Questo il breve invito categorico del torrenziale ed ubiquo S. Žižek, che citiamo non per generale prossimità di pensiero con la philostar slovena, ma per correttezza di attribuzione dell’esortazione, che invece condividiamo tanto da volerci scrivere su un articolo.
Questo invito altro non è che un richiamo, un richiamo alla natura umana la quale ha la sua essenza (il punto proprio che la differenzia dalle altre forme naturali) in questa facoltà che potremmo chiamare “pensare al fare prima di farlo” o autocoscienza.
L’ultima volta che la riflessione filosofica si occupò dell’autocoscienza, in forma estesa, ovvero nell’estensione della sua relazione col Mondo, fu più centocinquanta anni fa, con G.W.F.Hegel. Questo coincise con un turning point della vicenda filosofica occidentale, che da quel momento in poi, si inabissò perdendo di vista questo argomento, il suo portatore (l’uomo interamente inteso) ed il motivo per cui ne è portatore (la relazione col Mondo).
Perché accadde? Perché l’attività umana di riflessione sul generale, divenne sempre più particolare e perché cominciò anche a teorizzare di sé, il divieto alle formulazioni generali ossia sistemiche, quasi che il contatto col Tutto potesse diventare come il contatto con una antimateria che annichiliva la consistenza del pensiero?
La nostra ipotesi è che si trattò di un momentaneo fallimento adattivo tra la funzione pensante riflettente che sommava, anzi sottraeva una forza ad una debolezza, e l’oggetto del suo riflettere, il Mondo. Un mondo (il maiuscolo è per il concetto, il minuscolo per l’oggetto in quanto tale) che, proprio a metà del XIX° secolo, iniziò la scalata di una impennata di complessità senza alcun precedente.
Se la complessità è, in prima istanza, la quantità di cose e la quantità e qualità delle loro interrelazioni, proprio nel XIX° secolo si andava producendo quell’inizio di massima inflazione di complessità, che è l’essenza propria dei tempi che ci è toccato in sorte di vivere. Tempi nei quali ci sentiamo smarriti, proprio perché non li capiamo e non li capiamo proprio perché la funzione riflettente (che poi è la filosofia) che dovrebbe comprenderli (com-prendere, prendere assieme nella loro interezza) ha avuto quel collasso adattivo che abbiamo posto in ipotetica tesi. Vediamo allora più da vicino quali debolezze e quali forze si sono scontrate nella vicenda filosofica, cominciando dalle forze.
Una forza ha agito nel pensiero, l’altra nel Mondo. La forza del pensiero fu la scienza, la scienza che cominciò ad influire sull’agire sul Mondo era la tecnica. La cosa origina dal XV° secolo e quindi, differentemente da come viene in genere raccontata anteponendo il pensiero (la scienza), all’azione (la tecnica), in realtà successe l’esatto contrario. Così in un ambiente ancora pre-scientifico, ad acerbe nozioni di medicina (alle prese con i devastanti effetti delle epidemie), di chimica (ai tempi talmente misteriose da esser ancora intrecciate con la filosofia, nell’alchimia) e di meccanica empirica (il macchinismo del ‘400), seguì un prodotto tecnico-ottico. Il che è anche una riconferma dell’antica parentela tra “vedere” e conoscere. L’ottica aveva una ragion pratica e nell’ottica stessa si può osservare, il sorgere di quella relazione intrecciata tra una specie di pensiero (quello tecnico-scientifico) ed una specie di agire (quello economico) che sarà poi la seconda forza, quella che cominciò ad agire sul Mondo. Galileo era assai curioso di ciò che Kepler, Brahe e Kopernik stavano facendo e si noti che i tre erano tutti nord-europei che si avvalevano di quei nuovi prodigi dell’ottica che venivano prodotti dall’artigianato olandese fiorente intorno al porto di Amsterdam. Amsterdam era il punto dal quale originava l’allora grande flotta della nascente potenza commerciale olandese, flotta che girovagando per coste sconosciute, osservava col cannocchiale i possibili approdi. Galileo si costruì il “suo” cannocchiale e lo rivolse lì dove non doveva perché era lì dove c’era Dio. Ne nacque il famoso problema del processo, della forzata abiura dell’evidenza, dei “domiciliari”, ma anche la prima riflessione su ciò che si era riflesso nelle lenti del cannocchiale. Nasceva così la scienza moderna. Poi arrivò Newton che sta alla scienza occidentale come Platone sta alla filosofia e da lì la vicenda scientifica si diffonde nel suo albero che proprio nel XIX° secolo arriva ad una “esplosione di conoscenze”.
