DAL GENE AL GENERE.

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Recensione e riflessione intorno a E.O.Wilson, La conquista sociale della terra, Cortina, Milano, 2013.

O. Wilson è un biologo americano, noto soprattutto per i suoi studi su i sistemi sociali degli insetti e per aver fondato la disciplina della sociobiologia. La sociobiologia sarebbe lo studio dei rapporti di causa ed effetto tra il piano biologico, cioè genetico e il piano sociale, cioè culturale. Una sorta di “dal gene, al genere”. A suo modo, è una prima forma di scienza complessa poiché tenta di mettere in relazione due ambiti, di solito, considerati separatamente o non considerati reciprocamente. Ai suoi esordi nell’immediato dopoguerra e per lungo tempo a seguire, i sociobiologi hanno tenuto fermo il paradigma interpretativo del piano biologico all’ancoraggio della sintesi neo-darwiniana che a sua volta era ancorata, in certi aspetti, alla lettura che i primi interpreti dettero dell’opera di Darwin. L’opera di Darwin ha caratteristiche simili a quella di Marx nel senso che: a) è una forte intuizione generale iniziale, una sorta di rivoluzione concettuale; b) l’opera completa del fondatore il nuovo paradigma non è del tutto omogenea nel senso che in essa si possono trovare più giudizi la cui convivenza non è del tutto chiarita e concetti che non sono del tutto spiegati. Per Darwin, come per Marx, si è prodotta allora una sorta di ermeneutica sofferente, combattuta tra il dar ragione alla fondazione prima ed il non trovare sempre e con chiarezza riscontri nel materiale originale, dilaniata tra la difesa dell’integralità originaria e la necessità di modificarne alcuni parti per rendere totalmente sistematizzato un materiale che in origine non lo era.

imagescv78Per Darwin in particolare, ci si è concentrati  sugli sviluppi derivati dalla scoperta del DNA (Watson, Crick 1951-1953) ignoto a Darwin ma tassello fondamentale per dare piena ragione scientifica alla teoria detta dell’evoluzione. Ma tale teoria, elaborata da quello che era un naturalista della metà del XIX° secolo e non un biologo molecolare del XX°, aveva maggiori implicazioni generali che non particolari. Intendiamo i concetti di evoluzione e di adattamento, di lotta e competizione per le risorse e la riproduzione, dell’unità metodologica (individui – gruppi), delle relazioni natura – cultura, dell’incidenza dell’ambiente nelle determinazioni selettive-adattative. Questi argomenti meno precisi ma più importanti, furono precisati e mineralizzati da interpreti di Darwin e non da Darwin stesso. In particolare da i suoi più stretti iniziali difensori (T. H. Huxley) e da chi per primo ne ha recepito convintamente le iniziali ipotesi (ad esempio, il filosofo-sociologo H. Spencer). A rigore, quella propria di Darwin, è una teoria dell’adattamento più che dell’evoluzione ma più che altro andrebbe fatta una pulizia dei concetti che chiarisca i rapporti tra tempo, nicchia ecologica, adattamento, teleologia, cambiamento. Fintanto che lo sviluppo del darwinismo si è mosso below the line, ovvero nello spazio della biologia molecolare le cose si son fatte sempre più certe e precise tanto da giungere alla citata sintesi neo-darwiniana. Quando però si è tornati come nel caso della sociobiologia a riconnettere questo sotto la linea con il sopra la linea ovvero con quello che poi succede a livello fenotipico, dei gruppi o dei livelli socio-storici, si sono prodotte delle anomalie. Ogniqualvolta ci si deve riferire a questo livello sovra molecolare, si deve fare i conti con la non completa precisione dei testi originari di Darwin, con l’interpretazione che ne venne data più di un secolo fa, con il dominio non sempre visibile e percepito di un meta-paradigma culturale precisamente anglosassone basato sull’individualismo egoista razional-calcolante in un ambiente difficile[1], paradigma che potrebbe esser un particolare e non un universale, paradigma che ombreggia il pensiero di Darwin ma che proviene da fuori di Darwin.

