed anche la più esposta allo standard di concorrenza internazionale, giornalisti, fotografi, bancari, assicurativi, finanziari, medici, infermieri, farmacisti, tassisti, addetti alle attività turistiche, moltissimi lavoratori autonomi, sono solo le principali categorie che vanno variamente incontro al big bang info-tecnico. Per l’Italia, sono poco meno di 20 milioni di occupati a fonte ISTAT che vanno a rischio. Il rischio è rappresentato da una sempre più vasta rete di innovazioni che allargano il dilemma tra il vantaggio del consumatore e lo svantaggio del lavoratore stante che i due aspetti si riuniscono nello stesso individuo. La rete di innovazioni è fatta di laser, scanner ottici, braccia e mani servo-meccanici, robot antropomorfi e non, nano-tecnologie, reti di sensori auto-diagnostici, stampanti 3D che ormai stampano case, algoritmi imputati ma anche quelli che auto-apprendono, quel deep learning o learning machine che con il rientro dell’informazione che corregge o incrementa se stessa porta l’info-elettro-meccanico ad una soglia prima della soggettività. Tutto ciò messo in rete, una rete che convoglia tutte le informazioni uso-performance-utente in enormi stoccaggi di dati (Big Data) che fanno la memoria delle menti-corporation della Valley a cui l’intelligenza strategica del governo americano ha normalmente pieno accesso sebbene si premurino di farci sapere il contrario (tanto siamo in regime di post verità).

Un Internet che ci sta penetrando psico-biologicamente, costituendo un nuovo sistema accanto a quello respiratorio, circolatorio, nervoso, immunitario con la differenza che diversamente da questi, non fa capo a noi ma noi a lui (ad esempio). Un progetto che a sua volta aspetta di potersi congiungere alla biologia tecno-sintetica per aumentare la sua potenza strutturale. Lo sgretolamento progressivo del sociale e soprattutto dei suoi aspetti lavoro-reddito, inclusione-esclusione, identità-nullità, autonomia-eteronomia porterà i più ad un pulviscolo di lavoretti a cottimo, di collaborazioni gratuite che dovremo fornire per sperare di aumentare la nostra awareness dato che a quel punto ognuno di noi diventerà una marca (brand) col suo patrimonio di like e stelline e dovrà curare la sua reputazione, una marca che compete in un mercato globale di concorrenze al ribasso. Se di questo mercato globale sino ad oggi abbiamo temuto i concorrenti cinesi e vietnamiti de-sindacalizzati e sotto-pagati, in quello che viene dovremo temere le macchine che costano meno dei vietnamiti e fanno comunque di più e meglio di noi e di loro messi assieme. Macchine nate sofisticate ma che apprendono da noi e dai loro stessi sempre più residui sbagli fino all’errore zero, guasti zero, manutenzione zero, costo quasi zero quando ripartito su indici di produttività da distopia fantascientifica.  Una realtà che non si chiama più “virtuale” ma “aumentata” e che punirà critici eccessivi ed eventuali ribelli con la più antica delle pene sociali: l’ostracismo (la de-connessione).