La seconda forza, quella dell’agire pratico sul Mondo, fu l’economia moderna. Nata in Italia, dall’Italia dovette presto migrare perché ancora infante, venne repressa dalle condizioni culturali e politiche, imposta dalla Chiesa, ovvero dalla istituzione della ragion pratica, della ragion pura religiosa. Quando oggi ci si rallegra del fatto che il Papa si scagli con lucida ragione contro i danni ed i misfatti del capitalismo, si deve ricordare che il secondo è ciò che ha tolto la sovranità ordinativa del primo, ciò che creò la transizione tra Modernità e Medioevo. Certe cose, “loro”, non le dimenticano, essendo l’istituzione con la più lunga memoria storica al mondo. Questo nuovo modo di stare al mondo, producendo e scambiando cose e servizi, più o meno utili alla vita individuale e collettiva, non era in sé, un modo nuovo. “Nuovo” era il ruolo che andava assumendo nella vita sociale e politica delle varie comunità, nei casi francesi, inglesi e spagnolo, organizzato in nazioni. Assunse infatti quel ruolo che nell’epoca precedente, il Medioevo, era svolto dalla religione, il ruolo di ordinatore, ordinatore di tutti gli altri principi (politico-militare-culturale-sociale-religioso). La cosa avvenne proprio ad Amsterdam (a Genova, Venezia, nella Lega dell’Hansa baltica) per la prima volta ma quando passò da città a stati, da Amsterdam all’Inghilterra, per la prima legge del bistratto materialismo dialettico del povero Engels ovvero per il fatto che diverse quantità generano nuovi stati qualitativi (poi divenuta, anche e non solo, la legge dei “quanti” di Plank in fisica, la dinamica che porta i salti di stato tra scienza normale e scienza rivoluzionaria in T. Kuhn e la legge dell’evoluzione punteggiata nella paleontologia di S. J. Gould, conosciuta nel senso comune anche come “goccia che fa traboccare il vaso”), divenne un nuovo “sistema”. Quel sistema che impropriamente chiamiamo “capitalismo”, impropriamente perché non è la sua regola interna a generarne l’essenza, ma la posizione che assume nel sistema generale del vivere umano associato. Quando Hegel dice che il vero e l’intero dice che è l’intero umano associato che dovremmo guardare per capire cosa portò una componente a scalzare il ruolo ordinativo della precedente ed assumere la funzione di nuovo perno e guida dell’intero sistema. La ragione di questa novità non proviene dall’interno del principio ma dalla sua relazione con tutti gli altri e dalla relazione che i sistemi umani nazionali cominciarono ad avere tra loro in Europa e come Europa vs il mondo. Per questo motivo è molto improbabile che sia un economista, oggi, a dirci cosa sta succedendo, perché dall’interno del suo sistema egli vede solo ciò che lì dentro si riflette, non vede ciò che da fuori, modifica il suo sistema, la causa o cause gli rimangono ignote quali ignote erano le cause delle eclissi di sole per le culture che guardavano il mondo con le lenti del mito, visto che l’ottica scientifica non era ancora nata. Cause ignote portano a false attribuzioni di causa e queste mantengono ignote le cause reali.
Ma torniamo al nostro turning point. La forza pratica dell’agire economico ormai pervadeva la regolazione sia sociale, sia politica dell’umano vivere associato del XIX° secolo. Resistevano l’ Italia che era frantumata in costellazioni post-medioevali mantenute in vita dallo Stato Pontificio come ultima trincea resistente il nuovo modo di stare al mondo e resisteva la Germania, similmente frazionata in una quarantina di stati debolmente confederati, all’ombra di una potenza calante (l’Austria-Ungheria) ed una nascente (la Prussia), che al riparo dal capitalismo stato-nazionale, divenne culla dell’ultimo rinascimento filosofico propriamente detto, l’Idealismo-romantico. Dopo, la ragion pratica del nascente capitalismo tedesco, creò la moneta comune (Vereinstaler) e poi un mercato comune (Zollverein). Poi capì che i sistemi non si fanno partendo dalle monete e dai mercati e fecero lo stato – nazione tedesco, un soggetto che non a caso gli altri europei avevano fatto di tutto perché non si formasse. La forma, non stato-nazionale di Italia e Germania ci dice quanto questa forma sia precondizione necessaria per la piena forma di ciò che chiamiamo “capitalismo”. A dispetto infatti della descrizione di sistema che ne danno i cantori (i liberali) e i critici ufficiali (i marxisti), il sistema in oggetto è politico-economico, la questione economica è necessaria ma non sufficiente, la condizione sufficiente è quella politica. L’umano vivere associato quindi, divenne sempre più ordinato dall’agire economico a sua volta connesso con l’agire politico, mentre la comprensione del mondo era affidata alla scienza. La filosofia capì sempre meno di economia, di politica, di Mondo e rimase ammutolita ed impotente non capendo l’Impero, non capendo le nuove stato-nazionalità, non capendo la Prima guerra mondiale, lo shock degli anni ’30, la Seconda guerra mondiale, si meravigliò e si autoaccusò in un momento di rara lucidità riflessiva sul come era potuta accadere una cosa come Auschwitz (Adorno), poi continuò a non capire i boom post-bellici e tutto ciò che conseguì. Il pensiero occidentale si fratturò lungo lo stretto che divide gli anglosassoni dai continentali. I primi a rincorrere la scienza, i secondi ad interrogarsi sull’ombelico. La filosofia perse la sua ragione, il vero (ipotetico), perché non più in grado di com-prendere l’Intero.
A questa perdita dell’Intero diede un grande contributo la speciazione scientifica, un sapere che si rese competitivo ed assai più efficace di quello filosofico. Certo intrecciato con la ragion pratica economica, ma dotato realmente, di enormi capacità di comprensione ravvicinata delle cose che sono, della loro “oggettività”. Questa vicinanza alle cose portava due effetti: il primo era la sufficiente certezza, l’oggettivo (il certo, il vero); il secondo al frazionamento del sapere le cose, un sapere che posto al seguito di tanti e diversi oggetti ne rifletteva la molteplicità in un sapere tanto e diverso, diviso in discipline sempre più ravvicinate (specialismi) accumunate solo da un metodo (per altro non poi così “unico” come si sostenne). Massima intensione, minima estensione. La cosa poi mimava l’efficienza della divisione del lavoro che razionalizzava la ragion economica e quindi si appoggiava anche all’effetto “imitazione di ciò che funziona”.
