L’ADATTAMENTO AL DIVENIRE. Riflessioni su Darwin.

La teoria di Darwin è detta, impropriamente, Teoria dell’evoluzione. O meglio, potrebbe mantenersi questo termine, se si convenisse sulla sua precisazione. Esso infatti ha due sensi: a) teoria del cambiamento; b) teoria del miglioramento. I due sensi sono in parte sovrapponibili ed in parte no, nel senso che non sempre il cambiamento, corrisponde ad un miglioramento. Occorrerebbe poi aggiungere che Darwin voleva mettere in luce un aspetto, ai sui tempi non considerato (il cambiamento delle specie, la nascita di nuove) ma questo aspetto non è una legge assoluta del processo naturale, vi sono specie che rimangono a lungo o a lunghissimo, praticamente inalterate.

First-edition-Charles-DarwinIl cuore della teoria del cambiamento delle specie, Darwin, lo trova, come recita l’intero titolo della sua opera più celebre (Origine delle specie, 1859) nella lotta per rimanere in vita e riprodursi stante l’operare di un meccanismo di potatura costante che egli definisce “selezione naturale”. Questa lotta che prefigura uno scenario per il quale c’è del troppo nel poco (troppe specie e individui in poco spazio, troppa domanda di opportunità in regime di scarsità delle possibilità) è vinta in modo impersonale cioè non perché una specie o individuo, volontariamente, fa o non fa qualcosa di idoneo (lamarckismo) ma perché la riproduzione sessuale assortisce le qualità, proponendo innovazioni idonee a vincere quella lotta mentre in altri casi o non propone o propone innovazioni inidonee. Si è poi, successivamente, riempito lo spazio delle possibilità con una terza ipotesi che è l’innovazione neutra, né particolarmente idonea, né inidonea (Motoo Kimura).

La trasformazione del significato della teoria e dell’utilizzo dell’etichetta “evoluzione”, venne operata successivamente partendo dal  concetto di evoluzione come miglioramento, formulato da H.Spencer prima della pubblicazione dell’Origine, (poiché compare nell’opera sul Progresso che è del 1857) e subito dopo  nei First Principles del 1862. La fusione per identità di cambiamento = evoluzione = miglioramento venne operata collettivamente dalla cultura anglosassone che recepì l’opera, successivamente. Non si può dire sia stata una violenza ermeneutica scandalosa, elementi sintonici con questa interpretazione si trovano esplicitamente, a volte, nell’opera di Darwin. lezioni-sulla-filosofia-della-storia-197x300Altre volte essi sono impliciti e del resto Darwin stesso è anglosassone e nota è l’influenza che nella sua mentalità ebbero le teorie di Malthus[i] e più in generale lo spirito dei tempi. Spirito dei tempi, tempi di cambiamenti vissuti come positivi che per altro, non era una caratteristica precipua dei soli anglosassoni stante che il concetto di progresso lo si trova anche in Fichte, in generale nel romanticismo, nella Fenomenologia dello Spirito e nelle concezioni della storia di Hegel, poi trasferitosi anche in Marx e senz’altro nel positivismo sin dalla sua fondazione in Auguste Comte. Se in ambito anglosassone è coevo alle imponenti e telluriche trasformazioni operate dalla Rivoluzione industriale, nel continente, era coevo a ciò che era scaturito dalla detonazione della Rivoluzione francese che tentava lo sblocco del fissismo clerical-aristocratico continentale in direzioni più simili a ciò che accadeva nel Regno Unito, faro del cambiamento di quell’epoca.

changePerò che “il cambiamento venga per il meglio” è una umana aspettativa, non una legge di natura. In linea generale, nel pensiero occidentale ma forse ancor più in generale, in quello umano, il cambiamento è altresì ansiogeno. Esso abbassa le nostre capacità di previsione ed allarma tutto il nostro essere perché impone un “dover cambiare” a tutto questo nostro essere[ii]. Tutto il nostro essere significa sia l’essere umano interno, mentalità, atteggiamento, credenze, abitudini , sia quello esterno, società, relazioni, istituzioni, pratiche, cultura. In senso ancorpiù psico-esistenziale, esso ci ricorda una sorta di dipendenza dalle condizioni esterne che non ci fa affatto piacere ricordare.