A questo punto, facendo perno sulla fallacia della linearità che postula che questa distruzione sarà pur sempre e come sempre è stato (dove “sempre” vale centosettanta anni o poco più[12]), sì una distruzione ma anche creatrice di nuove opportunità, ci si spiega con paterna accondiscendenza che l’umano evolverà sviluppando di più se stesso e che tutti dovremo acquisire capacità creative e di cognizione complessa, di modo da far del problema una opportunità[13].  Ci sono tre errori in questa linea di ragionamento. Il primo è proprio la linearità, cigni neri, salti non lineari che portano emergenze, tempi compressi, reti di feedback dicono che la previsione del “come è stato sempre sarà” è puro wishful thinking proiettato sull’indomabile disordine del mondo. Anche la globalizzazione doveva garantirci il migliore dei mondi possibili, anche la finanziarizzazione di massa, anche l’-Europa della conoscenza- promessa a Lisbona nel 2000.  La seconda è che la prima distruzione di lavoro già avvenuta, ha devastato proprio l’ambito creativo e culturale (giornali, edicole, librerie, case editrici, case discografiche, musicisti, fotografi, riproduzioni gratuite e senza diritti) e proprio Staglianò indagando sulle promesse di farci diventare tutti youtuber o self-published-star, mostra le ridicole proporzioni tra le migliaia che ci provano per l’uno che ci riesce, forse. La piramide dell’auto-successo, al di là della critica che se può fare sul piano socio-culturale, ha invero una forma ben poco attraente anche rispetto alle sue stesse promesse. Il terzo è che la cultura dell’info-digitale va di sua natura dalla parte opposta a quella della creazione di un vasta e diffusa cultura complessa che si reclama come necessaria visto che ormai la cultura semplice verrà portata avanti dalle macchine[14]. Il diluvio della quantità informativa non si traduce in qualità conoscitiva. Insomma promesse infondate, esagerate, sbagliate. Infine, che sia la distribuzione di ricchezza individuale, che sia la distribuzione della ricchezza imprenditoriale e finanziaria, che sia la distribuzione della  share of market[15], la geometria della piramide di questo macro-fenomeno è invece una certezza: base larghissima, sezione media in contrazione, punta sottile e sempre più affilata. Sempre più Pochi su sempre più Molti[16], la statica della società-Eiffel su cui si basa la geometria gerarchica contemporanea.

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Ma vediamo meglio il punto tre di questa impalcatura di promesse traballanti. Oggi siamo letteralmente annegati nell’informazione ma stiamo scoprendo che questa inflazione di informazione, disorienta e non fertilizza la conoscenza. La prima ragione di questa paradossale ricchezza sterile è che, con l’accesso individuale alle fonti del nuovo e potente informadotto che è Internet, ognuno di noi si trova in una bolla solipsistica. Il nostro “daily me” sarà anche tagliato a pennello su i nostri gusti e tendenze ma -nel tempo- tende a scavare un solco di reciproca incomunicabilità. Sia perché la fruizione dell’informazione è viepiù solitaria, sia perché temi e linguaggi specialistici formano il nostro vocabolario e la nostra mentalità senza alcun filtro, determinando menti “isola” che hanno forma, linguaggi ed aspettative sempre meno comuni, sia perché tendiamo a confermare i nostri interessi tanto da farli diventare “manie” e tendiamo a diventare del tutto alieni a quelli degli altri. Semplicemente, la modalità Internet + social network, tende a costituirci come mondi separati, il che, nell’epoca della comunicazione, è davvero un paradosso. Anche la complessità del mondo che in sé è un unico sistema, è rifratta in un caleidoscopio di frammenti di cui ognuno di noi conosce sempre più la parte ma ignora sempre di più il tutto. Emittenti e distributori generalisti dell’informazione, vanno perdendo ruolo e con essi, la nostra possibilità di capitare -per caso- nei pressi di una conoscenza inaspettata. Di contro, emittenti e distributori di informazione on line sono per molti versi, pre-decisi dall’architettura dei link quando non dall’offerta dei semimonopolisti della rete . Questi architetti invisibili decidono ex ante che in base al nostro profilo, ci potrebbe interessare questo o quello ma così facendo la vantata libera individualizzazione diventa invece massificazione poiché i profili previsti sono sempre di meno dell’effettiva varietà sociale, sono “medie” di comportamento, definizioni statistiche, incasellamento in un numero prefissato di cluster idealtipici. Cluster definiti poi in base a specifici interessi commerciali.  Questa continua riconferma narcisistica  ci sta modellando nel profondo e da qui discende sia la violenza verbale di alcune discussioni su i social che presto deragliano in due paralleli “tu non hai capito che … “, sia la base cognitiva sempre meno in comune sulla quale prospera l’egotismo narcisistico. Così come la scrittura modificò sensibilmente i modi di trasmettere l’informazione rispetto all’oralità e modificò la forma ed anche il contenuto del messaggio, la sua fruizione, la struttura stessa dell’apparato cognitivo che come tutte le componenti biologiche rinforza i sottosistemi più usati e fa decadere e disconnette parzialmente quelli meno usati (o usati molto saltuariamente), c’è da aspettarsi che i formati espressivi molto brevi, il primato dell’immagine, la sintesi grafica, la seduzione musicale, daranno il format prevalente di ogni possibile messaggio. Spesso, chi scrive sul computer, non calcola che il suo messaggio sarà letto su uno smartphone, magari camminando o in attesa di qualcos’altro.  Con ciò, un nuovo primato dell’emozione, dell’attention getting ed una progressiva decadenza della riflessione e con essa della razionalità[17]. Inoltre, si sta presentando anche lo spettro della perdita storica di informazione affidata a supporti che poi diventano obsoleti, a siti che poi verranno cancellati, a bisogni di “memoria” semplicemente impossibili da fornire stante una produzione ormai quantitativamente fuori controllo. Nel decidere cosa trattenere e cosa lasciar evaporare nell’entropia, si fisserà una certa memoria del tempo ma a chi deleghiamo questo compito storico?

