TEMPO GUADAGNATO. Recensione del libro di W. Streeck

Tempo guadagnato. La crisi rinviata del capitalismo democratico, Milano Feltrinelli, 2013, € 25,00.

Wolfgang Streeck (1946) è direttore del dipartimento di studio della società del Max Plank Institute e sempre a Colonia insegna sociologia all’università. I contenuti del libro sono stati espressi in tre   “Adorno lectures” tenute nel 2012 all’istituto per la Ricerca Sociale di Francoforte.

9788807104947_quarta_jpg_448x698_q100_upscale1.Il “tempo guadagnato” del titolo, è quel quarantennio che va dai primi anni ’70 ad oggi, ma perché “guadagnato” ? Perché secondo l’autore, che è un sociologo tedesco che s’inscrive nella tradizione (sebbene rinnovata e rivisitata) della Scuola di Francoforte e con questo background sviluppa una sua “teoria della crisi”, nei primi trent’anni del dopoguerra nell’Occidente capitalistico, ci si trovò nelle condizioni di poter sviluppare con una certa facilità, molta ricchezza. In condizioni così comode, si realizzò un duraturo e diffuso compromesso tra capitale e democrazia, regolato da politiche economiche e sociali di stampo keynesiano. Poi, ai primi anni ’70, qualcosa (che l’autore non ci spiega) si ruppe nel meccanismo felice del “capitalismo della crescita”. A quel punto si ingenerarono due dinamiche. La prima fu quella per la quale la “classe di coloro che vivono di capitale (proprietari ed amministratori)” mise in revoca le precedenti condizioni di compromesso, cercando di proteggere i diritti del capitale (a scapito delle democrazia). Dall’altra, soprattutto gli stati che ben sanno quanto l’ordine sociale e politico dipenda dalla “classe di coloro che vivono di salario”, cercarono di prolungare artificialmente (l’autore parla significativamente di “droghe”) le comode condizioni precedenti anche in assenza di reali performance concrete dell’economia.

Ne venne fuori un doppio movimento fatto del noto quadrivio neo-lib di deregolamentazione, privatizzazione, finanziarizzazione e globalizzazione da una parte (per la parte della classe del capitale) ed una sequenza ritardante l’impatto tra le aspettative viziate dai – trente glorieuses – e la nuova realtà molto meno “glorieuses”, dall’altra (per la parte della classe del salario). Questa sequenza fu animata da un oceano di denaro scollegato da ogni sottostante economico, oceano che di volta in volta ha preso la forma di inflazione, debito pubblico, debito privato, riacquisto di debito da parte delle banche centrali, lunghi giri di capitale virtuale fluttuante, perennemente in fuga dalla “resa dei conti”. Con il denaro si è comprato tempo, come nella espressione tedesca –Zeit kaufen- o inglese –buying time-, per rinviare la crisi del capitalismo democratico, binomio che avendo una congenita tensione strutturale interna, regge fino a che è immerso in una ricca soluzione di liquidità circolante, scricchiola e tende a spezzarsi quando si riduce questo brodo nutritivo. Questa terapia sostitutiva ha certo allungato il brodo ma in effetto collaterale sono emerse in sequenza tre  crisi, quella bancaria, quella finanziaria e da ultima quella che in realtà era la madre di tutte le altre: quella economica.

Adorno%2018(1)Questa diluizione dello shock generato dal passaggio repentino da una ipercrescita costante ed una nuova condizione di contrazione strutturale dell’economia occidentale ha allungato il tempo, ma in questo tempo la classe dipendente dal capitale si è mostrata lucida e compatta a difesa della sua condizione, quella dipendente da i salari ha cominciato a pagare a piccole ma costanti rate negative, le nuove condizioni. Lo stato, che in realtà dipende sia da coloro che hanno capitale, sia da coloro che hanno il salario (essendo in teoria la somma di entrambi) ha progressivamente spostato il suo baricentro, dal favore democratico a quello oligarchico. Ne conseguirono limitazione dei sindacati, aumento delle diseguaglianze, persistente disoccupazione strutturale, precarietà, indebitamento pubblico poi da far scontare a chi vive di salario, riduzione e privatizzazione dei servizi sociali. Contrariamente alla vulgata pubblicitaria che vuole questa fase espressa nello slogan “meno stato, più mercato” (falsa poiché il capitale dipende dal proprio stato di riferimento in forme ineliminabili), essa in realtà si palesa come “più mercato, meno democrazia”. Lucida la tesi di Streeck, poiché evidenzia la dicotomia fondamentale, quella tra sistema economico e sistema politico e non indugia nelle false piste che pure molti ancora percorrono tra un sistema economico A ed un sistema economico B.