A sua volta, il cambiamento, proviene da una nostra percezione allarmata di un fatto che ne è causa, il divenire. La rimozione o tentato assoggettamento del divenire è la costante della storia del nostro pensare. Col pensiero abbiamo sistematicamente cercato di addomesticare questo inquietante divenire, dandogli cause certe, ipotizzando garanzie, negandolo, normalizzandolo. Le strategie si sono sviluppate lungo la linea religiosa con la garanzia di un dio, amico o con cui si poteva venire a patti, un dio causa diretta o indiretta del divenire delle cose e spesso addirittura dispensatore di provvidenza; lungo la linea filosofica con la recisa negazione razionale sia del divenire sia del molteplice quale operarono (in maniera comunque diversa) copc5n8i due dioscuri della tradizione greca classica Platone ed Aristotele; lungo la linea a metà tra religione e proto-filosofia (una categoria che invero non ha nome e che si mischia con gli archetipi e la mitologia) ad esempio con la concezione circolare del tempo che offriva la prevedibilità dell’eterno ritorno o svalutava il divenire come corruzione e decadimento, perdita dell’età dell’oro; lungo la linea razional-pragmatica della scienza e della tecnica, prima coll’idea stessa di legge scientifica e di dominazione dell’incerto col certo, dell’impreciso col preciso, dell’imprevedibile col prevedibile cioè con la proiezione di un relativo in assoluto, di un particolare nel generale (induzione), dell’eterogeneo col calcolabile, poi con l’esito pratico-manipolatorio ovvero con la  possibilità pratica di sviluppare tecniche di dominio del divenire a tal punto efficaci da diventare esse stesse produttrici di divenire e cambiamento. Ancora non abbiamo ben capito che atteggiamento avere nei confronti di questo cambiamento che noi stessi produciamo (rimane lo sconcerto psichico che il cambiamento produce come allarme) ma ci sentiamo comunque un po’ più padroni del divenire dal momento che questo non è più solo nostro padrone ma anche nostro dipendente.

La legge del progresso è uno di questi tentativi di normalizzare e rendere prevedibile il divenire trasferendo il concetto di legge immanente dal metodo scientifico a gli oggetti/processi non scientifici come la storia umana[iii]. Ci sarà divenire e ci sarà cambiamento ma è tutto per il meglio, tutto si muove e non guidiamo noi il veicolo in movimento ma rilassiamoci perché sappiamo che il veicolo va in un posto migliore… . Questa forma di rassicurazione psicologica che ci somministriamo per tenere sotto controllo l’ansia dell’incerto che il divenire ci induce tramite la pressione al cambiamento, oltre ad essere problematica perché ci offre una certezza irreale che copre una incertezza reale lo è anche perché ci de-responsabilizza. Sarebbe cioè assai positivo che noi sia avesse una spinta al progresso, al miglioramento delle nostre condizioni interne, psichiche, affettive, fisiche,  così come quelle esterne cioè sociali, culturali, geo-storico-politiche, economiche ma o negando il divenire o normalizzandolo dentro una teoria metafisica o esaltandolo come un andare avanti indifferenziato figlio delle nostre nuove capacità di dominio del mondo o razionalizzandolo come processo teleologico e finalizzato comunque ad un bene pre-garantito, noi occultiamo  la sua essenza, la sua costante presenza e il problema che esso realmente ci pone: cambiare consapevolmente per adattarci  costantemente alla sua metrica.

L’ottimismo progressivo del XIX° secolo, è stato poi pesantemente falsificato e nel mondo delle idee (Schopenauer, Kierkegaard, Nietzsche, Spengler, esistenzialismo, francofortesi, strutturalisti, Lowith, Popper ed altri) ed in quello dei fatti. E’ da Lyotard (Il postmoderno spiegato ai bambini, Feltrinelli, Milano, 1987) che traiamo l’elenco per cui: Aushwitz copcr5avrebbe falsificato la razionalità del reale[iv]; le varie rivolte per la libertà nei paesi socialisti avrebbero falsificato l’identità tra partito comunista ed aspirazioni del proletariato;  le crisi economiche del l’’11 e del ’29 avrebbero falsificato la fede irrazionale del liberalismo nel libero mercato delle merci, quelle del ’74 e ’79 del keynesismo nel mercato coadiuvato dallo stato, quella del 2008-oggi quella del liberismo globalizzante nel libero mercato dei capitali. Altri hanno avuto un approccio più discriminante, riconoscendo qualche effettivo progresso accompagnato da qualche altro regresso e comunque dalla nascita di nuovi problemi che proprio il progresso parziale ha portato (ad esempio la questione ecologica portata da quella dello sviluppo). Altri ancora, hanno ripiegato nell’ottimismo della volontà, nel progresso come utopia orientativa (Bloch, francofortesi).

Più che altro, sembra esserci un evidente parallelo tra ciò che si vive e ciò che si pensa. L’Europa dello slancio vitale, dell’affermazione della volontà di potenza del XIX° secolo, opera una totalizzazione concettuale del progresso. L’entrata in crisi dei sistemi europei, porta nichilismo, pessimismo, disincanto, relativizzazione se non abiura altrettanto totalizzante con addirittura cenni contemporanei di nostalgie pre moderne e rammarico per la perdita dei sistemi forti ad esempio della fede (abbiamo fatto male a festeggiare la morte di Dio?). Il trasferimento del centro attivo del sistema occidentale negli USA portò ad un breve-storia-progressotrasferimento della concezione progressista nella “nuova frontiera”, nella fede nello sviluppo e progresso cumulativo tecno-scientifico, nella teologia del mercato, nel successo del merito, creando le convinzioni dell’ eccezionalismo e del destino manifesto.