Insomma, il modo di stare al mondo politico-economico funzionava, il sapere il mondo non nel suo vago intero, ma nel suo specifico molteplice concreto, funzionava. Funzionava al punto da divenire paradigma della conoscenza, talmente attrattivo da succhiare alla filosofia, come la stella più densa fa con quella meno densa nei sistemi stellari binari, tutti i saperi non solo del mondo naturale, ma anche di quello umano. Una lunga bava scintillante di energia intellettuale, abbandonò la astratta vaghezza filosofica attratta dalle magnetiche certezze della Scienza (qui, come concetto): psicologia, sociologia, pedagogia, antropologia, archeologia, etnologia, economia, politica, linguistica, informazione etc., divennero “scienze umane”.
L’economia funzionava perché trasformava la nuova complessità del mondo in utilità per lo standard di vita occidentale, la politica funzionava perché garantiva all’economia le sue condizioni di possibilità e le imponeva con il fattore militare al mondo domandone la complessità. Funzionava la scienza non perché aiutasse a domare l’Intero complesso, tutt’altro, ma perché ne comprendeva le parti, in consonanza con i successi politico-economici che ordinavano il sistema. Un Intero che era sistema che funzionava e quindi non necessitava di alcuna riflessione.
Difficile districarsi nella relazione causa effetto tra queste due forze crescenti, la scienza-tecnica e la politica-economia e la descrescenza di pregnanza dello sguardo filosofico, capire chi o cosa causò cosa. Sta il fatto che la vicenda filosofica, culminò sincronicamente a queste ascensioni di potenza cognitiva e realizzativa, nell’ultima sfarzosa festa di corte dell’ aristocrazia del pensiero, come i Romanov fecero alla vigilia della Rivoluzione russa, ignari. Il dipinto di questa “ultima festa prima della fine”, fine non già della Storia ma della Metafisica classica, fu l’Enciclopedia delle Scienze Filosofiche di Hegel. Lì dove si compie l’ultimo tentativo sistemico di cercar di capire cos’è Io (la coscienza, l’autocoscienza), cos’è Mondo (la Storia, la Natura, il Diritto, la Religione, l’Arte etc.) e quali sono le loro interrelazioni (lo Spirito, per giunta “Assoluto”). Il tutto sovraordinato da una legge dell’io pensante e del Mondo (lo Spirito assoluto) che si riflette nel suo pensare che si diceva essere una “dialettica”, in versione trinitaria. La vicenda filosofica arrivò a capire la natura del problema ma non capì il problema e pagò il fallimento che ovviamente è nella storia del pensiero precedente ad Hegel e di cui Hegel fu solo il prodotto maturo, un prodotto che intuì la forma del problema principale ma che fallì del tutto la sua com-prensione. Purtroppo, non solo ne fallì la comprensione, ma creando un assai presuntuoso sistema chiuso, omnicomprensivo ed omniesplicativo, creò una sorta di crisi di rigetto olistico non solo dei contenuti, ma anche della forma e del metodo. Ne seguì l’invocazione al fare collettivo (Marx) ma senza ricette per le osterie dell’avvenire, cosa che poi venne scontata nel fallimento di coloro che provarono ad aprire quel tipo di osterie (un caso di fede nella razionalità di una Storia ordinata dalla meccanica dialettica, fede del tutto malriposta come verifichiamo da centocinquant’anni) ; alla potenza individuale (Nietzsche) ribelle ad ogni religione, soprattutto metafisica; al comprendersi delfico (“conosci te stesso” attualizzato da Freud nella vertiginosa vista della voragini interne all’Io) e tutta una serie di pensieri in ordine sparso, frammenti di riflessione, diaspora dell’autocoscienza frantumata, dall’esistenza al linguaggio, dalla logica all’interpretazione. Come disse Esenin al termine del suo pre-suicidio, reso poesia nell’ Uomo nero “…sono solo e lo specchio infranto”.
E il mondo?
Il mondo occidentale visse convinto di essere la regia dell’Esistente almeno fino a gli anni ’60. Poi si accorse non certo con profonda autocoscienza, vista la cecità provvisoria della sua facoltà di riflessione, del venire a trovarsi sempre più piccolo in un globale caotico ed imperiosamente crescente. Reagì come reagì il papato della Controriforma, non riflettendo il cambiamento su se stesso, ma continuando a fare in ogni modo possibile, sempre di più, sempre più ostinatamente ed a dispetto dei crescenti segnali di impossibilità concreta, quello che aveva sempre fatto nella Modernità, la lunga “golden age” dell’Occidente. Inventò il capitale che crea se stesso (il capitale “autocosciente” che alcuni fedeli hegeliani chiamano infatti “capitalismo assoluto”, poiché il meccanismo di riproduzione è quel “causa sui” con cui si pensò Dio già nell’antichità) non potendo più far affidamento sulla vecchia versione. Quella in cui il capitale anticipa se stesso per attivare tramite l’idea, l’investimento ed il lavoro, cioè la produzione e scambio, la sua stessa riproduzione . Ma questa ultima invenzione tutt’ora in auge, ebbe a che fare più con i trucchi per coprire l’imbarazzo sulla non più completa efficienza ed efficacia del meccanismo idolatrato come “modo occidentale di stare al mondo”, che con l’adattamento sistemico alla nuova Grande Complessità. Non avendo a fondo capito come e perché funzionava il meccanismo, quanto il meccanismo dipendesse da ingressi (di materie ed energie) e da uscite, entrambe sparse su tutto il globo asservito allo sfarzo della galassia centrale, non si capì che la non più centralità della galassia retroagiva sulla galassia stessa, sul suo sfarzo, sulla sua compattezza, sulle orbite di tutte le sue componenti, sul suo stesso “senso” o come si dice il filosofia: essenza.
