CRONACA 770
LA QUESTIONE DELL’INDIVIDUO RAZIONALE. (Riflessione tipicamente domenicale) Max Weber, introdusse il concetto di unità metodologica, ogni disciplina presuppone una fondativa unità metodologica, per l’economia moderna -ad esempio- intendendo con l’espressione l’economia liberale che domina la disciplina, l’unità metodologica è l’individuo razionale. Data l’importanza che l’economia e quindi il suo pensiero, ha avuto e continua ad avere nelle nostre società, questa unità base è diventata propria anche dei sistemi di pensiero non strettamente economici, ad esempio anche quelli politici, sociali, culturali in senso più ampio. Al fondo, coscienti o meno, si parte sempre da una antropologia.
Psicologia evolutiva, neurobiologia e più in generale scienze cognitive, da ultimo anche l’economia comportamentale, hanno ratificato “scientificamente” che l’essere umano non è descrivibile come primariamente razionale. Propriamente, è la categoria stessa ad esser sbagliata, il razionale è in se stesso formato ad esempio da selezioni percettive e elementi di giudizio che risalgono al cervello rettile o per massima parte mammifero. E’ proprio la dicotomia razionale-emotivo ad esser una semplificazione che dai ragionamenti che avevano bisogno di ridurre etichettando e dicotomizzando (bianco-nero, positivo-negativo) è diventata fatto, ma che invece non è per niente un fatto.
Non è solo il doppio livello conscio – non conscio, o pancia-testa, è che anche il conscio o la testa, son fatti inestricabilmente di circuiti e neurotrasmettitori che altrimenti definiremmo “emotivi”. Non esiste un razionale immune dall’emotivo e meno male a giudicare dal corso dell’evoluzione e dai suoi risultati che poi saremmo proprio noi e la nostra storia. Personalmente, ho lavorato per venticinque anni in un settore che si fonda proprio su questa apparentemente recente verità, il settore che in tutta l’economia capitalistica raccoglie di gran lunga i maggior investimenti di bilancio delle maggiori aziende del mondo, da decenni. E’ per questa ragione che quando ho smesso di lavorare e mi sono rimesso a studiare un po’ tutto e daccapo, ho trovato iniziali scogli insormontabili di comprensibilità solo nel campo del pensiero economico, non riuscivo a capire di cosa stessero parlando visto che il loro assunto dell’homo oeconomicus individuo-razional-calcolatore era del tutto estraneo alla mia esperienza in un campo che ancora oggi drena investimenti per 560 miliardi di US$ (Zenith, 2017).
I decisori imprenditorial-razionali investono cifre enormi in un campo che si basa invece sulla convinzione che l’uomo è soggetto a credenze infondate, a mode, a grovigli pulsionali di origine animale (sesso, prestigio, distinzione, approvazione sociale, auto-conferme di valore, esibizione pubblica di cose che non si è etc etc) per soddisfare i quali spende ciò che faticosamente guadagna vendendo il suo tempo di vita. Ci si potrebbe allora domandare da dove venga questa asimmetria tra una verità pratica per alcuni scontata e oltre il limite del banale ed un sapere istituzionalizzato per le cui teorie si danno addirittura dei Nobel, con personaggi gonfi e tronfi che vanno pure in giro a dirsi scienziati.