2. Per la classe dipendente dal capitale ad un certo punto, era essenziale inibire le facoltà economiche e fiscali dello stato perché ci mancava pure che alle difficoltà oggettive dell’economia si sommassero le velleità redistributive per generare un soffocamento delle  stesse condizioni di possibilità su cui quella classe prospera. Spesa ammorbidente la crisi sotterranea con divieto di pari imposizione fiscale ed anzi ampi sgravi alle fasce alte, porta a debito.  Ma in seguito il debito pubblico venne  trattato alla stregua di un tumore democratico, quella tipica “tragedy of commons” che nasce ogniqualvolta è assente l’individuo proprietario. Streeck è inesorabile a dettagliare in cosa in realtà sono consistite  le spese dei bilanci pubblici, i quali comunque (ad eccezione di Italia, Belgio, paesi europei del Nord) hanno fatto il loro grande balzo in avanti solo a partire da dopo la crisi banco-finanziaria recente. Ripianare i fallimenti bancari ad esempio e di contro verificare l’estesa coincidenza statistica in tutto l’Occidente di una redistribuzione verso l’alto dei redditi, con successivo impedimento di tassarli progressivamente, quindi più che alte uscite, basse entrate. Abbassare le tasse agli alti redditi ma anche abbassare i salari ai bassi redditi, direttamente o indirettamente attraverso la contrazione dei servizi.  Di contro si verifica ovunque anche la rassegnazione politica poiché le curve di partecipazione al voto, discendono costantemente, altro che ricatto democratico! Si aggiunga: sottrazione fiscale per delocalizzazione ed esportazione capitali (ed off shore), competizione dell’imposizione fiscale al ribasso per via della concorrenza generata dalla libera circolazione dei capitali, finanziamento alla spesa militare in ascesa, spesa sociale per riparare almeno in parte ai disastri della disoccupazione e sottoccupazione generata dalla fase economica così gestita, aumento delle spese per danni ambientali, aumento della spesa per infrastrutture, per la formazione del “capitale umano”, per la ricerca, tutte a favore di quella “religione del cargo” che è l’invocazione alla “crescita”,  spese per la cura dei bambini di modo che le madri possano lavorare e sempre più a lungo, etc.. Streeck

Si è passati così dallo “stato fiscale” allo “stato debitore” e da questo allo “stato consolidato”, stato che è sempre più in precario equilibrio tra il proprio popolo democratico al quale si dovrebbe riferire politicamente e il popolo del mercato al quale invece si deve riferire mostrando buoni fondamentali. La democrazia diventa pubblico intrattenimento svuotata di ogni contenuto politico effettivo poiché l’unica politica consentita è piacere ai mercati che votano comprando o meno il debito accumulato. Ne segue oltre che la perdita sostanziale di sovranità e lo svuotamento sostanziale della democrazia, il rimanere precariamente dentro situazioni schizofrenogene irrazionali (crescere, imponendosi austerità e non tassando) e il porsi in una distorsione delle stesse relazioni internazionali tra stati creditori e debitori, banche ansiose, paura reciproca di default a cui gli europei assommano pure l’irrazionale costruzione monetaria dell’euro.