Il “lungo addio” della Modernità che accompagna tristemente la perdita di senso dell’Occidente nato in una “Gloriosa rivoluzione” (Inghilterra 1688-89) e terminante in una lunga e dilaniante, ingloriosa involuzione, si riflette in un pensiero espresso con linguaggi sempre più oracolari od elitari (cosa meglio della “forma” per occultare l’assenza di “sostanza”?), in conventicole accademiche sempre più “scolastiche”, rigidità canoniche ed ortodosse accanto a liquidità indistinguibili (in cui non si riesce a distinguere acqua da acqua), denominazioni sempre più sconcertate che si appellano solo a ciò che non è più (i vari “post-qualsiasi-cosa” che sembrano gli unici abitanti di quello che ormai è il post-pensiero) e il sesto senso della fine di qualcosa-ma-non-saprei-bene-dire-cosa, gli “endismi” ovvero le annuncianti “fine” della storia, della verità, del senso, del linguaggio, dell’arte, della religione (questa magari era di moda nell’800, ora “guarda un po’” sembra tornare al grido-lamento di “solo un dio ci può salvare”), dell’uomo, del mondo, che campeggiano su copertine di libri che si ricorderanno per la loro inutilità irriflessiva, cronache del sentimento di paura e dispiacere per ciò che sta finendo. Non sappiamo bene cosa, come e quanto tempo impiegherà a finire, ma di certo sta finendo…
Che fare? Pensare!
Ci tocca ripensare tutto ed il Tutto. Ci tocca ripristinare l’unica funzione umana che ha dato l’essenza della specie, quel “pensiero che pensa se stesso” che Aristotele camuffò da definizione di dio e che Hegel osò come ultima definizione della filosofia stessa. Il pensiero filosofico deve sforzarsi di reincorporare, quello che i pensieri specifici, scientifico-naturali e scientifico-umani, hanno pensato sull’Io, sul Mondo, sulla loro relazione. Rendere questi pensati dei concetti e trovarne la possibile relazione sistemica in un pensiero generale che funga da “voler essere” da cui scaturire il “dover fare” dell’azione politica. Per conoscere l’Io, il Mondo, le loro interrelazioni, ci tocca ripensare l’Intero e lo stesso come pensiamo ciò che pensiamo. Non sarebbe male una veloce ed esplosiva purga scettica generalizzata (Sesto Empirico) che abbia in oggetto tutto e il suo contrario. Forse dovremmo cominciare a criticare la stessa funzione critica, accorpare la diade Bene e Male con la quale abbiamo categorizzato il Mondo ed i nostri giudizi sino ad oggi. Se finisce il sistema occidentale, finisce anche la sua negazione determinata, non è meccanico che la fine della Tesi porti l’Antitesi a farsi razionale levatrice della Storia, perché di soluzioni propriamente dette, il passato secolo e mezzo di pensiero critico, ne ha pensate poche, a sprazzi e non coordinandole a sistema. Tant’è che la crisi del Grande Male (il capitalismo occidentale) non sta beneficiando affatto il Grande Bene (il comunismo? il socialismo?), da cui quel problema inverso malposto che traendo leggi dai fatti, sanziona ispirato “non c’è più (e quindi non deve esserci) la diade destra-sinistra”. La crisi della politica è la mancanza dell’idea di un posto possibile, in cui portare le persone alla cui azione ci si appella. Fino a che non avremo una teoria compiuta di un nuovo modo di stare al mondo, possibile non solo per la ragion pura, ma soprattutto per quella pratica, l’unica politica sarà l’oscillazione tra cartelli del “contro”, cartelli del “pro” all’esistente magari da riformare-riformando-le riforme, nel mezzo di una generalizzata apatia involuta. Ripensare tutto ed il Tutto implica nuovo metodo, nuove categorie e nuovi concetti, pensiero che recuperi anche metodi, categorie e concetti vecchi da assemblare però in nuovi sistemi in grado di pensare l’Intero. Ci serve un nuovo punto di vista, un nuovo “se” da cui trarre “allora” che non abbiamo ancora pensato. Il candidato naturale al “se” da cui origina il pensiero ed un nuovo modo di pensare è la Complessità, il concetto lungamente rimosso. Rimosso dall’agire pratico politico-economico che ha allungato il tempo della nostra presa di coscienza poiché “funzionava”, rimosso dalla scienza dura e morbida che ha seguito le parti perdendosi il Tutto, concentrandosi sulle varietà a scapito delle relazioni, rimosso dalla cecità e dall’afasia di una autocoscienza filosofica che non essendo in grado di autoriformarsi, è finita al margine dell’utilità umana.
Una filosofia dell’avvenire, secondo chi scrive, dovrebbe dichiarare terminata la prima parte della filosofia occidentale iniziata da una dichiarazione di Platone “prima di affrontare i problemi grandi e difficili, bisogna risolvere quelli piccoli e facili” (Sofista, 218d, dichiarazione poi ripresa da Cartesio all’inizio della Modernità ) e porsi il problema grande e difficile, che è quello che abbiamo e non comprendiamo: la complessità.