Diceva il lucido Keynes che gli veniva da sorridere quando ad un party, orecchiava qualche politico dar enfasi a ragionamenti che in realtà erano la ripetizione di idee messe in quadro da qualche lontano economista del passato. Il fatto è che gli esseri umani pensano in gruppo e dipendono da quadri di pensiero impersonale (che chiamiamo “immagini di mondo”) costruiti nel tempo e nel tempo condivisi. Già Aristotele usava la formula “basata sull’opinione o di tutti o della grande maggioranza, o dei sapienti, e tra questi, o di tutti o della grande maggioranza o dei più noti” (Topici). Questi sistemi di pensiero si radicano nel tempo, nessuno li possiede appieno nella loro complessità e coerenza interna inestricabile, risultano in genere irriformabili almeno sino a che ciò che portano a fare e costruire, non va incontro a fallimenti clamorosi. Ci volle la morte di un terzo della popolazione europea nel 1350, per capire che il modo umano di stare al mondo non poteva interamente dipendere dal Vangelo, dalle sue derivazioni filosofiche ed antropologiche, dal governo che le strutture di potere della Chiesa esercitava sulla vita di tutti i giorni, dei dominati come dei dominanti. E ciononostante, ci vollero secoli, guerre e rivolte, morti e sofferenze per la transizione al modo moderno. Modo moderno che oggi si trova nelle stesse condizioni di quello medioevale.
L’uomo non è solo o prevalentemente razionale, agisce in base a ciò che ha in testa e ciò che ha in testa non è sua proprietà e disponibilità individuale, ma dipende da quadri di pensiero collettivi stratificati nel tempo, contenenti verità approssimate e contingenti collegate secondo logiche opinabili e necessariamente rivedibili. Quando però si incappa in una transizione storica epocale come l’attuale, dal moderno al complesso, nessuno sa bene come gettare le fondamenta di nuovi sistemi di pensiero e si rischia di dover aspettare un qualche grande fallimento epocale prima che si creino le condizioni di possibilità per una nuova struttura di pensiero adatta ai nuovi tempi.
Il punto è capire dopo le due ultime grandi transizioni, dall’Antichità al Medioevo e dal Medioevo al Moderno, cosa potrebbe comportare un “fallimento” alle dimensioni attuali del mondo occidentale o se non è il caso di darci una mossa prima di aspettare lo schianto.
CRONACA 769
L’EUROPA SGANGHERATA (Qui). Il 25 ottobre, il parlamento di Strasburgo ha votato 325 voti a favore, 1 contrario e 19 astenuti, in favore di una risoluzione non vincolante che invitava a sospendere la fornitura di armi all’Arabia Saudita. Le risoluzioni non vincolanti evidentemente fanno parte della categoria -atti senza conseguenze-, una sorta di sondaggio d’opinione che lascia il tempo che trova, per cui raggiungono facilmente la quasi unanimità salvo poi non portare alcuna conseguenza. Questo panel di opinionisti è ciò che altrove chiamiamo “parlamento”, chissà forse perché si parla …
Mentre il nostro Governo sta valutando sul da farsi ed il M5S con ben due interventi (Cataldo-Corrao) ha chiesto alla plenaria di Strasburgo addirittura l’espulsione dell’Arabia Saudita dal Consiglio dei Diritti Umani dell’ONU, il parlamento spagnolo ha direttamente votato contro l’embargo proposto da Podemos ed indipendentisti catalani, a partire dai socialisti umanitari “open borders-open markets”. Tedeschi ed austriaci spingono all’embargo, francesi decisamente contro, i primi vendono spiccioli all’ AS, i secondi fanno 1,8 mld di euro con Riad. Evidentemente “valori” in Europa, si declina in due diversi significati.
Segnalo, non tanto per denunciare la fatidica falsa coscienza o per censurare spagnoli e francesi brutti e cattivi, ma per evidenziare l’ovvio che però molti sembrano non vedere. L’UE non è un soggetto geopolitico, l’UE non può strutturalmente avere una politica estera quindi non è un soggetto sovrano. Non lo può essere poiché non è come a volte si è manifestato in storia, una confederazione militare, bensì una forma bizzarra ed ambigua di confederazione economica che rimane frazionata in 27 sovranità distinte per politica -ed entro certo limiti anche economia- interna e per la politica ed economia esterna, vincolando solo la sovranità monetaria che è espropriata e delegata ad un trattato scritto venticinque anni fa o la politica estera in termini di sanzioni ma solo quando lo decidono gli americani. Nessuno, ma proprio nessuno a parte uno sparuto gruppetto di federalisti che “contano quanto il due di coppe a briscola quando regna bastoni” ha in programma un maggior coordinamento delle politiche interne ed estere tra gli Stati componenti, l’Europa è questa e rimarrà questa perché questo è il massimo di ciò che può essere.