2218175-MillLIBERTA300-264x431L’intera questione converge con quella del pensiero economico moderno sotto due aspetti. Mentre la parte bio-molecolare essendo ignota a Darwin è stata sviluppata scientificamente in piena libertà, così come l’intero apparato delle formule algebrico-algoritmiche dello sviluppo dell’economia politica in economics, accentuando in entrambi i casi i crismi “scientifici” (numero-peso-misura-precisione-predizione), la parte degli assunti fondativi a priori (ad esempio l’unità metodologica dell’individuo) e le conseguenze molteplici (naturali, sociali, comportamentali, psichiche ed in definitiva “culturali”) è stata coartata dogmaticamente a gli assunti ritenuti veri più di un secolo e mezzo  fa, senza alcuna possibilità di “evoluzione”. Della teoria dell’evoluzione come dell’economia moderna, impianti separabili in tre spezzoni di logica (gli assunti iniziali – lo sviluppo descrittivo dei fenomeni – la verifica nei fatti concreti che i primi ed i secondi dovrebbero validare) si è dilatato il secondo tratto mantenendo ingiustificatamente rigidi il primo e l’ultimo. Con il marxismo, tutti e tre sono casi teorici-disciplinari che si rifanno a fondazioni di più di un secolo e mezzo fa, veri e propri casi di “canoni” dotati di una loro scolastica e di chierici a riproduzione e protezione del canone stesso.

slide_4La sociobiologia, nata come visione deterministica e riduzionista,  ad un certo punto, si è dedicata al concetto di adattamento più che a quello di lotta per la sopravvivenza e riproduzione ed ha cominciato a trarne le conseguenze logiche quanto ad unità metodologica. Quello che era il fondamento metodologico basato sull’individuo si è tripartito poiché l’individuo ha una struttura molecolare (genotipo), una organico-psichica (il fenotipo) ed una sociale (il gruppo inteso prima come famiglia e poi come società). Lo steso fatto che l’essenza dell’individuo sia sopravvivere e riprodursi andrebbe precisato perché l’individuo umano sarebbe meglio definibile secondo i principi del vivere il più a lungo possibile ed il meglio possibile, il che non sempre coincide con le due prime definizioni. Altresì le analogie ed i relativi concetti  tra animali semplici, animali complessi ed esseri umani hanno un limite di trasferibilità. Il lieve spostamento concettuale dall’unidimensionalità dell’individuo egoista e hobbesiano, alla tridimensionalità dell’individuo genetico-bio-psichico-culturale e sociale e quella della sua configurazione da lottatore prepotente ed egoista a quella di cercatore di fitness sofisticato non è stato però indolore[2].

411X4CDDD3LQui ci occupiamo di una delle ultime fatiche librarie di E.O.Wilson, – La conquista sociale della Terra, Cortina, Milano, 2013 – che è uno dei principali attori di questa svolta. Proprio nell’introduzione che ne ha fatto Telmo Pievani, s’inquadra lo “strappo” operato da Wilson in favore di una pluralizzazione delle spiegazioni, pluralizzazione che come di consueto per ogni immagine di mondo generale o particolare, aizza prontamente i guardiani dell’unicità dogmatica (R.Dawkins). Nel caso specifico, la polemica “locale”, è centrata sullo spostamento dalla teoria dell’egoismo genetico di parentela alla nuova prospettiva della selezione di gruppo. In ballo c’è la spiegazione dell’altruismo umano (ed animale in alcuni casi) ovvero tutto ciò che porta alla cooperazione, al mutuo appoggio, alla solidarietà, fatti “inspiegabili” per l’immagine di mondo anglosassone centrata sull’individualismo egoista oltretutto basato dalla tirannia di geni ancorpiù ciecamente egoisti che usano il corpo solo come veicolo della loro riproduzione. In Wilson, questo spostamento, ha anche il benefico effetto di farlo smettere di proiettare le sue conoscenze specifiche su gli insetti eusociali sull’uomo, riconoscendo a quest’ultimo uno specifico intenzionale che alle società robotizzate delle termiti, api e formiche, manca del tutto. In pratica, egli si emancipa da uno dei tanti riduzionismi che impongono la riduzione dell’uomo ad animale, l’animale complesso a quello più semplice, l’animale più semplice alla costituzione fenotipica, la costituzione fenotipica all’interrelazione cellulare e questa al genotipo, il genotipo complesso al gene decisivo in una catena di semplificazioni atte a salvaguardare la determinabilità “scientifica” (in realtà solo quella semplicistica) che dal micro va al macro, eredità non cosciente del neoplatonismo che soggiace a molte convinzioni anglosassoni. In sua vece, si disegna una catena complessa di emergenze che spezzano la semplice riconducibilità 1:1 del macro al micro o viceversa[3].