La specie si è fondata sull’autocoscienza per sviluppare quello straordinario adattamento che abbiamo scambiato per evoluzione, il mondo è diventato complesso, così l’Io e così le loro interrelazioni. E’ ora che diventi complesso anche il nostro pensiero perché possa comprendere in che tempi simo capitati e possa ordinarci, susseguenti soluzioni adattative. Prima di agire, pensiamoci! Solo il pensiero può salvarci…
Credo che per trovare un nuovo “se” da cui arrivare ad un “allora” ci si dovrà affidare a dei dilettanti, degli amatori della filosofia. I professionisti sono troppo irrigiditi da quello che hanno studiato, o non possono essere indipendenti da chi li mantiene.
Così ci provo pure io, un perfetto dilettante…
Se si guarda al mondo naturale senza troppe pretese, per esempio i tipici documentari per ragazzi, mi sembra che una cosa spicchi ovunque, e cioè il ruolo centrale della “verità” nella natura. Certo esistono animali che mentono, si cammuffano etc, ma queste cose hanno a che fare con il procacciarsi di che vivere. Quando si tratta di riprodursi le cose vanno diversamente. La tipica scena da documentario è la lotta tra due maschi per stabilire chi avrà il monopolio della riproduzione, o almeno il privilegio delle femmine “alfa”. E in certe specie c’è anche in ballo la responsabilità della guida del branco. In questi duelli non c’è menzogna, a vincere sarà il più forte, veloce, dotato etc, sicuramente il più sano e portatore di un dna migliore. Non si è mai visto un lupo pagare degli scagnozzi per eliminare l’avversario, un cervo procurarsi delle corna “truccate”, un bisonte dopato…
Negli uomini però non funziona così. Si potrebbe pensare che la natura ha stabilito che presso gli uomini i “migliori ” siano i più criminali, i più disposti ad usare sporchi trucchi, mentire, tradire etc. Ma questi “alfa” hanno spesso causato disastri enormi e garantito epoche lunghissime di stagnazione.
Anche il cosiddetto “salto” compiuto a partire dal rinascimento è forse dovuto solo al fatto che per lo meno certi trucchi sono stati più difficili da usare, il saper pensare, l’intelligenza e una certa saggezza, cose che non si possono simulare facilmente, hanno pesato di più nella scelta delle guide.
E però è una lotta continua per evitare che si torni all’uso generale di trucchi…
Il grande trend, libertà (di impresa) per tutti, la dice lunga. Pensare che la pirateria sia portatrice di democrazia e benessere è quantomeno curioso…
Se la filosofia non ha più saputo pensare l’intero forse è perché i soliti furboni hanno un orizzonte molto limitato e di sicuro non hanno nessun interesse che si venga a formare una filosofia e una scienza in grado di abbracciare la totalità del senso della vita, e quindi smascherarli. Per lo più propendono al ritorno alle grandi religioni, che avevano questa pretesa ma che in fondo erano solo dei sistemi per avallare e legittimare i furboni. Le stesse università, nonostante la prosopopea, sono fabbriche di ideologia aristocratica, i laureati sono esseri superiori, anche se, guarda caso, sono i figli e nipoti di professori.
La complessità è certamente complessa, però direi che per quanto riguarda l’umanità certe cose sono evidenti da secoli. Gli uomini sono animali collaborativi, lasciate libere di scegliere le persone tendono spontaneamente ad un equilibrio sensato. Per esempio le società in cui le donne hanno più voce in capitolo non soffrono del problema della sovrapopolazione. Quando servono delle guide o dei coordinatori, i risultati migliori li si ottiene quando c’è una scelta “democratica” ed è possibile la critica ed eventuale sostituzione. La libera circolazione delle informazioni porta allo sviluppo di tecniche sempre migliori. E si potrebbe andare avanti per molto. Se la grande parte di attenzione che bisogna dedicare alla lotta per la sopravvivenza fosse a disposizione non ci vorrebbe molto per trovare dei nuovi paradigmi che tengano conto della complessità. Fare parte di un sistema complesso di per sè ci dà la autocoscienza appropriata, è solo lasciarla affiorare.
Viceversa l’unica situazione in cui l’approccio democratico e collaborativo raramente hanno successo, o almeno così si sostiene, è la guerra. Sarà un caso che per i millenni su cui abbiamo informazioni scritte la guerra è la sola costante ?
Il potere lotterà sempre contro la complessità, i vari “roma caput mundi”, “deutchland über alles” e nazioni dal “destino manifesto” sono l’antitesi dell’approccio sistemico alla complessità.
Insomma, il problema più che filosofico è politico…
…l’agire politico consegue una certa immagine di mondo e questa è un oggetto privilegiato dalla filosofia. Democrazia, uguaglianza, chi decide, in base a quali informazioni ed a quale preparazione, a quali condizioni di vita materiale che gli permettano o meno l’esercizio della decisione collettiva, cosa subordinare alla decisione collettiva e cosa no, tutto ciò è da definire nella filosofia politica e questa non potrà che corrispondere ad un certo intendimento etico, ad una definizione antropologica, a inferenze logiche dedotte o indotte da cose che sono, tali definite da una ontologia collegata anche a come si guarda il mondo, quindi ad una epistemologia. Per cambiare noi ed il Mondo non possiamo prescindere da come li pensiamo. Grazie per l’intervento.
Esatto!!! La Filosofia del resto non è altro che la riflessione del nostro pensiero su di se di ciò che è il mondo noumenico e fenomenico, ossia tutto lo scibile.