Insomma, quella del progresso – regresso, più che una legge storica o di natura, sembra una semplice legge dell’umore umano, la ciclotimia. Altresì, il concetto, come quasi tutti i concetti, nella foga di sintetizzare e generalizzare paga la sua utilità con l’approssimazione di vasti insieme non debitamente analizzati[v]. Su qualche cosa c’è stato progresso, talvolta c’è stato progresso, un progresso qua spesso è un regresso là, guadagni ottenuti da un progresso diventano costi di un successivo potenziale o attuale regresso, non esistono leggi del progresso, il progresso non è garantito, il progresso non è un irreversibile, il progresso dipende anche dal caso, è contingente, è dovuto a fattori esterni la nostra volontà o capacità, dovremmo assumerlo come nostra volontà, misurarlo meglio[vi], controllarne lo statuto e la complessità, l’impatto ed il costo. Soprattutto capire a cosa vada riferito e quale sia il suo intrinseco significato.

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L’eredità di Darwin ha speciato due famiglie interpretative. Quella canonica è giunta ad una sintesi successiva, utilizzando i guadagni della scienza, in particolare la scoperta del DNA (che, ignoto a Darwin, è da una parte ciò che conferma parte delle sue intuizioni, dall’altra il fatto nuovo che offrì il perno ideale su cui far ruotare tutta la teoria) del gene, lo sviluppo successivo della biologia molecolare e della biotecnologia. Neo-darwinisti ed 9788804636694-il-gene-egoistaultra-darwinisti, in quanto scienziati duri, hanno sequestrato il pensiero di Darwin, rendendolo un sistema perfetto basato su, in primo piano la riproduzione con variazione genetica, in secondo piano (ma connesso col primo) un mondo di feroce competizione egoista tra occasionali portatori di patrimonio genetico, spesso ridotto alla logica di un gene – una caratteristica, un genotipo  – un fenotipo, nella più classica relazione determinista dal micro, il macro. A loro si oppone una variegata pattuglia che assomma vari campi d’indagine, il cui comun denominatore è teso ad allargare l’interpretazione. Deterministi monisti vs indeterministi pluralisti, questo il parterre di gioco. I primi, si connotano per l’ostentato riduzionismo per il quale non esistono sistemi organici o sistemi individuali o sistemi di popolazioni o sistemi di specie o sistemi ambientali ma solo geni. Addirittura, come segnalato, hanno per lungo tempo (molti ancor oggi) coltivato l’idea che ogni gene svolgesse la sua propria funzione fenotipica e il genoma non fosse un intero maggiore delle parti ma la sua semplice somma. Oggi, si stanno scoprendo geni della regolazione generale e geni che non producono direttamente testi ma regole testuali  (geni hox la cui riproduzioni con modificazione, se efficiente, produce novità eclatanti, i famosi “salti” di cui poi parleremo) e la faccenda sembra contraddirli ma i paradigmi quali quelli di R.Dawkins, J. Maynard Smith, D. Dennett, S. Pinker & Co sono saldamente piantati nella tradizione e del resto, l’intera industria civile e militare che finanzia le costose ricerche di sviluppo della biologia molecolare, debbono credere sia così. Debbono credere nell’assunto che conoscendo i mattoncini Lego fondamentali si potrà poi ricostruire un mondo in cui chi sa come si fa, vincerà tutte le guerre, farà un sacco di soldi e diventerà l’orologiaio non più cieco che regola tutti i meccanismi a proprio volere. Altresì, dall’evoluzionismo sociale di Spencer alla sociobiologia di William Hamilton ed il primo E. O. Wilson (poi convertitosi), buona parte della cultura anglosassone ha sempre più marcatamente trasformato l’aperta teoria di Darwin in una legge chiusa, una intuizione liberatrice i concetti di divenire e cambiamento in una intelligenza chiusa fondata sulla lotta dei troppi per lo scarso.