Infine, il pur limitatamente positivo proliferare delle fonti informative sta portando le élite a introdurre la pericolosa nozione di “falsa verità” che se non prendesse le forme di un ostracismo repressivo della spontaneità informativa, sarebbe semplicemente da sbeffeggiare ricordando che i più ampi cultori del pensiero umano -i filosofi- si interorgano senza soluzione di continuità da più di due millenni sul sfuggente concetto di “verità”, del “fatto” e della sua “interpretazione”. Che ora sia la banda Zuckerberg a dirci quale sia la verità, ci pare segno dei tempi, brutti tempi, tempi in cui sbeffeggiare non basta più[18].

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Tutto lo sviluppo info-digitale è figlio di una intuizione originaria di Norbert Wiener, il fondatore della nuova scienza cibernetica, da lui stesso definita:  scienza del controllo. Ma lo stesso Weiner, passò il resto della sua vita ad ammonire che per usare e non esser usati dalla scienza del controllo, occorreva averne il controllo[19]. Questo controllo, che siano capitali, tasse, flussi di merci o di persone, distribuzione dei redditi, monopoli commerciali, programmi di ricerca, conseguenze ambientali del nostro agire, decisioni da prendere su i conflitti e la pace, rilievi etico – sociali – culturali e politici dell’innovazione tecno-scientifica, censure, non è nelle mani di nessuno che faccia l’interesse generale. Tutto ciò è sempre e solo nella mano invisibile del mercato ed in quelle visibilissime della Prima potenza geopolitica planetaria.

Per controllare questo che non è che l’ennesimo fenomeno di cambiamento profondo delle forme della nostra vita associata (oltre quello geopolitico, quello demografico, quello ambientale, quello distributivo), mancano due cose: la sufficiente conoscenza e l’istituzione della volontà generale che lo governi secondo il più ampio e responsabile interesse.

Il deficit di conoscenza che si rivela qui come altrove è proprio relativo alla complessità intrinseca di questo come di altri fenomeni. Ho letto analisi di economisti, tecnologi, sociologi, filosofi prima di scrivere questo articolo ma rimane sempre insoddisfatto il senso di completezza, di completa definizione della cosa. Come lavorano tutti questi fatti messi assieme nel reale? L’informazione non produce conoscenza se non fertilizzando un intelletto già ben formato. Ed è proprio la coincidenza tra massima produzione e diffusione dell’informazione e minima strutturazione e capacità dell’intelletto contemporaneo di processarla, il dato di prima preoccupazione. Da cui consegue che un vero soggetto generale in grado di valutare il suo interesse non c’è. La formazione è sempre più spezzettata in sottodiscpline e specialismi, il dibattito pubblico è sempre ostaggio di opinionisti al servizio dello status quo, le forme stesse dell’interrelazione sociale date dalle nuove tecnologie portano a stereotipie, semplificazioni, riduzionismi, esaltazioni a priori e sfoghi di rabbia impotente, la politica oscilla tra ignoranza, visione tattica a breve termine e sudditanza nei confronti dell’ordinatore economico che è il primo agente di disordine. La domanda di benessere economico, in tempi difficili, si fa sempre più isterica e quelle sull’adeguatezza del nostro modo di pensare e delle strutture sociali che dovrebbero riflettere le nostre consapevoli intenzioni è accolta col sorriso e l’indulgenza che si riserva all’ingenuità dei fanciulli.