Se venticinque anni fa, l’anno in cui uno storico americano se ne usciva con un libro che proclamava “La fine della storia”, sembrava una buona idea porsi come prioritario il problema delle relazioni interne europee congelandole nel trattato di pace franco-tedesco in forma di euro, c’è da domandarci seriamente se venticinque anni dopo è ancora questa la priorità a cui sacrificare autonomia nazionale e significatività mondiale.
Nel frattempo sono avvenute due cose importanti: 1) il crollo di sistema del 2008-9, il rallentamento della crescita mondiale, la voluta non riforma del sistema finanziario mondiale evidentemente ritenuto necessario così com’è nella sua anarchia, il rallentamento degli scambi internazionali; 2) l’ascesa di un complesso e turbolento mondo multipolare nel quale UK ed USA per primi hanno reagito cambiando radicalmente la propria postura internazionale.
Se l’agenda dei prossimi venticinque anni si presenta con i titoli della grandi migrazioni, della competizione su info-digitale e biotecnologie che richiamano possenti investimenti, del rapporto dei tre blocchi euroasiatici tra loro e vs anglo-atlantici, della gestione del nostro macroscopico estero-vicino africano con una popolazione di 17 anni e mezzo che ci sovrasterà per popolazione di cinque volte, della nostra contrazione ed invecchiamento demografico, delle trattative sulla redistribuzione dei limiti da osservare per fronteggiare i vari problemi ambientali, della necessaria riduzione delle diseguaglianze non solo per fattori di “giustizia” ma anche per semplice logica di circolazione della ricchezza che se in mano a quelle 100 persone che hanno in mano lo stesso Pil di 4 miliardi di individui è evidentemente irrazionale, qual è il soggetto-contenitore di cui avremmo bisogno?
Andremo davvero incontro a questa terribile agenda con questo trabiccolo franco-tedesco? Cos’altro se no?
CRONACA 768
IX Festival della Diplomazia, Roma 25 ottobre 2018, Dibattito al Centro Studi Americani su Multipolarismo e Multilateralismo
TESSUTO MULTIPOLARE. Partecipando ieri ad un dibattito sul mondo multipolare – multilaterale, ho notato una certa pigrizia concettuale che non sembra ben coordinarsi con gli eventi del mondo a cui andiamo incontro. Citare la “trappola di Tucidide” che è un presunto concetto inventato da un accademico americano in piena Guerra fredda o continuare a leggere il mondo come tutta quella inutile roba che ruota intorno alla potenza americana, non mi sembra in sintonia con le fratture e discontinuità del mondo nuovo e complesso.
Qui ad esempio, abbiamo il caso dei rapporti tra Giappone e Cina, storicamente ed intrinsecamente “nemici”. Eppure, essi fanno parte dello stesso sistema geografico, l’Asia. Nella misura in cui l’intero sistema asiatico è oggi giunto a convertire demografia in crescita economica applicando i principi dell’economia moderna (scienza, tecnica, capitali, scambi di mercato), è l’intero sistema a crescere. Per il Giappone, si tratta allora non già più di dominare l’area dalla propria posizione eccentrico-isolana, presentandosi come propaggine asiatica del sistema capitalistico a guida occidentale, ma di capire come intervenire nel gioco. Viepiù oggi dopo che Trump ha dato il “rompete le righe” al presunto sistema occidentale ed ognuno dovrà meglio badare ai casi propri. Questo è il mondo multipolare, certo USA, Russia e Cina ma anche Giappone, Corea/Coree, Indonesia, Bangladesh, India, Pakistan, Iran, Turchia, Egitto, AS-EAU, Israele, Egitto, Nigeria, Sud Africa, Brasile, Messico, Canada oltre ovviamente a UK di cui aspettiamo la liberazione dai legacci europei, Francia, Germania e noi nel nostro piccolo. Ci sarà il mondiale ma anche il continentale o inter-continentale ed il locale. Aumentano i soggetti e le dimensioni di gioco (spaziali e tematiche), quindi aumentando varietà ed interrelazioni aumenta la complessità. .