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9788804636694-il-gene-egoistaIl libro di Wilson, che è anche un assai godibile scrittore, è un tentativo di conquista della spiegazione dell’essere umano che ha un livello storico fatto di natura e cultura, livello storico che emerge da un precedente preistorico sul quale c’è molta reticenza (non in Wilson ma nelle relative discipline paleo-antropologiche[4]), livello preistorico che emerge da un precedente livello animale e questo da quello bio-molecolare. In ballo ci sono le spiegazioni degli atteggiamenti sociali e di quelli egoistici, lo sviluppo delle facoltà linguistiche, dell’intenzionalità umana, dell’etica, delle credenze, del ruolo elle immagini di mondo e dei dispositivi culturali,  delle ragioni della speciazione umana, del parallelismo possibile o meno con atteggiamenti eusociali animali e la finale riconduzione di questi a qualche assetto genotipico. Il tutto nel rispetto del concetto di adattamento all’ambiente che opera a vari livelli le sue sforbiciate selettive. In pratica, la sfida di Wilson è ricostruire la complessa catena causativa che dalle  ragioni biologiche arriva ai comportamenti sociali aggredendo così alle fondamenta, il paradigma semplificante individual-egoista ed il suo gene onnipotente e tirannico che produce individui altrettanto onnipotenti e tiranni ovvero un mondo in cui la tirannia è onnipotente. Sfida che diventa epistemica poiché aumenta i livelli di analisi e spiegazioni, quindi la determinazione dei fattori, quindi la complessità delle conoscenze e delle logiche che le fanno operare.

coofigIl nocciolo della ipotesi Wilson è che la selezione è multilivello, agisce a livello dei gruppi ed a livello degli individui. Noi aggiungiamo che agisce a livello del complesso genotipico (che si riflette nel fenotipo secondo la logica per cui il totale è qualcosa di più che non ciò che determina le singole parti) e non solo a livello di singolo gene anche perché sembra assai improbabile si possa sempre ricondurre fenotipi e comportamenti complessi alla causa una del singolo gene e sua possibile mutazione. La selezione di gruppo premia atteggiamenti cooperativi e sociali, quella al livello individuale può anche premiare la furbizia, l’aggressività, la prepotenza e l’egoismo ma i conti si fanno anche a livello dei fenotipi. Un individuo troppo individualista, soprattutto quando i gruppi umani erano molto piccoli ed il controllo reciproco (la reputazione) vis à vis, veniva cacciato dal gruppo e le minori possibilità di sussistenza e riproduzione, lo avrebbero cancellato dal flusso evolutivo. Così l’angelo caduto in terra totalmente altruista si sarebbe dimenticato di proteggere se stesso e le sua facoltà di esistenza e riproduzione. Altresì, l’aggressività e l’egoismo residuo degli individui, venne assunto come direttivo a livello di gruppo per cui i gruppi tra loro si comportano come individui aggressivi ed egoisti. Noi qui dobbiamo sintetizzare ma anche Wilson lo fa a sua volta e certo la faccenda è un po’ più complicata, però nel grosso, questo spiegherebbe l’inesistenza di una natura umana monodimensionale (tutti buoni o tutti cattivi) ovvero l’esistenza di un patchwork di predisposizioni anche conflittuali (sembrano conflittuali a noi, alle nostre categorie ma siccome sono dati reali sarebbero da sfumare le nostre categorie piuttosto che piallare la complessità umana[5]) che nell’insieme non solo ci fanno essere quello che siamo, ma hanno mostrato di “funzionare”, almeno fino ad oggi, assai bene. Anche troppo.

Infatti Wilson ammonisce che questa corsa alla nostra specificità che è diventata preminenza senza competitor, rischia di portarci alle soglie di un disadattamento perché non conosciamo più i limiti. Non conoscerli non significa che non esistano e quando non si conoscono i limiti, quando ci si abitua a correre a fari spenti nella notte, prima o poi si incontra il platano.