Controllare la scienza del controllo è l’ennesimo punto in agenda per la democrazia che non c’è.

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[1] N. Wiener, Introduzione alla cibernetica, Bollati Boringhieri, Torino, 1966-2001, pp. 203.204

[2] BANG = Bit, Atomi, Neuroni, Geni, messi in interrelazione, genereranno il nuovo macro-sistema.

[3] S. Jay Gould, La vita meravigliosa, Feltrinelli, Milano, 2008

[4] Personaggio inquietante. Ray Kurzweil, autore di La singolarità è vicina (Maggioli PDE, 2013), ha profetato che la “legge dei ritorni esponenziali” (qui)  ci porterebbe alla nascita di macchine autocoscienti entro il 2050. Kurzweil che di primo acchito può sembrare un tipo eccentrico, ha lanciato la Singularity University in California con la partnership di Google, NASA, Nokia, LinkedIn ed altri ed è membro influente dell’Army Science Board  (qui) snodo di incontro tra gli alti vertici dell’esercito americano e la più avanzata parte della comunità scientifica. L’impasto di genetica, nanotecnologie e robot lo fa l’esponente di punta del trans-umanesimo.

[5] L’atteggiamento verso la rivoluzione info-tecnica, è stato definito non senza malizia epistemica come tecno-entusiasta o tecno-scettico. Non si vede la necessità di apporre categorie dell’emotività al giudizio su i fatti. I fatti sono l’insieme degli aspetti coinvolti e componenti la rivoluzione info-tecnica, semmai le analisi si dividono tra ingenui e critici, tra coloro che accettano la narrazione del migliore dei mondi possibili e coloro che assumo un atteggiamento più critico, leggendo non solo gli aspetti migliori ma anche quelli peggiori e derivandone indicazioni per altri mondi possibili oltre a quello sfornato dalle dinamiche del mercato. Qui Staglianò intervista Eughenji Morozov (secondo filmato della pagina) sull’argomento:

[6] Due professori del MIT, A.McAfee e E.Brynjolfsson, in Race Against Machine (2011), dimostrano che dal 2000 le curve dell’incremento della produttività e dell’occupazione, cominciano a divergere. Classica ormai, la citazione del The Future of Employment: How Susceptible Are Jobs to Computerisation 2013, C.B. Frey e M. A. Osborne della Oxford University che dimostrerebbero fondate preoccupazioni per poco meno del 50% dei mestieri, da qui a venti anni. Nel 2013 l’Economist, in Rise of the Software Machines  (qui) decreta la prossima fine di tutte le imprese  prosperate sulla tendenza all’outsourcing. Federal Reserve Economic Data, certifica che negli USA, dal 1987, si producono l’85% dei beni in più con due terzi della forza lavoro di allora.  UNCTAD-ONU, prevede impatti molto negativi sulla forza lavoro dei paesi emergenti (qui). Anche se con stime meno tragiche, il tema di come “gestire” la quarta rivoluzione industriale di cui si ammette sia l’impatto occupazione, sia l’aggravio delle diseguaglianze, è stato al centro dell’annuale Forum di Davos 2017.  Link commentati attraverso cui approdare ai rapporti Bank of America e Merrill Lynch (qui) e McKinsey (qui) . Economisti quali Jeffrey Sachs e L. Kotikoff, T. Cowen e Larry Summers (ex rettore di Harvard, tra le altre cose) ma anche P. Krugman, R. Reich e N. Roubini, oltre a R. Prodi, hanno sviluppato punti interrogativi sull’argomento.