copcrt6Del resto, la preoccupazione stessa di Darwin per lo statuto della sua intuizione, è testimoniata dai famosi Taccuini di cui ora abbiamo, sia le versione taccuini naturalistici (Rosso, B, E – Taccuini, Laterza, Roma-Bari, 2008) sia quella dei taccuini metafisici e morali (M,N et varii – Taccuini filosofici, UTET, Torino, 2010). Com’è noto, passano più di venti anni tra l’elaborazione del primo scheletro della teoria (1838) e la pubblicazione dell’Origine (1859). Darwin sa senz’altro che un certo versante filosofico – teologico rigetterà la sua intuizione, che almeno quello scientifico gli dia credito. Ma per averlo, Darwin deve abbassare l’alta indeterminazione della sua teoria, una indeterminazione oggettiva, data dalla complessità del meccanismo o sistema di cui lui ha intuito l’essenza. Non vi riesce del tutto ed infatti la lettura dell’Origine (che non è divertente essendo Darwin un gran pensatore ma non un gran scrittore) rivela sorprendentemente per chi vi approdi dal canone ultra-darwinista della divulgazione à la Dawkins&Co, un gran misto plurale di possibilità, ricordo in più di un caso, addirittura qualche indulgenza in odor di lamarckismo. Ma almeno in un caso, egli compie chiaramente una sorta di inversione metodologica (definizione di N. Eldredge che cura l’Introduzione del volume Laterza) laddove abiura i dati offerti dalla geologia (si ricordi che l’intera teoria dell’evoluzione è messa in moto dalla geologia che allarga il concetto di tempo e vi inietta il seme del cambiamento, del divenire) sull’esplosività dei cambiamenti e sposa la causa gradualista[vii]. Gould-2La questione verrà riproposta negli anni ’70 dai paleontologi S. Jay Gould e lo stesso N. Eldredge con la teoria degli equilibri punteggiati (1972), in cui il gradualismo darwiniano è contestato dall’idea che l’evoluzione proceda a salti dopo lunghi periodi di sostanziale stasi. Non solo, in questo nuovo paradigma, il gioco si gioca sia a livello genetico, sia a livello degli individui, sia a livello di popolazioni rispetto ai vari habitat. In realtà pare che l’idea del salto fosse già in Ernst Mayr (1954) sebbene ne parli addirittura H. Bergson nell’Evoluzione creatrice del 1907 attribuendola a Bateson padre (William padre di Gregory).

In verità, sembra una forzatura trovare “una” legge alla base di un fenomeno con così tante variabili interrelate, con un ruolo così decisivo dell’ambiente contenente specie, popolazioni ed individui ma anche individui come ambiente di organizzazione organica e come ambiente per l’espressione genica[viii]. Il tutto collimato a fasi di tempo di immensa durata. Anche perché, lo stesso Darwin, mostra più in generale un forte interesse per l’intero sistema della vita e non solo per i meccanismi speciativi. Il lungo e perdurante interesse per il passaggio dal vegetale e l’animale, quello che parte dal verme per arrivare all’uomo e forse anche quello precedente dall’inorganico all’organico (il corallo, “l’animale di pietra”). Darwin è affascinato dal poter trovare l’intelligenza del processo in un senso non intenzionale, né quello del disegno intelligente, né quello lamarckiano. Il cuore di questo meccanismo verrà trovato in una relazione tra la discendenza con modificazioni da una parte e il maggior o minor o nullo adattamento, dall’altra. Se la discendenza con modificazioni rompe il fissismo e trasforma la moltitudine vivente in un processo 9788807813504_quarta.jpg.448x698_q100_upscalecangiante, tale processo cieco, potenziale, sovrabbondante, verrà precisato e stabilizzato nell’essere, dal contesto che è la sede della contingenza. I più adatti non hanno alcun valore assoluto, sono adatti relativi ad un contesto e poiché anche questo cambia, non c’è fine nel processo. In ordine temporale, quello che viene prima è il cambiamento costante dell’ambiente, è per infilare un processo minore (il sistema della vita) in questo processo maggiore (l’ambiente) sempre cangiante, che la vita deve riprodursi con cambiamento, un cambiamento che come sappiamo, è oltretutto prodotto da quelli che chiamiamo “errori”, errori di trascrizione dei caratteri dai genitori a figlio. Se non ci fosse discendenza ma soprattutto se non ci fossero “errori” di trascrizione, se il processo fosse ingegnerizzato in modo perfetto e preciso, non ci sarebbe alcuna vita, in quanto non ci sarebbe nessun adattamento del processo della vita al processo dell’ambiente cangiante.  E’ sintomatico che la cosa più incredibile dopo l’esistenza del Tutto, cioè la Vita, faccia perno su un meccanismo che noi definiamo un “errore”, sintomatico della nostra difficoltà di comprensione della complessità e del divenire. Ed è altrettanto sintomatico che quello che ancora oggi ci affanniamo a disegnare come uno scheletrico ed ordinato, regolare, “albero della vita”, Darwin stesso, lo intendesse come un corallo, irregolare, discontinuo, multi-direzionale, non intenzionale, imprevedibile e senza finalità che non il suo essere. Tale sistema è decisamente complesso, essendo sostenuto da una rete di correlazioni tra organico ed inorganico, tra organismi e piante, tra organismi ed organismi, tra individui di una stessa specie, tra genomi dei vari individui e consegue quindi che i sistemi osservativi umani dovrebbero approcciarlo con lenti paleontologiche ma anche paleobiologiche, geostoriche e geologiche, bioevolutive e, nel caso umano, anche bioculturali. Quale odierna mente forgiata nell’ossessione specialistica del micro, avrebbe potuto o potrebbe oggi, abbracciare una sì macro porzione di spazio-tempo? Che lavoro farebbe oggi quel naturalista-umanista, generalista, che fu Charles Darwin? Le laboriose formichine intente da decenni a diramare la specificazione del particolare evolutivo, si domandano mai quale fosse lo statuto epistemico del padre della teoria che gli dà da vivere e come oggi è giudicato questo statuto dal rigido canone specialistico?