3.Streeck fa risalire l’ispirazione originaria della definizione di stato di mercato (stato che deve consolidare il debito per uniformarsi al mercato) ad uno scritto del ’39 del padre dell’incubo liberal-mercatistico: hayekF. von Hayek. Il fondamento che animava Hayek era la più totale sfiducia, per non dire repulsione, per la ambizioni di autogoverno politico coltivate dagli uomini. In qualche modo, il liberalismo anglosassone prevede l’utilizzo della politica da parte dell’economia per far sì che si possano creare le migliori condizioni di possibilità per quest’ultima, pensiero magari non esplicito e coperto dai mantra sullo stato minimo e sul mercato massimo. L’ordo-liberalismo tedesco esplicita il ruolo dello stato come aiutante di campo del mercato nella gestione della cosa sociale.  Hayek invece non è affatto possibilista, la sua è una posizione radicale, l’uomo non sa e non saprà mai autogovernarsi, men che meno è in grado di intervenire nella grande complessità dei mercati che reggono il funzionamento economico, si faccia allora governare da un regolamento impersonale le cui regole sono chiare, automatiche, imparziali -le regole del mercato- e si astenga tassativamente da ogni costruttivismo tanto politico, quanto economico.

Hayek sostenne anche un ragionamento per un federalismo interstatale ipotetico (poi molto simile a quello che si realizzò prima con l’UE, poi con l’euro) con la messa in primo piano di un “single market” totalmente liberalizzato. La concorrenza degli interessi ex-nazionali, sarebbe stata la garanzia che nessuno di questi si sarebbe potuto affermare. Non sarebbero stati più difendibili in ambito nazionale poiché le governance nazionali sarebbero state svuotate di decisionalità ma non sarebbero stati neanche trasferibili a livello federale proprio perché l’interesse degli uni, si sarebbe scontrato con il disinteresse (o l’interesse contrario) degli altri. Chi avrebbe governato allora i processi? Et voilà: il mercato! Una federazione di eterogenei[1] è la migliore garanzia si venga a creare un sistema che non trova altro modo di autoregolarsi che non ricorrendo ad un regolamento tecnico, appunto, il libero mercato[2]. Tutto quanto detto oggi è realtà, si chiama Unione europea ed Unione monetaria, la sconfitta dello stato e di Keynes, il trionfo della federazione degli eterogenei governati dai mercati e di Hayek. Oggi in Europa, siamo (sono) tutti hayekiani.

graeberLa tecnocrazia bruxellese, l’usare i suoi diktat come vincolo esterno obbligato che deposiziona ogni opposizione ed ogni vincolo interno, la conseguente svalutazione della politica e il progressivo allontanamento di massa dalle elezioni, nonché la sua riduzione a spettacolo televisivo, il trionfo di organi decisionali non eletti, patti&trattati l’immodificabili, l’equazione indissolubile Europa=euro basata sul principio di irreversibilità, la costituzionalizzazione di norme limite nella conduzione economica, le procedure di repressione di bilancio ormai giudiziarie ed al riparo dalla contrattazione politica, la genuflessione al volere dei mercati come unico imperativo categorico, l’attacco continuo alla proprietà pubblica, al servizio pubblico, ai servizi sociali, la sostituzione del government con la governance, del diritto democratico col diritto obbligazionario, l’affermarsi ormai totalitario dei codici di efficienza e competitività, la trasformazione dell’umano in capitale, la rassegnazione all’ineguale redistribuzione ormai introiettata come “giusta” perché conforme all’etica della nuova religione del merito, le banche private come bene non di tutti ma che tutti debbono salvaguardare per superiori ragioni “sistemiche”, la garanzia non vi possa essere alcuna solidarietà Nord-Sud ovvero che ognuno si tragga dai pasticci con le sue forze, ecco il blueprint del progetto dell’Europa hayekiana. A sigillare il pacchetto, la stentorea affermazione che tanto, non ci sono alternative.