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2_Oriuo_3Il nocciolo teorico della spiegazione di Wilson parte da un serie di preadattamenti. Il concetto di preadattamento segue l’impostazione progressiva di Dariwin ovvero cose anche molto complesse derivano da una catena anche molto lunga di micromutaizoni, tutte adattative di per sé anche se nel complesso arrivano a risultati emergenti assai clamorosi e non immediatamente riconducibili a semplificate riduzioni. Il contesto di questa dinamica di mutamento progressivo è il tempo lungo poiché Darwin era sì un naturalista, ma anche un geologo e furono proprio gli sviluppi della geologia ad aprire gli scenari del tempo lungo e lunghissimo che portano alla sua teoria. Altresì  la teoria delle mutazioni catastrofiche (rivoluzioni genetiche e speciative à la S.J.Gould) è stata vissuta come alternativa a questa che lavora sulla complessità costruita nel tempo per tentativi ed errori ma nella sostanza non lo è affatto. Pluralismo significa accettare che i fenomeni hanno forme diverse perché hanno cause diverse e la natura non è così stupida da svilupparsi secondo una sola prassi, riducibile a legge,  come a noi piacerebbe fosse. Questi preadattamenti portano al punto base e il punto base è il nido, dove c’è nido c’è casa e dove c’è casa c’è famiglia che è il primo gruppo. Da una famiglia ovvero un gruppo a più famiglie e più individui ovvero una società ovvero difesa collettiva di più nidi e ricerca collettiva della sussistenza, talvolta,  ha agito la selezione naturale premiando la formazione di gruppi più consistenti e persistenti. Del concetto di selezione naturale, Wilson,  evidenzia spesso la versione territoriale, quella che nel mondo umano storico e sociale potrebbe essere la geografia, la quale invece non è considerata tanto dalle teorie materialistiche, quanto da quelle idealistiche. Una linea di ricerca suggerita da Wilson è anche quella che non punta a trovare geni eusociali ovvero espressione attive ridotte alla logica un comportamento = un gene, ma che punta a capire la struttura del genotipo. Alle volte basta un gene ma un gene che silenzia un comportamento (ad esempio la dispersione territoriale per moltiplicare i nidi invece che condurre a buon fine la crescita di una prole specifica). La causa inibitoria è talvolta, in linea logica, altrettanto importante di quella necessaria e di quella efficiente.  9788883535161Un comportamento è la risultante di molti fattori, diremmo che è un “sistema complesso” non solo determinato da un gene o un gruppo di geni, ma dalla modifica dell’intensità o della funzionalità di alcuni di essi nell’ambito sistemico del genotipo. Non sempre l’innovazione crea nuovi tasti del pianoforte, ne cambia il timbro e l’utilizzo. Questa complessità si forma non solo perché arriva un nuovo carattere ma anche perché sopprimendo uno vecchio, si riconfigura in maniera diversa l’intera interrelazione dei fattori. Epistemicamente, questo fatto è assai interessante perché abitua a costruire causazioni complesse, a non cercare solo le linee semplici dell’una causa – un effetto, ma quelle molteplici dell’una/molteplici causa/e – molteplici effetti e retroazioni di effetti poiché tra genotipo e fenotipo c’è un vasto territorio intermedio che è fatto di sistemi.

raPPayX3b4sh_s4-mbCi sarebbero molte altre cose da dire sulle idee di Wilson ma a noi interessava parlare del suo libro principalmente per questi tre aspetti. Il primo è quello della formazione di una epistemologia complessa, nel caso specifico, come riporta Pievani in Introduzione, fatta di: “ecologia delle popolazioni, struttura degli habitat (geografia), oscillazioni climatiche (ambiente), fattori limitanti (logica del contesto), tipologie di risorse (varietà, diversità), difesa del territorio (comportamento), reti sociali (sociologia), fiammate innovative (creatività), dimensioni delle popolazioni (demografia)”. L’analisi multifattoriale è quella più realistica ed adattativa per lo sviluppo di una conoscenza complessa adatta a tempi complessi. Dovrebbe diventare un “must” in tutte le discipline a favorire anche il superamento dell’ottusa divisione disciplinare. La seconda è lo sforzo di riunificazione delle due culture. Purtroppo questo sforzo è condotto quasi sempre da scienziati e quasi mai da umanisti. Forti nel loro mondo matematico e dalle logiche ferree che li fa specialisti di natura, spesso si avventurano con coraggio nei campi per loro stranieri della complessità umana, della cultura a tentare una ricomposizione dell’innaturale divisione. Quasi mai o mai si nota il contrario. YvSuCl3lVVol_s4-mbLa cultura umanista nella sua lotta all’anti-dogmatismo scientizzante è diventata a sua volta dogmaticamente convinta che le propri lenti possano dar conto di tutto, che la scienza è ideologia ed allora tanto vale sbandierare la propria ideologia a priori senza cercare verifica nella realtà dei fatti (per quanto essi siano interpretati non sono solo interpretazioni, il fatto ha una sua durezza per quanto per noi noumenica).  La terza è lo sforzo di emancipazione anche di una autore anglosassone ed addirittura americano e ben interno, almeno in passato, all’élite accademica che ha governato e governa il canone neodarwinista, dal dominio paradigmatico dell’individualismo possessivo – egoista che fonda quell’utilitarismo alla base dell’antropologia e dell’etica moderna,  della teoria economica dominante, della teoria sociale anglosassone (quindi dominante), delle teorie politiche liberali, della filosofia analitica che riduce la complessità umana alla sua forma espressiva logico-linguistica. Tutte forme riduttivo- deterministiche che formano il canone anglosassone, quindi quello dominante, quindi quello “moderno” nella sua versione ufficiale pubblica. Esattamente quel “complesso ideologico” che ostacola il nostro adattamento ai tempi nuovi.