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Il misterioso Hallucigenia, animale del Cambriano rinvenuto fossile sia in Canada, sia in Cina.

Darwin si poneva davanti ad enormi porzioni di spazio-tempo e questa vasta e brulicante complessità gli dava l’idea che l’uomo è solo una variabile di moltissime altre, oggi, come abbiamo accennato qui, si ritorna a pensare che il Tutto ruoti intorno a noi, partendo sistematicamente da osservati microscopici, da tagli arbitrari dell’essere, da dotte ignoranze. C’è in Darwin una commovente simpatia animale, un amore caldo per tutti i viventi e perfino le piante, una empatia emotiva ed affettiva per ogni tipo di mente presupposto che ogni vivente ha una mente, ha emozioni, ha quel misto di intelligenza ed istinto che rimane in proporzioni alterne fino a noi, una bulimica curiosità e una grande meraviglia per la vita in sé. Se oggi fosse un nostro contatto facebook, lo vedremmo postare indefessamente filmini di cani con delfini, gatti che allevano pulcini, caprette amiche dei cavalli etc.

ct67Quella di Darwin è essa stessa una teoria corallo, una teoria della relazione e non del suo risultato, una teoria dell’adattamento e non dell’evoluzione. Nella nota N47, Darwin dice chiaramente “Nella mia teoria non c’è una tendenza assoluta al progresso”.  Sull’espressione “selezione naturale”, intesa come etichetta dell’alterno e contingente risultato della relazione adattativa, Darwin dice che “la uso più o meno come il geologo usa la parola Denudazione, considerandola l’agente che esprime il risultato di diverse azioni combinate”. Che da questa visione delle “diverse azioni combinate”, sia collassata in una cultura del calcolo algebrico poiché questo è il marcatore dell’impresa scientifica (numero, peso, misura) e questo è il marcatore di ciò che ci piace ritenere la “verità” avrebbe sconcertato Darwin il quale notava che “i grandi calcolatori” sono “persone di intelligenza molto limitata” (M99), “i matematici non sono profondi ragionatori “(M100) e questo anche perché, nel calcolo matematico “tutto è certo” (M100). Ce lo possiamo immaginare con gli occhi sgranati e la bocca aperta in un tour guidato nei laboratori dove oggi si sviluppa l’intelligenza artificiale e non per la meraviglia ma per l’assurdità dei presupposti dell’impresa. Questo “tutto è certo” fa la differenza. Nell’adattamento, il nocciolo della faccenda, è dato proprio dalla gestione dell’incertezza, dell’indeterminazione, della flessibilità alternativa e creativa del problem solving svolto da un sistema fatto di istinti che sono fossili d’intelligenza, così come le emozioni oltre che capacità di calcolo statistico, prefigurazione, esperienza e assunzione ragionata del rischio. La teoria dell’adattamento è oggetto di un principio di indeterminazione assurto a paradigma della conoscenza umana delle complessità generale, tanto più si preciserà un aspetto tanto più andranno sfocati gli altri. E se li si vuole abbracciare tutti o almeno i principali, bisogna accettare una certa indeterminazione, non si può comprendere (prendere assieme) un processo come fosse una cosa, un divenire come fosse un ente. Se vogliamo capire le cose grandi, dobbiamo sedare la nostra ansia di precisione.

Se questa è l’epistemologia darwiniana, quali sorprese troviamo sul piano più squisitamente filosofico? La mente è una secrezione del cervello altro che iperuranio delle Idee, dualismo madre di ogni successiva divaricazione da Cartesio 907kall’idealismo ed il cervello è modellato dalla storia dell’adattamento di tutta la vita al suo variabile contesto. Altresì, il dovere, l’imperativo categorico, è forgiato della storia adattativa alla socialità. L’utilitarismo, calcolo della ragione sull’aspettata felicità non è compatibile con una storia naturale della coscienza[ix], il senso morale è figlio degli istinti sociali poiché entrambi figliano dalla logica di comunità. Siamo cioè una sovrascrittura cumulata della storia dell’adattamento, sono stati i costumi sociali a plasmare la nostra dotazione biologica, siamo più verso Kropotkin[x] che verso il darwinismo sociale in zuppa maltusiana, siamo più verso i recenti studi sull’intelligenza sociale che verso il gene egoista. “…ecco qui il libro che contiene i fondamenti storico-naturali del nostro modo di vedere” scriverà Marx ad Engels appena un anno dopo la pubblicazione dell’Origine.