Tuttavia c’è un altra soluzione a questo conflitto- pensiero: il silenzio. Il silenzio come espressione massima della “complessità” ché pur comprendendola non la definisce. Osservazione profonda a-paradigmatica verso quel salto quantico dove la composizione di cui e fatto il pensiero
( frequenza di onde elettromagnetiche calcolata in “cicli al secondo o Hertz che variano a seconda del tipo di attività in cui il cervello è impegnato) viene cambiata come il cambiare posata quando si passa dal degustare un cibo liquido dopo uno solido. Altrimenti ogni suo differente modello è destinato a essere niente altro che l’ennesimo decadimento energetico verso un ulteriore appesantimento di se o degradazione energetica chiamata dal pensiero stesso entropia.
Non sono sicuro di aver compreso. La mia personale visione di mondo, quella che qui cerco di esprimere, è volta alla relazione mente-mondo. Non prende ordini solo dalla mente ma dalla relazione col mondo. Nel mondo siamo, viviamo, pensiamo, parliamo con altri a cui ci associamo per amore, amicizia, simpatia, opere comuni, vivere il più a lungo ed il meglio possibile. Questa è la complessità che m’interessa, se ha un costo entropico (e senz’altro lo ha), lo si pagherà. Non vedo l’interesse a risparmiare il costo entropico col silenzio. Col silenzio non si può vivere al meglio possibile, se non per l’onanista mistico che è agli antipodi della mia concezione di essere umano. Punti di vista…
Non so se hai compreso veramente o se sarcasticamente ci fai, visto che con retorica tacci questa mia osservazione del tuo comunque esaustivo saggio sulla relazione mente-mondo “di
presunto onanismo mistico” quando qui se c’è uno che eventualmente può essere definito un onanista mentale sei proprio tu. Ma veniamo al dunque. Il mio riferimento al silenzio voleva essere inteso come mero ascolto. Ascolto come piena relazione col mondo. Poiché è vero che come tu dici “nel mondo siamo, viviamo, pensiamo, parliamo con altri, con i quali ci associamo per amore, amicizia, simpatia, opere comuni e vivere il più a lungo ed il meglio possibile”; ma è anche vero che queste relazioni, oggi più che mai, le stiamo quasi perdendo tutte. E sai perché? Perché purtroppo sempre di più viviamo di una teoria o prospettiva (io la chiamerei persino preconcetto) tale per cui ognuno di noi e tanti insiemi di noi vivono, pensano, parlano eccetera eccetera, senza comprendersi veramente perché pieni di tante filosofie. Se è poi questa la complessità che ti interessa veramente sostienila pure! Ma ti prego, vedi di non farne una regola in cui tentare di racchiuderla. E non certo per un costo entropico ma in nome di quel vivere con amore, amicizia e simpatia queste relazioni come tu auspichi di volere, per un vivere il più a lungo ed il meglio possibile. Ma se tale ascolto è agli antipodi della tua concezione di ciò che tu concepisci essere l’essere umano, bè, vedi di non essere troppo onanista nel tuo modo di voler pensare, poiché la verità a volte e molto più semplice di come la si vuole pensare comprendere.
PS. Spero che ciò nonostante tu pubblicherai questa mia replica! Se non altro per quella onestà intellettuale cui tu dici di voler cercare e basare
l’esprimerti.
Cordiali saluti, Alberto.
Oh-oh-oh, ci siamo troppo accesi, le parole (forse) ci hanno tradito. Messo giù così, il tuo pensiero non solo lo comprendo, ma lo condivido, quasi tutto. Mi scuso se ho mal interpretato. A mia discolpa ti prego di attivare i neuroni specchio e di metterti da questa parte. Collegando “silenzio” (che non era facilmente comprensibile come ascolto nella relazione, almeno non per me) ai salti quantici e l’elettromagnetismo con la condanna entropica come spettro giudicante, forse (senza l’insieme della tua immagine di mondo che tu hai e io ovviamente non ho) saresti caduto anche tu in errore di diffidenza o affrettato giudizio. Il mio bombardamento preventivo contro gli onanisti mistici non era diretto a te che non avevo davvero compreso (però così poteva apparire e per questo mi scuso ancora), ma ad un certo tipo di commentatori seriali che purtroppo sono assai frequenti da incontrare soprattutto quanto si parla di complessità, una parola che evoca insondabili misteri da cui costoro sono attratti in modo irresistibile, come il mistico lo è dall’Inesprimibile. Visto che questi post sono pubblici, ci tenevo a far capire pubblicamente che qui si discute d’altro, di cose relativamente “concrete”, “sociali ed epistemiche” e comunque di Mondo e non di “altri-mondi” (di cui si può sempre discutere, ma non in questa sede).
A questo punto, possiamo venire a dialogo, spero. Non so se le menti sono intasate di pre-comprensioni, sicuramente non sembrano intasate di troppa filosofia, ma certamente non sono preparate al dialogo e la logica dell’Io ipertrofico impazza. Per il dialogo mancano addirittura gli strumenti, converrai che la parola scritta su Internet, per forma di scrittura, lettura e tempi dell’andar e venire del dialogo, è una falsa promessa. Internet promette salvazione dall’isolamento individuale delle nostre forme sociali-a sociali, ma poi costringe questo dialogo che umanamente dovrebbe esser pieno di mezzetinte (espressioni, sfumature, pause, interruzioni, cosa intendi per?…etc.) alla logica binaria, binaria in tutti i sensi, cioè di rette parallele che mai s’incontrano. Se poi nel meccanismo ci si mette a discutere di filosofia con post di 10 righe e senza conoscersi preventivamente, il disordine va fuori scala.