[7] Idea promossa da R. B. Freeman economista di Harvard.

[8] I rapporti tra impiegati e capitalizzazione di borsa di queste imprese è ridicolo, specie se raffrontato con quello delle industrie o dei servizi “tradizionali”.

[9] Cina, Corea del Sud, Russia, Iran, Bielorussia, Arabia Saudita hanno già un loro Internet nazionale o pesanti firewall che ne limitano il libero accesso. L’India ha mostrato crescente nervosismo per certe invadenze esterne, l’hackeraggio e la pirateria internazionale ma anche lo spionaggio dati, privato o industriale, preoccupano più o meno tutti. La Germania, è capofila dell’idea di creare in Internet europeo. Poiché l’infosfera tende a coincidere con l’anglosfera è ovvio che in un processo di riconfigurazione multipolare del mondo, anche Internet “rete delle reti” diventerà un po’ meno la prima cosa ed un po’ più la seconda. Il BRICS Cable, 34.000 km di cavo sottomarino con portanza di 12,8 Tbit/s, prefigura la volontà di creare proprie reti da parte del mondo emergente.

[10] E’ il classico aggiustamento della mano invisibile che riguarda sempre gli altri. Gli stati spendano un po’ di più in welfare, le aziende acquirenti di robot vengano un po’ tassate, i lavoratori accettino un po’ meno ed un po’ di precarietà creativa in più, così noi possiamo continuare a prosperare.

[11] http://formiche.net/2016/01/30/internet-informazione-e-potere-la-versione-di-morozov/

[12] La datazione del cuore esplosivo della Rivoluzione industriale, ha subito varie oscillazioni. Oggi si ritiene che il più decisivo impatto (ciò che segna il tempo in cui accade effettivamente una “rivoluzione”) sia da collocare tra il 1850 ed il 1870 e non prima.

[13] C’è anche chi vede solo opportunità come Michael Nielsen, (Le nuove vie della scoperta scientifica, Einaudi, Torino, 2012) per il quale “La conoscenza scientifica non è piú il frutto dell’avventura, eroica e solitaria, del grande uomo e dell’intelligenza singolare, o delle diverse convergenze fra industria, apparati militari, capitale finanziario e istituti di ricerca. La cultura scientifica contemporanea ha incorporato ormai come parte integrante degli stessi oggetti, obiettivi e protocolli della ricerca, fin dall’atto della loro primitiva elaborazione, il criterio della necessaria, e il piú possibile ampia, condivisione di teorie, scoperte, modelli e paradigmi”. Ma se la fase di ricerca è sharing, lo è anche quella dell’applicazione brevettata?

[14] Ne accenna J.C. De Martin nell’introduzione a L. Floridi, La rivoluzione dell’informazione, Codice edizioni, Torino, 2015 e credo lo riaffermi nel suo Università futura, Codice edizioni, Torino, 2017. “Credo” perché non l’ho ancora letto ma ne ho desunto tesi da vari articoli.

[15] http://www.businessinsider.com/top-100-websites-web-traffic-2017-3?IR=T

[16]Come ripete Jeremy Rifkin, la sharing economy è speculativa almeno quanto l’economia classica” riporta in una intervista a Wired, Andrew Keen autore di “Internet non è la risposta” Egea, 2015 (qui). In verità ha una struttura più simile a quella dell’economia finanziaria.