Quella di Darwin non è una teoria dell’evoluzione è una teoria dell’adattamento reciproco tra sistemi complessi entro un flusso temporale. Vi sono contesti e momenti in cui lo stile della vita è il contrasto, la lotta, altri in cui regna la pacifica convivenza. A volte il nemico è un’altra specie, a volte altre individui, altre volte le condizioni di contesto. Alcuni saranno nemici, altri amici, altri reciprocamente indifferenti.  Il clima e la geografia, divenienti anch’essi, propongono sempre nuovi quiz adattativi. Alle volte vince la strategia egoista, altre volte quella cooperativa. Tutti gli animali sociali hanno posto la comunità al vaglio selettivo, non il singolo individuo e ciò significa anche che il patrimonio genetico necessario all’utilità sociale ha un significato di qualità diverso da quello dell’individuo che ha scelto di fare i conti con la selezione da solo. La logica dei sistemi ci dice di un meccanismo multi-livello in cui la novità genetica deve esser, per prima, accettata dal sistema genomico nel suo complesso, questo dall’organismo che va a comporre, questo dal contesto sociale o ambientale che è l’ultimo scenario, quello decisivo, per tutti[xi]. Vincono stupide vongole bivalve come scimpanzé quasi umani, nudi vermi indifesi come tigri dai denti a sciabola, girasoli che si torcono per seguire il sole e licheni che preferiscono darwin1l’umida ombra. Il perdurare di cretini, pazzi e assennati, onesti e furbacchioni, altruisti ed egoisti, buoni e cattivi ci dice che c’è una ragione adattativa molto plurale e tollerante, a volte. La selezione naturale, a volte è di manica molto larga, altre volta più esigente ed a volte è sostituita dalla dea bendata. Sempre poi che non arrivi una estinzione di massa, imposta da qualche improvviso porsi di cause severe[xii].  E chi ha vinto oggi, può sempre perdere domani, enormi rettili di terra, di acqua e di aria, armati ed invincibili, lasciano il posto a piccoli mammiferi semiciechi da cui poi, un giorno, arriverà per riproduzione con modificazione adattativa o meno, chi cercherà di ricostruire tutta questa intricata storia cercando di trarne un senso.

Quello che ci troviamo noi, di senso, è di lasciar perdere in fretta il concetto di evoluzione e concentrarci su quello di adattamento[xiii]. Di inquadrare l’adattamento con il cambiamento, in una griglia di plurali processi non riducibili a legge. Di considerare le differenze, per quanto di grado e non di natura tra il mondo animale e quello umano, tra l’adattamento inintenzionale della modificazione genetica e quello intenzionale della volontà umana.  Tra i tempi lunghi concessi al primo e non al secondo.  Considerare che l’evoluzione culturale ha caratteri più lamarckiani che darwiniani. Insomma, The times they are a changin’ ed anche noi faremmo bene a darci una mossa.

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Le riflessioni sono state accompagnate dalla lettura de: H. Bergson, L’evoluzione creatrice, Rizzoli, Milano, 2012; G. Deleuze, Il bergsonismo ed altri saggi, Einaudi, Torino, 2001; C. Darwin, Taccuini filosofi, UTET, Torino, 2010; S. Jay Gould, La vita meravigliosa, Feltrinelli, 2007; e sulla scorta di varie letture su T. Pievani (di cui si trovano su Internet, interessanti conferenze) e molti altri

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[i]La costruzione completa di questa mentalità dovrebbe riferirsi all’insieme sistemico del pensiero degli anglosassoni. Già antropologicamente molto più propensi ad occuparsi di natura piuttosto che di società o di introspezione, propensione forgiata nella lunga durata della vita dei clan e delle tribù nord continentali e ribadita sia nella filosofia teologica della natura di Scoto Eriugena, sia nella wave francescana di Oxford, continua con Francesco Bacone (ma anticipazioni di spirito scientifico c’erano già in Ruggiero), la precoce fondazione della Royal Society, Newton etc. Parallelamente, questa antropologia, riflette se stessa in T. Hobbes la cui visione del tutti contro tutti non è una paranoia personale ma la precisa descrizione dello stato di natura dell’antica tradizione clanico-tribale degli angli e dei sassoni. Così, quando Locke prima, Smith poi, gli utilitaristi poi ancora, Ricardo e Malthus converranno nell’idea che il disordine del mondo, umano e di natura, si può virtuosamente dominare producendo e scambiandosi bene e valori attraverso il mercato che è la selezione naturale delle qualità di fitness sociale (in realtà creando il paradosso che tutti notiamo tra l’asocialità dei meccanismi di mercato ed il concetto naturale di società che per i clan barbari è sempre stato un modo alieno), tutto si compone a meraviglia e non solo nelle idee perché il feedback concreto che la società anglosassone riceve dalla messa in pratica di queste convinzioni (che per loro sono predisposizioni) è decisamente positivo ai tempi. Qualcosa di questa mentalità è riflesso anche in Darwin.