Anche se non condividiamo tutti i passaggi del suo ragionamento che è comunque vasto e non semplificantemente  assertivo, ne consigliamo la lettura almeno come aggiornamento generico sul cosa si sta pensando in diversi campi e discipline scientifiche e per l’onesto tentativo di riunificare le conoscenze su chi siamo, da dove veniamo, per capire dove potremmo andare.

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Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo? P.Gaugiin, olio su tela, 1897

[1] La basi di questo paradigma si formano nella prima metà del XIX° secolo nel Regno Unito ad opera della filosofia utilitaristica (J. Bentham, J.Mill, J.S.Mill), della teoria delle popolazioni di Malthus, dell’economia della scarsità di Ricardo ma affondano sul terreno del razionalismo scientista newtoniano, (in parte) della filosofia morale scozzese, della filosofia politica di Locke e prima ancora su una visione antropologica tipicamente anglosassone, quella di T.Hobbes. Secondo noi, il tutto, affonda le radici nella cultura e tradizioni antiche delle popolazioni barbare dell’Europa del Nord.

9780385340212_custom-29676d8313d79c7efa8c75724ab27276a67412a5-s99-c85[2] La svolta multilivello della sociobiologia è in realtà merito di una altro Wilson (David Sloan) ed anche di Elliot Sober i quali a loro volta riprende intuizioni anni ’60 di Wynne-Edwards, le cui prime proposte vennero massacrate dai guardiani del canone. Qui:   il suo blog  . Un paper a fondazione della svolta multilivello, scritto dai due Wilson, qui:

[3] Qualcosa di simile è portato avanti anche dallo stesso Pievani e N. Eldredge nel progetto Hierarchy Group di cui si sparla qui.

[4] Qui si deve segnalare, en passant, un progressione di nebulosità della conoscenza man mano che si retrocede nel registro storico sapiens – Neanderthal – erectus e precedenti, fino ai misteri connessi alla prima speciazione dalla linea degli scimpanzé-bonobo, la stessa predilezione anglosassone per gli scimpanzé mentre i bonobo mostrano tutt’altre propensioni comportamentali e sociali, la sottovalutazione dell’intenzionalità complessa già leggibile negli habilis, 7505il ruolo del linguaggio sovrastimato e recentizzato oltre il dovuto, la riduzione della mente umana alla struttura linguistica, la sottovalutazione degli aspetti culturali anche nelle specie più antiche e molto altro ancora.

[5] In effetti, una precoce e lucida individuazione di questa natura molteplice, a noi apparente come “contraddittoria” (poiché sono dialetticamente poste in tesi ed antitesi certe determinazioni nella nostra logica) si trova addirittura in Kant nella definizione antropologica della umana “socievole, insocievolezza”. Ma poiché la questione apriva ad un riesame critico delle forme dialettico trascendentali delle nostre immagini di mondo, non la si è esplorata nell’ansia di fornire “verità” semplici e definitive al servizio di ideologie tutte individualiste o tutte collettiviste.

Informazioni su pierluigi fagan

64 anni, sposato con: http://artforhousewives.wordpress.com/, due figli, un gatto. Professionista ed imprenditore per 23 anni. Negli ultimi venti e più anni ritirato a "confuciana vita di studio", svolge attività di ricerca multi-inter-transdisciplinare da indipendente. Il tema del blog è la complessità, nella sua accezione più ampia: sociale, economica, politica e geopolitica, culturale e filosofica. Nel 2017 ha pubblicato il libro: Verso un mondo multipolare, Fazi editore. Ogni tanto commenta notizie di politica internazionale su i principali media oltre ad esser ripubblicato su diverse testate on line. Fa parte dello staff che organizza l'annuale Festival della Complessità e pubblica su specifiche riviste di sistemica. Tiene regolarmente conferenze su i suoi temi di studio, in particolare sull'argomento "Mondo e complessità". Nel 2021 è uscito un suo contributo nel libro collettivo "Dopo il neoliberalismo. Indagine collettiva sul futuro" a cura di Carlo Formenti, Meltemi Editore. A seguire: "Europa al bivio. Tra radici e sfide" a cura di Vincenzo Costa, Marcianum press, 2024 Venezia e "L'era multipolare: competizione o cooperazione" a cura di Gabriele Germani, La Città del Sole, 2024, Napoli.
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