[17] http://espresso.repubblica.it/visioni/cultura/2017/03/02/news/la-liberta-e-fuori-dalla-bolla-il-consumo-di-informazione-non-puo-viaggiare-solo-sul-web-1.296424?ref=twhe&twitter_card=20170302125511

[18] Clamoroso il caso di censura operato dagli algoritmi di Facebook della famosa foto di Nick Ut/1972 (premio Pulitzer) dei bambini vietnamiti piangenti in fuga da un bombardamento al napalm perché compare una bambini nuda. (Qui)

[19] L’anello controllato – controllore prefigura una tipica situazione quale descritta nella cibernetica di second’ordine, si veda H. von Foerster, Sistemi che osservano, Astrolabio, Firenze, 1987

Informazioni su pierluigi fagan

64 anni, sposato con: http://artforhousewives.wordpress.com/, due figli, un gatto. Professionista ed imprenditore per 23 anni. Negli ultimi venti e più anni ritirato a "confuciana vita di studio", svolge attività di ricerca multi-inter-transdisciplinare da indipendente. Il tema del blog è la complessità, nella sua accezione più ampia: sociale, economica, politica e geopolitica, culturale e filosofica. Nel 2017 ha pubblicato il libro: Verso un mondo multipolare, Fazi editore. Ogni tanto commenta notizie di politica internazionale su i principali media oltre ad esser ripubblicato su diverse testate on line. Fa parte dello staff che organizza l'annuale Festival della Complessità e pubblica su specifiche riviste di sistemica. Tiene regolarmente conferenze su i suoi temi di studio, in particolare sull'argomento "Mondo e complessità". Nel 2021 è uscito un suo contributo nel libro collettivo "Dopo il neoliberalismo. Indagine collettiva sul futuro" a cura di Carlo Formenti, Meltemi Editore. A seguire: "Europa al bivio. Tra radici e sfide" a cura di Vincenzo Costa, Marcianum press, 2024 Venezia e "L'era multipolare: competizione o cooperazione" a cura di Gabriele Germani, La Città del Sole, 2024, Napoli.
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9 risposte a CHI CONTROLLA I CONTROLLORI ?

  1. Bruno Carlo Martina ha detto:

    “Ho letto analisi di economisti, tecnologi, sociologi, filosofi prima di scrivere questo articolo ma rimane sempre insoddisfatto il senso di completezza, di completa definizione della cosa.”
    Malgrado ciò grazie per fornire elementi che concorrono a motivare inquietudini diffuse.

  2. alfio ha detto:

    rimane sicuramente un insoddisfatto senso di completezza perche’ e’ nella natura dell’ oggetto essere in un certo senso indeterminato e polivalente per cui una definizione precisa risulterebbe comunque
    incompleta e forse riduttiva, questo ovviamente non deve pero’ essere un motivo per continuare a
    cercare di capire seppur parzialmente determinati meccanismi che ormai avvolgono e condizionano la nostra esistenza.

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  6. Nino Salamone ha detto:

    Mah… il tema è terribilmente complicato. Il problema della digitalizzazione – al quale ho dedicato una monografia che uscirà questo mese presso Mimesis (Nino Salamone: “La carne e il silicio”) – è appunto un problema perché s’iscrive in un quadro socio-economico più ampio caratterizzato dal vanificarsi della Grande Promessa che ha accompagnato lo sviluppo capitalistico almeno dal secondo Ottocento: squilibri successivi, sì, ma una crescita a volte lenta e però sostanzialmente continua del benessere economico individuale e familiare per un numero sempre più vasto di abitatori dell’Occidente, come testimoniano i “miracoli economici” del secondo dopoguerra (Germania, Italia, Giappone, …).
    Ho vissuto gli anni Cinquanta da ragazzo, e se mi volto indietro devo ammettere (senza bisogno di baloccarmi con le cifre) che il tenore di vita di cui gode una normale famiglia in questo 21esimo secolo era, allora, inimmaginabile; basti pensare al possesso generalizzato di marchingegni elettronici personali e familiari, alla facilità di spostamento (oltre un miliardo di turisti all’anno…), alla dilagante obesità anche infantile, alle pretese subito soddisfatte di qualsiasi ragazzino del ceto medio e magari anche piuttosto basso, alla rapida obsolescenza di qualsiasi prodotto (spesso sostituito a tamburo battente), alla frenetica attività edilizia (Milano è, per me, irriconoscibile), alle folle certo non denutrite che intasano qualsiasi evento (dalle settimane della moda alle “notti bianche”)…, senza contare la generale facilitazione della vita quotidiana, per cui basta un “clic” per comunicare quando vuoi con chi vuoi e basta la presenza a scuola per ottenere diplomi liceali con una preparazione di molto inferiore a quella di un licenziato di terza media di sessant’anni fa… Potrei continuare, ma corro il rischio di apparire un nostalgico e reazionario borghese antidemocratico e classista (chissà, forse in fondo lo sono… ma non è questo il punto).
    Il punto è che almeno da almeno un decennio il giocattolo si è rotto e il paradigma delle aspettative crescenti si è frantumato sotto il peso di una crisi economica certo non paragonabile a quella del ’29, ma tuttavia in grado di incidere nel profondo sul tessuto sociale e culturale dell’Occidente. Se il contadino del 1957 poteva ragionevolmente aspirare alla retribuzione sicura e fissa dell’operaio (c’era pure la scala mobile addirittura trimestrale…), per il figlio al diploma e al posto di ragioniere, per il nipote ad una laurea e ad uno status adeguato, oggi la prospettiva è in qualche modo invertita: il welfare state traballa, la figliolanza resta a casa e va, se non mantenuta, almeno supportata, titoli di studio e curriculum valgono poco o nulla (meglio il calcetto, dice Poletti), la prospettiva di molti giovani è quella di dover consumare le sostanze ereditate dai padri e/o da zia Caterina (lo smartphone non si tocca) piuttosto che accumulare nuova ricchezza. Da questo punto di vista il problema non è tanto la “crisi” quanto la stagnazione secolare entro la quale il sistema sembra avvitarsi (una crescita del PIL dell’1,5% sembra un miracolo di Dio…). Qualcosa che ricorda, guarda caso, la vicenda dall’Unione Sovietica fra gli anni ’70 e ’80. Sarà pur stata illusione monetaria, ma in Occidente l’iperinflazione degli stessi anni ’70 alimentava comunque le aspettative crescenti, mentre la tendenziale deflazione attuale alimenta piuttosto disillusione, mugugno, scetticismo e, ovvio, il distacco dalla politica che si trasforma spesso in antipolitica tout court (dicono niente il successo di Grillo e quello di Trump?). In questo quadro informatica e robotica non possono che essere percepiti come una minaccia (e in parte certamente lo sono), palesandosi al fondo una domanda che un economista classico formulerebbe così: vale ancora la Legge di Say? Ovvero: l’offerta è ancora in grado di produrre nuova domanda?
    Già, perché da questo dipendono le sorti del sistema, ma i controllori, che sono anche i decisori, non hanno una risposta. Per cui, essendo privi di una strategia si limitano a provvedimenti-tampone (e.g. quantitative easing) che consentono al sistema di galleggiare sulle sabbie mobili della stagnazione in attesa… di che cosa? Difficile a dirsi, anche perché, come cerco di dimostrare nella monografia citata all’inizio, qualsiasi cosa si pensi l’evoluzione della tecnologia non può essere fermata né indirizzata in termini contrastanti rispetto alla logica dell’impresa capitalistica. La domanda diviene allora (classicamente, alla Lenin, che fare?).
    Nino Salamone

    • pierluigi fagan ha detto:

      L’articolo voleva illuminare (mah “illuminare” mi pare esagerato, diciamo “rilevare”) un fenomeno, tra i tanti che contraddistinguono la nostra era che io definisco “complessa”. F. Hayek sosteneva che l’economia è un fatto troppo complesso per essere manipolata nei suoi funzionamenti sistemici da mani e menti umane, molto meglio lasciarla regolare dagli impersonali feedback della mano invisibile. Oggi, ritengo, si debba superare questo divieto non sostenendo che effettivamente si sia in grado di gestire fenomeni complessi come quello economico ma per il dovere di prevenire gli effetti delle retroazioni economiche, quelle occupazionali e quindi sociali del caso in questione, come quelle ambientali, come quelle geopolitiche. L’auspicio è quello si possa convergere verso uno sforzo di diffusione ed intensione democratica. E’ un principio: una società nel XIX secolo che continua a funzionare con la fede in meccanismi quali agivano nel XIX secolo, va incontro a molteplici catastrofi (nel senso di Thom). Il principio emerge da una analisi: continuiamo a ragionare con sistemi di pensiero prodotti in epoche la cui struttura era profondamente diversa da quella attuale. Questo non vuol dire affatto rifiutare il mercato o la tecnologia o l’innovazione o lo scambio o quant’altro ma porre questi sistemi ad oggetto di una riflessione democratica su i loro scopi, i loro metodi, i loro effetti, quelli desiderati e quelli indesiderati, quelli diretti e quelli indiretti. Hayek dovrebbe essere un punto di partenza per dire non “non toccare il meccanismo complesso” ma “impara a toccare il meccanismo complesso, e fai in fretta perché se prima produceva più positivo di negativo, oggi si avvia all’inversione del bilancio”. Felicitazione e auguri per il libro.

  7. Nino Salamone ha detto:

    Toccare… dove? E come? Ecco un brevissimo, e non argomentato, bilancio storico.
    Dopo il piccolo miracolo degli anni 1955-1965 l’Unione Sovietica rallentò, rallentò… e infine si bloccò, anche sotto la pressione di spese militari al di là della sua portata. Gorbaciov toccò, senza sapere cosa toccava (e quanto al come, stendiamo un velo pietoso). Il risultato lo conosciamo. Veniamo all’Occidente. l’800 fu il secolo della ferrovia (sulla ferrovia vennero costruiti gli Stati Uniti, e sterminati bisonti e nativi). Il ‘900 fu il secolo dell’automobile (e sull’automobile venne costruita l’odierno impero transatlantico). Per ogni attività che moriva tre o quattro ne sorgevano: morivano camini e spazzacamini, ma carbone e petrolio aprivano al lavoro intere praterie sulle quali pascolare. Sono stati definiti, non a caso, settori trainanti.
    Il 2000 è il secolo dell’informatica, ma qui non siamo di fronte ad un settore trainante. La maggior parte della popolazione è occupata nei servizi, ma è proprio sui servizi (oltre che sulla produzione) che informatica e robotica mordono sempre di più, e le prospettive non appaiono felici. Non siamo al blocco ma alla stagnazione sì, per cui il reddito di cittadinanza (dove trovare le risorse?) non sembra più una demagogica boutade ma, sempre più, una necessità, perché il sistema ha un disperato bisogno di consumatori improduttivi visto che alla produzione materiale e immateriale penserà in buona parte l’intelligenza artificiale.
    La domanda è: avrà anche l’Occidente il suo Gorbaciov o si può sperare in qualcosa di meglio? E su quali basi? E’ possibile immaginare un grimaldello che sblocchi il sistema? E con quali prospettive, visto che la terra è tonda e finita e ha risorse limitate (anche il termini fisici) mentre noi ci avviamo ai nove miliardi entro il 2050?
    Domande da far tremare i polsi, troppo grosse per un blog. Organizza un piccolo convegno con persone interessate e facciamo due chiacchere, se ne hai tempo e voglia (io avrei la voglia, ma mi manca il tempo).
    Un cordiale saluto
    Nino Salamone

    • pierluigi fagan ha detto:

      Ci penso. Io ho la voglia (senz’altro di discutere, meno di organizzare cose) ed anche il tempo, ma solo dal prossimo autunno. Comunque il tema non deperisce, quindi userò l’estate per covare l’idea. Cordialità e te.

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