[ii] Prima impone un “dover capire” cosa sta succedendo, cosa cambia, come cambia, cosa significherà per noi questo cambiamento. Poi impone un adattamento. Il cambiamento è un portatore di disordine e tutta la nostra umana mente, si è evoluta per metter ordine, per registrare regolarità, similarità, continuità ovvero per non dover costantemente funzionare ai massimi regimi per allertarci da possibili minacce che provengono potenzialmente dalle novità, non certo dalle consuetudini.

[iii] La cosa ha del paradossale. Siamo felici di aver trovato il modo di trasferire i canoni di certezza che abbiamo imposto al mondo della materia e dell’energia impersonale (leggi di natura) al mondo dell’umano che non solo ha gradi comunque assai minori di prevedibilità rispetto alla natura ma è proprio l’ambito da cui scaturisce l’ansia dell’incerto. Cioè dal mondo umano, mondo della condizione umana, mondo incerto che provoca incertezza abbiamo inventato la legge di natura applicandola coattivamente nel mondo naturale almeno a ciò che prima facie sembrava potersi coartare al concetto di legge per poi trasferirla al mondo umano stesso assimilandolo così all’essenza del mondo di natura, cosa che neanche il tanto vituperato Hobbes aveva tentato. Come ben evidenza Bergson (Evoluzione creatrice, 1907), i due modi, il meccanismo determinista-riduzionista ed il finalismo metafisico o teologico sono due versioni della stessa pulsione psichica umana a coartare l’incerto e la contingenza aperta nel certo progressivo in via di certo compimento.

[iv] Più in generale, il pensiero occidentale e quello europeo nello specifico, sembrano non aver fatto ancora bene i conti con la faccenda del doppio conflitto mondiale del secolo scorso. Questo, nel commento storico-filosofico è considerato disdicevole, non ancora scandaloso. Lo scandalo, è riservato all’Olocausto ovvero al dispositivo che dovrebbe aver fatto 15 milioni di morti (nessun ferito e trascurabile distruzione materiale), in luogo degli 86 milioni di morti, per un numero pari se non superiore di feriti ed una distruzione materiale immane, con due ciliegine atomiche sulla ricca, amara, torta. Nella storia del nostro pensiero, l’ultimo appello sdegnato a bandire la guerra, in ogni caso, come fatto non degno dell’umano, è di più di due secoli fa: Immanuel Kant.

[v] La “critica del concetto” non ha come fine la sua invalidazione ma la sua più meditata conoscenza. Sul fatto che il concetto sia utile e financo necessario per elaborare ragionamenti, essere stoccato nella memoria, esser scambiato nel discorso, non sembrano esserci dubbi. Che però spesso porti a falsi problemi, a problemi mal posti, a generalizzazioni indebite (ad assortimenti mal distinti), che possa dar adito a false dicotomie, che sia mutevole la sua interpretazione e soprattutto dipendente dai contesti e dalle fasi storiche, non sembrano esserci altrettanti dubbi.

[vi] Il dibattito sulla misura del progresso è riflesso ad esempio nel dibattito sull’indice sintetico dell’economia ovvero il P.I.L. . Anche se questa messa in discussione non si deve ad un originale ed onesto ripensamento sulla semplificazione eccessiva che l’indice comporta ma sul fatto che non mostrando più, per le economie occidentali, numeratori significativi, si pensa di dargli una diversa composizione.

[vii] In realtà è una conversione dal suo stesso pensiero visto che nel Taccuino rosso aveva scritto che “se una specie si trasforma in un’altra deve essere per saltum”.

[viii] L’evoluzione o come poi diremo, la storia dell’adattamento tra sistemi complessi, non ha “una legge”. Quella tra progressività delle piccole novità e saltazionismo è una falsa dicotomia. Innanzitutto perché non si configura come un “o-o” ma un “e-e”. Poi perché mancando una ontologia dei sistemi come fondo, non si valuta che è l’accumulo progressivo di piccoli imput a far scaricare il neurone, a far saltare l’elettrone d’orbita, a far saltare un vecchio paradigma per la sostituzione di un nuovo, a far cumulare i cambiamenti nella lunga durata prima di esplodere in una deflagrazione storica.

[ix] Altresì (NSM30) su de Mandeville: “La società non potrebbe andare avanti senza il senso morale, proprio come un alveare d’Api senza i loro istinti”.