habermas4. L’estrema eterogeneità degli stati-nazione europei è il vincolo strutturale che impedisce di poter condividere, comunque sia fatta, una moneta comune. Ma questa è anche la stessa ragione che impedisce di pensar possibile una democrazia comune. Questo punto è invisibile per coloro che si affannano a recitare il mantra “no all’Europa neo-liberale, sì all’Europa dei popoli”. Sembra che nessuno voglia chiedersi se l’Europa oltre che una idea bella ed elegante, sia anche una idea possibile. Sembra uno di quei casi per il quale siccome la cosa ci sembra razionale, ed allora che sia reale! Anche il governo–mondo della kantiana Pace perpetua è una idea bella ed elegante, ma non si è, fino ad oggi resa possibile. L’impossibilità non è sulla volontà politica è strutturale, se uno sforzo volontaristico magicamente la rendesse possibile, essa non funzionerebbe, non avrebbe alcun presupposto per funzionare,  questo significa “strutturale”.

Nonostante l’attivazione di fenomeni di crescita fittizia a base di terapia di denaro forzato, negli ultimi quaranta anni, la media degli indicatori di crescita economica dei paesi occidentali sono scesi inesorabilmente. Negli ultimi vent’anni, l’indebitamento complessivo (stato, privati, imprese) è aumentato con costanza, anche in Germania. Se ne deduce che l’intera strategia neoliberista “copre” con una narrazione di necessità di salvazione generale (solo l’abbandono al libero mercato ci può salvare), l’egoismo della salvazione particolare di una classe (quella che vuole mantenere intatta la propria abituale entità di profitto da capitale ed anzi accrescerla) a scapito dell’altra (quella che vive di lavoro, salario, servizi sociali). Il tutto il vista della promessa di una crescita, che in realtà da quarantanni è una contrazione nonostante l’accanimento terapeutico a base di generosa liquidità. Si è generata così una differenza duplice tra le due classi (capitale e lavoro) poiché ampliata nel corso di una contrazione strutturale, che non pare avere rimedio. E destinata quindi ulteriormente ad ampliarsi poiché il debito usato per coprire la contrazione e guadagnare tempo, viene e sempre più verrà scaricato come onere sempre e solo sulla classe perdente. Il divorzio tra capitalismo e democrazia è definitivo, ma la bizzarra sentenza del mercato (?) è che alla classe salariata rimane l’affidamento ed il mantenimento dei figli, nel mentre dovrà corrispondere gli alimenti alla classe che vive di capitale.

hayek 2Che fare dell’Europa ?Così come un’economia unica non può imporre modi di vita diversi senza l’uso della forza, allo stesso modo economie e stili di vita tra loro diversi non possono essere costretti in un ordine sociale e politico comune” (Tempo guadagnato, p.206). Secondo Streeck, la complessità della eventuale riformulazione del principio ordinatore del progetto unionista europeo, dal mercato alla democrazia, si scontrerebbe con tre problemi, giudicati insormontabili. Il formalismo di una eventuale elezione diretta degli organi federali non risolverebbe il problema che questi, de facto, sono obbligati dalle strutture culturali ed economiche, dai debiti, dall’atlantismo a corrispondere comunque al credo neoliberale. L’eterogeneità intrinseca delle singole parti del sistema da formare per via politica si rifletterebbe in una infinita serie di conflitti sulle formulazioni neo-costituzionali (dalle leggi sul lavoro ai conflitti fiscali, dall’educazione alla politica estera). La stessa procedura di costituzionalizzazione sarebbe un problema in quanto, ad esempio,  l’interesse greco e quello tedesco non possono essere stabiliti da maggioranze e minoranze stante il fatto che la popolazione dei primi è quasi un settimo quella dei secondi. Un sì titanico sforzo di tutt’altra che certa riuscita, necessiterebbe di decenni e tale lunga operazione a cuore aperto sarebbe avversata da tutti coloro che nel frattempo avrebbero interesse ad interrompere e far fallire il processo. Ne nascerebbe un guazzabuglio di élite inviperite, nazionalisti imbizzarriti, separatisti in fuga, nel mentre la medietà in preda a lancinanti contraddizioni si interrogherebbe sul senso ed il prezzo di tutto ciò. Per non parlare dei tutor geopolitici tutt’altro che rasserenati dalla prospettiva di un macro-soggetto che intende transitare a piedi scalzi dal capitalismo alla democrazia.