Comunque, per tornare ai nostri Abe – Xi (in realtà Li Keqiang che Abe incontra oggi a Pechino), pare che faranno una jont di 45 US$ per fare una linea di treno superveloce in Thailandia. Poi magari i giapponesi faranno missili a medio raggio in joint con gli americani ma è questa la trama del multipolare complesso, tutti tenderanno a fare cose con tutti, soprattutto affari.
Naturalmente chi ha più progetti e capitali da investire guiderà le danze e chi è geloso mediterà vendetta, ma è da vedere chi dei due sarà dalla parte giusta della storia. Credo che dalla parte giusta della storia sarà chi troverà il modo non più di ragionare in termini di “alleati” ma di cointeressenze.
https://asia.nikkei.com/…/Japan-to-end-China-aid-and-propos… (link sullo stesso argomento diverso dal sottostante)
CRONACA 767
MISSILI MULTIPOLARI. Trump annuncia la volontà di ritirarsi formalmente dal trattato su i missili nucleari a medio raggio (INF) sottoscritto nel 1987. Come si intuisce dal nome, i missili a medio raggio sono armi da teatro euro-asiatico, quelli intercontinentali riguardano le potenze tra loro. I cinesi non l’hanno mai sottoscritto, gli americani denunciano che i russi lo stanno ripetutamente violando ed i russi dicono che in fondo lo hanno violato anche gli americani. L’annuncio sembra avere anche una funzione di carta da gioco per trattative di più ampio respiro all’interno della dialettica Trump-Putin di cui si aspettano nuovi incontri al vertice. La faccenda si può riassumere in due punti.
1) I missili in questione, assieme a gli sviluppi delle offensive elettroniche e digitali, costano assai meno delle armi tradizionali. In tempi di rendimenti decrescenti, sono il modo migliore per portare avanti il gioco di tutti i giochi. Per quanto costino meno, costano comunque e strategia americana già alla base della Guerra fredda, è quella di tenere in tensione di spesa i nemici, sapendo che i loro bilanci/debito sono meno capienti di quelli USA. Ogni dollaro speso in armi è un dollaro in meno da poter investire nello sviluppo economico ed alla lunga, vedi caso URSS, porta al collasso o quantomeno ad un indebolimento strutturale. Ad una minaccia nucleare “non si può non rispondere” quindi la faccenda ha la sua necessità.
2) Il secondo punto è anche più importante. I missili in questione, furono un problema cruciale specificatamente per la difesa europea che aveva l’URSS come vicino di casa. Oggi lo sono anche per tutti i vicini della Cina. Ecco allora che se gli Stati Uniti vengono snobbati dagli alleati europei ed asiatici attratti dalla capacità di spesa ed investimento cinese o dalle possibilità di fare sistema coi russi (energia vs tecnologie), sviluppare i sistemi di difesa e contro-attacco nucleari da teatro locale darebbe loro un’arma decisiva per metter ordine nel gregge. Nessun altro Paese ha infatti le capacità tecnico-finanziarie per sviluppare quelle armi che russi e cinesi hanno e sviluppato e continuano a sviluppare da par loro. Creando minacce di pioggia e vendendo ombrelli, gli USA si garantirebbero il ruolo nel “rimland” [Spykman: America’s Strategy in World Politics: The United States and the Balance of Power (1942)] senza i costi NATO o le finezze della diplomazia multilaterale estenuante e poco yankee di sua natura. NYT riporta giustamente:
“Il crollo del trattato aprirebbe probabilmente una corsa missilistica in Europa e altrove”, ha dichiarato Hans M. Kristensen, direttore del Nuclear Information Project presso la Federazione degli scienziati americani, un gruppo privato a Washington. “Segnalerebbe una nuova fase in cui i paesi sarebbero in competizione per schierare e contro-schierare le armi”. Jon Wolfsthal, un esperto nucleare del Consiglio di sicurezza nazionale durante l’amministrazione Obama, ha detto che un ritiro avrebbe rovinato l’Europa: “Questa sarebbe un’altra bomba a mano nel mezzo della NATO per dividere gli alleati”.