Sulla verità ho qualche problema in più a dire cos’è e se è semplice o complessa, anche perché a me sembra relativa e se non si specifica a cosa, è difficile dire. Ma prima di attizzare qualche altro diverbio dell’incomprensione sarà il caso di buttare giù un vocabolario comune. Tu, ti interessi di complessità? se sì, in che senso? Nel tuo primo post, in che senso parlavi di “conflitto”? Se vuoi continuare in privato sul sito trovi la mia mail, altrimenti sarò felice di ricevere una tua risposta pubblica.
Cordialmente
p.
Esimio Pierluigi,
Sono molto felice di constatare la tua predisposizione al volere considerazione con più attenzione il merito delle mie osservazioni.
No, non mi sono scaldato troppo. Ho solo stringatamente voluto mettere i contenuti glottologici del discorso intrapreso con te nella giusta direzione.
Ciononostante, devo umilmente ammettere che i tuoi innumerevoli articoli (ne ho letti alcuni) sostanzialmente concernenti il tema della complessità del conoscere umano sotto i vari profili sociali ed epistemologici i sono veramente pregevoli, ben fatti, perché sempre costruiti sulla base di documentazioni che hanno come punto di riferimento i più illustri esponenti storici e contemporanei della materia trattata. Ed io i non posso aggiungere nulla, se no discettare ancor più con argomentazioni che nella loro sinossi raffigurerebbero comunque la medesima sostanza concettuale. Quale? L’impossibilità checche se ne dica, di trovare criteri certi o assiomi capaci di perseguire la verità se non nella loro relatività, come tu giustamente affermi. Ma siccome sono altrettanto d’accordo con te che un dialogo con la “D “ maiuscola per via telematica incontra inevitabilmente le limitazioni spazio/temporali , nel suo esprimersi in quella logica binaria o digitale (che dir si voglia); posso cionondimeno provare a sostenerlo ugualmente, seppur con le dovute limitazioni esplicative di metodo e merito, con il dire che c’è un esperienza d’indagine effettuata dalla disciplina fisica e il suo linguaggio matematico, asserente che il rapporto mondo-mente pare oggettivamente indistinguibile. “Grazie al c.” tu allora immagino a questo punto dirai! L’ho già detto esplicitamente o implicitamente io chissà quante volte nei miei articoli di econometria, sociologia, filosofia, politologia, epistemologia ecc. eccetera“ .
Vedi caro Piergiorgio, quel punto lì è imprescindibile. Possiamo aggiungerci mille e mille dissertazioni nel tentativo di oltrepassarlo, ma entro i suoi limiti ricadremmo comunque perché lo strumento che adottiamo per scrutare ciò che oggigiorno definiamo complessità (aggregato organico strutturato in parti tra loro interagenti) è anch’esso parte interagente della medesima. Ecco allora che cosa intendo per conflittuale, nell’analisi approfondita di ciò cui consiste il pensiero. Semplice, non credi? Questa è la semplicità della realtà cui facevo riferimento.
Ora quindi avrai certamente compreso che io mi interesso è di quella complessità cui tu dottamente divulghi coi tuoi scritti fatti di rapporti e osservazioni relative alle varie discipline scientifiche e filosofiche, è, quando sono ebbro di tanta informazione e cerebralità, l’altro punto fondamentale.
Il silenzio. Il silenzio come recettività. Silenzio come ascolto profondo. Quell’ascolto che se mantenuto sempre più puro può regalare a chi lo sviluppa grandi interdisciplinari e impensabili comprensioni !!! Appunto perché pensabili non lo sono per via dell’inadeguatezza del pensiero.
Tuttavia avrei potuto parlarti anche di altre innumerevoli dotte interpretazioni della complessità, lungo il cammino della storia evolutiva umana, ma questo lo fai già egregiamente tu, sul tuo blog e per questo ti ringraziamo.
Il mio intento iniziale invece, era solo quello di dare un certo valore all’ interveto fatto da Marco, quando nella sua semplicità asseriva: “ Credo che per trovare un nuovo “se” da cui arrivare ad un “allora” ci si dovrà affidare a dei dilettanti, degli amatori della filosofia. I professionisti sono troppo irrigiditi da quello che hanno studiato ecc. eccetera“ .
In merito a ulteriori scambi di vedute e sviluppi di ciò, rimango umilmente a tua disposizione disponibile.
In cordialità, Alberto.
Caro Alberto,
l’invito di Marco l’ho fatto mio e con te, siamo già in tre che è l’incipit di ogni formazione complessa (secondo alcuni). La verità è fondabile solo come ipotesi ma quello che non capisco (non di quello che dici tu, del dibattito filosofico diciamo così “colto”) è dove stia lo scandalo, sono così che facciamo da duemilacinquecento anni, basta smetterla a sgomitarci nel dire “no, lo ho acchiappata io”, “no, l’ho acchiappata io!!” e discuterne i presupposti, ma soprattutto le conseguenze e continuare serenamente a fare quello che abbiamo sempre fatto. Quanto all’equivalenza di ogni conseguenza di ciò che discende da una ipotesi di verità, tale rimane se rimaniamo nel campo delle Idee. Ma in Protagora, in Carneade, nell’XIa Tesi su Feuerbach, in certo empirismo, secondo me anche in Kant sviluppato alla Vaihinger (poco noto ed ormai introvabile tradotto in italiano) si indica il meglio, il più probabile, ciò che ci aiuta nell’adattamento, ciò che ci permette di trasformare e costruire noi stessi ed il nostro mondo o il nostro “modo di stare al mondo”. Questa è la mia visione della filosofia. Costruttiva non solo perché, come ricordi tu, noi costruiamo la percezione che abbiamo della cosa detta Mondo, ma perché stante quella cosa che è un “mi sembra essere”, noi si provi a non subirla, a cambiarla, cambiandoci anche noi. Non vedo altra possibilità e non vedo cosa più interessante.