La soluzione a tanto marasma per Streeck è un ripiegamento in attesa nasca una altra brillane idea che fino ad oggi non si è palesata. Tornare ai confini nazionali, uniche strutture conformi alla reale possibilità di un esercizio democratico e compiere come primo atto, l’annullamento della possibile circolazione dei capitali. Riunire gli stati-nazione europei in una nuova Bretton Woods che sancisca il ritorno alle monete nazionali legate tra loro da una qualche forma di serpente monetario. Ridare alle tante diversità la facoltà di agire con ragione e prudenza, alle comunque necessarie svalutazioni competitive. Lasciare al limite l’euro come moneta di conto o come moneta per lo scambio estero. Il tutto, anticipando obiezioni (come poi è accaduto nella polemica che ha opposto Streeck ad Habermas) di coloro che paventano il ritorno ai nazionalismi, tenendo conto che la più grave urgenza è avversare l’apparentemente inesorabile deriva verso il radicale liberismo hayekiano di mercato.

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imagesCAAKB44CA questo punto interverrebbe il giudizio di chi scrive. Questo giudizio verrà diviso in due. La parte di contenuto specifico verrà trattata forse in un post successivo poiché l’esposizione è già andata per le lunghe e la materia è complessa ed incomprimibile oltre un certo livello. Le questioni sollevate meritano analisi e dialogo esteso. La nota [1] esprime comunque per sommi capi la diversa visione sulla exit strategy.  Per la parte di forma generale diremo invece alcune cose qui. Il libro è eccellente. L’ultimo dei francofortesi regge i fili dell’analisi sociale, politica ed economica tessuti insieme (cum-plexum) nel mondo reale, anche nello sforzo interpretativo e questo è raro. Siamo stai inondati da libri molto più voluminosi (Streeck si contiene pur respirando con ritmo umano, in sole 217 pagine) ora sull’uno, ora sull’altro aspetto, ma queste scelte monoculari hanno tutte il difetto di distorcere l’oggetto, l’analisi e di conseguenza la prognosi. Su questo punto, Streeck, fa sicuramente dei passi in avanti. La prosa è accessibile sebbene rigorosa, l’autore è un sociologo ma le competenze economiche sono altrettanto profonde sebbene al riparo dall’esibizionismo tecnicista, soprattutto di tipo monetarista. La lettura di Tempo guadagnato, poiché il tempo è denaro ed i nostri denari sono sempre di meno, è tempo guadagnato per la comprensione degli eventi, precondizione essenziale per capire meglio il che fare, il quando e il come.

Ma il conforto più grande è vedere che l’intelligenza europea su cui tanti dubbi si sono nutriti negli ultimi tempi, non è del tutto morta. E’ questa ultima la vera luce in fondo al tunnel di cui abbiamo disperato bisogno per cercare di tornare al mondo della vita, rimettere in moto l’intelligenza politica.    


[1] Il ragionamento di Hayek non è secondo chi scrive sbagliato. Non nel senso filosofico di prediligere il mercato alla democrazia certo (la mia posizione è l’esatto contrario), ma nel senso che l’eterogeneità soprattutto dei sistemi economici, comporta questo problema di mediazione, una mediazione che oltre livelli sempre più densi di difficoltà, giunge per ragioni strutturali oggettive, presto, a livelli di semplice impossibilità. E’ per questa ragione che chi scrive ha altrove argomentato a favore dello scioglimento dell’UE e dell’euro, in favore di una Unione dei paesi mediterranei (ed ovviamente in sfavore anche a quella che sembrerebbe la soluzione più facile: il ritorno alla nazione). Le eterogeneità esistenti tra Spagna, Italia e Francia e gli altri paesi candidabili al progetto esistono ma secondo noi rientrano entro i livelli di mediazione anche molto difficili ma non strutturalmente impossibili. Avere una banca centrale prestatore di ultima istanza e sopportare un po’ più di inflazione anche per pilotare la ristrutturazione del debito e liberare risorse per politiche di resistenza alla crisi (non usiamo il termine “crescita” perché non la riteniamo –comunque- possibile), sono politicamente difficili ma oggettivamente rientrerebbero negli interessi di quei popoli. Non è questo il caso invece della Germania e dei tedeschi, comunque politicamente definiti.