The Guardian aggiunge: “Questa è la più grave crisi nel controllo degli armamenti nucleari sin dagli anni ’80”, ha dichiarato Malcolm Chalmers, vice direttore generale del Royal United Services Institute. “Se il trattato INF crollasse, e con il nuovo trattato sulle armi strategiche che scadrà nel 2021, il mondo potrebbe essere lasciato senza limiti agli arsenali nucleari degli stati nucleari per la prima volta dal 1972.”
Al gioco di tutti i giochi si gioca alle potenze. La potenza, classicamente, è data da forza demografica convertita in forza economica, parzialmente convertita in forza militare (Mearsheimer, 2001). L’Europa non è un soggetto di potenza e le sue singole componenti (stati-nazione) sono condannate a continuare a cannibalizzarsi tra loro mentre la megafauna strattona strategicamente il loro non esser un sistema, condizionandolo dall’esterno.
Ma vuoi mettere quanto ci si diverte nel frattempo a discutere (financo “litigare”) di sovranità e società aperta, sforamenti di bilancio e migranti “come se” effettivamente tu potessi decidere qualcosa?
CRONACA 766
ILLAZIONI. Il 29 luglio, la lira turca (TYR) inizia la sua discesa su i mercati int’li, dal 6 al 13 agosto crolla toccando il cambio 1 TYR = 0,14 USD (a marzo era a 0.26). Facemmo un post dicendo che indubbiamente i fondamentali dell’economia turca avevano problemi (come rilevato dagli astuti studiosi di “cose economiche” che inondavano il web di forbite analisi proprio in quei giorni) ma non è che da marzo ad agosto ne fossero nati di nuovi e per altro, scossoni azionari o valutari in mezzo agosto vogliono sempre dire una sola e semplice cosa: speculazione.
In mezzo agosto i volumi degli scambi si assottigliano e se vuoi far scendere qualche quotazione ti bastano relativamente meno fiches da buttare sul piatto per creare quel dislivello tra eccesso di offerta e penuria di domanda che deprime la quotazione. Per altro, poiché lo stress verso la TYR andava avanti da un po’ (inizi di maggio), la banca centrale turca aveva probabilmente finito la valuta pregiata (USD) per rispondere a gli eccessi di vendita. Poi qualcuno ha rifornito la banca turca (pare il Qatar) e la TYR ha avuto un piccolo rimbalzo per poi tornare a 0,15 i primi di settembre. Ma da allora …
Il 12 ottobre -in maniera del tutto inaspettata-, i turchi decidono di prosciogliere e liberare il pastore protestante americano A. Brunson e le relazioni con gli USA sembrano rilassarsi. Dieci giorni prima però, il 2 ottobre, scompare l’ormai famoso J. Khashoggi. Saprete del trambusto che la faccenda ha e sta creando. Piovuta nel mezzo della campagna elettorale per le importanti elezioni di mid-term, la faccenda è seguita con foga canina dai molossi del NYT e WP per metter pressione a Trump.