Sul “silenzio” credo di cogliere con l’intuizione ma c’è qualcosa in me (carattere probabilmente) che ancora resiste. Lo sposo con convinzione invece se è un richiamo alla duplice necessità del dire e dell’ ascoltare. Sarà un piacere ospitare tuoi altri interventi se riterrai, in futuro e grazie degli apprezzamenti.
Pier Luigi
(tranquillo, sono abituato al Piergiorgio e/o affini…:-))
Autorevole Pierluigi,
… e giustamente non Piergiorgio, mia probabile eredità mnemonica quale locuzione onomatopeica.
Vedi, tornando alla sostanza della nostra trattazione tu affermi “la realtà è indeterministica, ipotesi”. Esatto, non c’è nessuno scandalo nell’affermarlo, è evidente in sé ! Poi però prosegui dicendo “ la conseguenza di ogni equivalenza nel campo delle idee tale rimane se non viene tradotta in azione” e indichi in Protagora, Carneade, Feuerbach , ecc… i rilevanti sostenitori di quel accrescimento attivo finalizzato al risultato più probabile per un adattamento empirico che trasforma e costruisce noi stessi e il nostro stare al mondo in modo migliore, per usare le tue parole; affermando poi “ questa è la mia filosofia” e io aggiungo “ anche di moltissimi altri”.
Tuttavia un’altra possibilità la scorgo in ciò che fu l’esempio vitae di Eraclito (in un articolo da te ben trattato) o addirittura Socrate, nel loro esprimersi in un silenzio non filosofico del “ pànta rèi”, incarnato coerentemente in quella nessuna pretesa di volere dare forma ad alcun trattato teorico-sistematico; e così arrivati alla nostra conoscenza solo per mano di alcuni colti scriba o filosofi sviluppatori di tali consapevolezze.
Inoltre per quanto riguarda il comprendere meglio il silenzio attraverso un rapporto del dire/ascolto positivo, come tu dici, quindi relativo, finalizzato e interessato, a me sembra che si tratti ancora di un sottoprodotto di quell’ipostatizzazione che agisce per “risonanza” – non intesa come amplificazione, riverbero, bensì come mero linguaggio d’azione senza l’intermediazione del pensiero che ne è solo una sua esegesi, riflessione o elaborazione più o meno complessa e di seconda mano.
Poiché solo il profondo ascolto dell’essere ha la capacità di tramutare per induzione progressiva il Caos entropico della complessità ragionata in vero Cosmo, il solo ha non sfociare in attriti-conflittualità di parte che altrimenti reclamerebbero ognuna la loro babele di verità, vuoi essa di carattere fisico o metafisico.
Quindi alla domanda “non agire pensa o agisci e non pensare?” Io risponderei “ nessuna delle due ipotesi” poiché entrambi prodotti della ignoranza: l’una di un “ Io deterministico” e la seconda “dell’istinto quale impulso circostanziato” . Mentre la complessità indeterministica come tale non è positiva, cioè non è definibile da nessun punto perché, da un punto si generano insiemi di punti da cui a loro volta si formano rette e da queste, figure piane più o meno complesse, tridimensionali ecc … cioè idee pensiero costituenti quella individualità “eretta” con cui noi poi pretendiamo di comprendere la complessità.
E qui ritorniamo all’inizio del nostro assioma: e cioè come direbbe Pirandello nella sua letteratura “ così è se vi pare” o “uno nessuno centomila” o come la direbbe la scienza fisico matematica “ il rapporto mente mondo è oggettivamente indistinguibile”.
Bè , che dire di più se non esprimersi nel silenzio profondo dell’azione?
Alberto
Caro Alberto, rifletterò “in silenzio”. In quello che da te ascolto, ci sono cose che andrebbero approfondite in dialogo, può darsi che riusciremo a svilupparle in altri scambi che sono benvenuti. Rimane secondo me il problema dell’agire collettivo nel mondo, un agire che dovrebbe essere intessuto di dialogo, dialogo che enti intenzionali quali noi siamo, rimanda a quello che abbiamo in testa. Per carità, rendendolo debole nelle sue presunzioni di verità, trattandolo consapevolmente come quello che in fondo, un “se – allora” in cui il “se”, l’ipotesi, rimane sempre tale, ma che vedo ineliminabile per noi, animali cognitivi-intenzionali. Non è che Socrate (ammesso poter noi dire cosa era e chi era, il pupazzo del ventriloquo Platone o l’amico che salvò l’aristocratico Senofonte o la macchietta di Aristofane?) o Eraclito non avessero una loro idea a priori. E’ impossibile per noi, non “farci una idea”. Il problema semmai è come ce la facciamo, come la trattiamo e come le affidiamo le chiavi di verità. Ma appunto…ne riparleremo. Cordialmente.