[2] Nel suo scritto del ’39, Hayek stressava a tal punto l’eterogeneità, punto centrale della sua tesi, da riferirsi non solo ad una ipotetica unione europea, ma occidentale, includendo dagli americani ai sudafricani. L’eterogeneità inoltre è fondamentale in quanto permanenza delle diffidenze e degli egoismi reciproci , non compensata da un sentimento superiore di unione (quale si affermò nello stato nazione). Più aspra e conflittuale l’eterogeneità, più difficile la mediazione politica, più certo il ricorso all’unico contratto sociale da tutti sottoscrivibile, il contratto che adotta il mercato come regolamento.

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Aggiornamento Feb. ’14: Un altro riassunto della discussione intercorsa tra Streeck ed Habermas: http://www.thefederalist.eu/site/index.php?option=com_content&view=article&id=1408%3Ail-dibattito-in-germania-su-democrazia-e-unificazione-europea-il-confronto-tra-habermas-e-streek&catid=3%3Anote&lang=it

La mia posizione sulla questione europea è stata espressa qui: https://pierluigifagan.wordpress.com/2013/07/23/leuro-nostrum/.

Informazioni su pierluigi fagan

64 anni, sposato con: http://artforhousewives.wordpress.com/, due figli, un gatto. Professionista ed imprenditore per 23 anni. Negli ultimi venti e più anni ritirato a "confuciana vita di studio", svolge attività di ricerca multi-inter-transdisciplinare da indipendente. Il tema del blog è la complessità, nella sua accezione più ampia: sociale, economica, politica e geopolitica, culturale e filosofica. Nel 2017 ha pubblicato il libro: Verso un mondo multipolare, Fazi editore. Ogni tanto commenta notizie di politica internazionale su i principali media oltre ad esser ripubblicato su diverse testate on line. Fa parte dello staff che organizza l'annuale Festival della Complessità e pubblica su specifiche riviste di sistemica. Tiene regolarmente conferenze su i suoi temi di studio, in particolare sull'argomento "Mondo e complessità". Nel 2021 è uscito un suo contributo nel libro collettivo "Dopo il neoliberalismo. Indagine collettiva sul futuro" a cura di Carlo Formenti, Meltemi Editore. A seguire: "Europa al bivio. Tra radici e sfide" a cura di Vincenzo Costa, Marcianum press, 2024 Venezia e "L'era multipolare: competizione o cooperazione" a cura di Gabriele Germani, La Città del Sole, 2024, Napoli.
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5 risposte a TEMPO GUADAGNATO. Recensione del libro di W. Streeck

  1. Paolo Di Tommaso ha detto:

    Una recensione molto interessante. Complimenti!

    Ho trovato due refusi: “con un narrazione” e poco dopo “da quarant’anni è una contrazione”

  2. sinigagl ha detto:

    Mi incuriosisce la dedica del blog alla complessità.
    Perchè trovo che la prima parte, quella più generale, sia il tentativo di unire in un’unica spiegazione semplicistica ad una serie di fenomeni sconnessi: le spiegazioni semplicistiche di un mondo complesso sono infantili.
    La parte europea poi non è solo semplicistica, è proprio basata sul nulla. È l’illusione che mettendo in fila i problemi che abbiamo avuto negli ultimi 7 anni si possa dare una spiegazione a ritroso di un processo di 70 anni. Direi un atto di presunzione cosmico.
    Insomma il discorso è che la complessità si dovrebbe leggere e non tagliare per cercare di suffragare le proprie tesi…

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