[x] Sul modello cooperativo, si suppone sia costruito l’intero sistema vitale poiché le cellule eucariote (con nucleo) che ci compongono, risultano essere per l’appunto una unione che fa la forza. Fu Lynn Margulis ad avanzare per prima, nello sgomentato silenzio della comunità scientifica, l’ipotesi che organelli cellulari come i cloroplasti o i mitocondri, fossero in origine entità autonome che andarono a vivere dentro cellule procariote, realizzando così il primo salto di complessità, ovvero un sistema integrato di parti funzionali. Da lì in poi, è tutta una associazione…

[xi] Accettato ma non solo. Ci potrebbero essere infatti meccanismi del possibile molto più ampio dell’attuale anche a livello genico, Ovvero, l’espressione dei geni, potrebbe esser inibita o sollecitata proprio dal contesto (organismo) in cui vanno a costituire il patrimonio dei caratteri. Non solo l’intero sarebbe più della parti ma queste stesse si definirebbero in rapporto al tutto.

[xii] Da queste improvvise e drammatiche strettoie, pari passino meglio gli animali piccoli, in tempi di crisi, piccolo è bello, indifferenziato è meglio dello specializzato, il complesso più semplice è meglio del complesso complicato.

[xiii] Si ricorda che adattamento significa almeno tre cose:  accettazione della nuova situazione, auto-modificazione per rispondere positivamente alle richieste adattive (che nel caso umano riguardano gli individui e le forme sociali, culturali ed istituzionali di vita), modificazione dei contesti per smussare – dilazionare certe richieste adattive.

Informazioni su pierluigi fagan

64 anni, sposato con: http://artforhousewives.wordpress.com/, due figli, un gatto. Professionista ed imprenditore per 23 anni. Negli ultimi venti e più anni ritirato a "confuciana vita di studio", svolge attività di ricerca multi-inter-transdisciplinare da indipendente. Il tema del blog è la complessità, nella sua accezione più ampia: sociale, economica, politica e geopolitica, culturale e filosofica. Nel 2017 ha pubblicato il libro: Verso un mondo multipolare, Fazi editore. Ogni tanto commenta notizie di politica internazionale su i principali media oltre ad esser ripubblicato su diverse testate on line. Fa parte dello staff che organizza l'annuale Festival della Complessità e pubblica su specifiche riviste di sistemica. Tiene regolarmente conferenze su i suoi temi di studio, in particolare sull'argomento "Mondo e complessità". Nel 2021 è uscito un suo contributo nel libro collettivo "Dopo il neoliberalismo. Indagine collettiva sul futuro" a cura di Carlo Formenti, Meltemi Editore. A seguire: "Europa al bivio. Tra radici e sfide" a cura di Vincenzo Costa, Marcianum press, 2024 Venezia e "L'era multipolare: competizione o cooperazione" a cura di Gabriele Germani, La Città del Sole, 2024, Napoli.
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3 risposte a L’ADATTAMENTO AL DIVENIRE. Riflessioni su Darwin.

  1. mcc43 ha detto:

    Da rileggere più volte, per l’ampiezza della trattazione, i collegamenti e lo stimolo che imprime alle proprie riflessioni. Una rarità…

  2. Maximilian Cant ha detto:

    “…un corallo, irregolare, discontinuo, multi-direzionale, non intenzionale, imprevedibile e senza finalità che non il suo essere”. Tutto ciò mi fa pensare ad un Rizoma. Un Deleuze ante litteram ? Complimenti per l’articolo.

    • pierluigi fagan ha detto:

      Complimenti a lei per l’intuizione. Sì, è così. Esiste una geo-filosofia, ovvero un formarsi di tradizioni nazionali di lunga durata. La visione biologica anglosassone è ordinata e funzionale, quella francese è disordinata e creativa. Esiste una linea a cui attinge Deleuze che retrocede a J. Monod e F. Jacob ma che troviamo anche in J. Piaget e J.P.Changeux e prima ancora in C. Bernard e L. Pasteur. Ma l’impostazione permea anche altri discipline, ad esempio la paleogeologia di G. Cuvier o il proto-evoluzionismo di J.B.Lamarck che con A.-P. de Condolle (svizzero francese) costituiscono una delle due radici da cui attinge Darwin. Di questo corail (corallo in francese) fanno anche parte la matematica delle catastrofi del biofisico ed epistemologo R. Thom ma anche il grande G.H. Poincaré e l’epistemologia di Bachelard. Pensi poi a quanto la radice -bio- contamini M. Foucault o la coscienza sensibile ed il corpo incarnato di Merleau Ponty e la rivoluzione molecolare di Guattari che era di origine medico-farmaceutica, linea medicale che ci porta all’antropologia medica di G.Canguilhem (e di nuovo a Foucault) e il seguito di D. Lecourt e chissà, forse fino a G. Simondon (autore molto interessante e poco conosciuto) . Riconosciuto è il ruolo di snodo della filosofia di H. Bergson. Chissà, tutto ciò, come va con Descartes…? Magari ci faccio su una ricerca, grazie dell’imput. Buona giornata e grazie per i complimenti!

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