L’altro ieri, Pompeo atterra a Riyad per incontrare il principe MBS. NYT rivela che proprio il giorno prima, i sauditi avevano trasferito 100 mio USD al Dipartimento di stato americano come contributo a gli sforzi prodotti dagli americani nella lotta contro lo Stato islamico (notare la deliziosa ironia che fotografa plasticamente quanto si prenda per i fondelli l’opinione pubblica mondiale che tanto un po’ non capisce niente ed un po’ fa finta di non capire. Tutti “economisti” ma quando si tratta di fare 2+2 in relazioni internazionali siamo all’asilo Mariuccia).
Poi si telefonano addirittura sauditi e turchi dicendo di volere “collaborare” per le indagini sullo scomparso. Ieri Pompeo dopo MBS va da Erdogan e non rilascia dichiarazioni. I turchi però pare abbiano fatto sentire il famoso “nastro” ad un giornalista di Middle East Eye, centrale informativa piuttosto seria con sede a Londra ma notoriamente emanazione del Qatar, fratello musulmano di Erdogan. MEE rilancia le informazioni sulle torture e taglio di testa mentre Pompeo parla don Erdogan.
Mentre sauditi ed americani paiono voler prendere la strada dell’incidente chissà da chi commesso per quanto riguarda Khashoggi, sempre MEE rivela da sue fonte saudite, che ci sono le prove dello sbarco di parte della guardia personale di MBS in Turchia prima del fattaccio e loro entrata nell’ambasciata saudita.
Insomma, questo nastro per ora lo hanno sentito solo orecchie privilegiate, la trattativa a tre va avanti. Nel frattempo ieri la TYR ha chiuso a 0,18, non lontano dai livelli di maggio quando è iniziato il braccio di ferro su i mercato internazionali. Molti si domandavano perché mai Erdogan avesse anticipato le elezioni al 24 giugno … forse sapeva che qualcuno avrebbe voluto metterlo sotto-pressione prima del loro svolgimento previsto. Forse qualcuno ha comunque condotto l’operazione sulla Lira turca in agosto. Poi qualcosa si è sbloccato, poi MBS ha fatto la grazia conducendo una operazione tipica della sua ben conosciuta impreparazione e smisurata arroganza. Adesso il Dipartimento di stato ha 100 mio di USD sauditi in più da spendere chissà come.
Vediamo ora quanto varrà la lira turca nelle prossime settimane, ovvero quanto costa quel nastro.
CRONACA 765
16.10 POTERE E’ SAPERE. Nel XIX secolo, la Guyana che si trova sulla costa nord del Sud America, era una colonia britannica. Per i britannici, spesso, colonia significava territorio controllato militarmente in cui far agire imprese private. Nel caso in questione, l’impresa era la Booker Brothers di Liverpool (che ancora esiste) che controllò almeno tre quarti dell’intera economia locale, per un secolo. I riformatori britannici fecero pressioni costanti verso il modo con cui veniva gestita la popolazione locale, premendo affinché almeno si insegnasse a leggere e scrivere ai servi-schiavi sfruttati dalla ditta. Josiah Booker, fu irremovibile nell’escludere programmaticamente questa evenienza che avrebbe incoraggiato i servi-schiavi ad avere aspettative ed aspirazioni “molto al di sopra delle loro condizioni di vita”.
Ho preso questo spunto dalla lettura di un libro che sto leggendo in questi giorni. La storiella però ha una semi-eternità, i gruppi dominanti basano il loro dominio quasi sempre su una forma di dominio culturale. Attenzione, non si fondano sul dominio materiale e poi elaborano una ideologia utile a quel dominio, anche, ma più spesso e più significativamente, raggiungono la posizione dominante in base ad una maggior potenza culturale. Sanno più cose, attingono a maggior elaborazione, conoscono quelli che paiono “segreti”.
Segreto, in greco, si dice “mistikò” e la religione più diffusa presso gli Antichi non era come abbiamo a lungo studiato la mitologia ma appunto “i misteri” talmente misteriosi che ancora oggi non sappiamo bene su cosa si basassero. Non solo la conoscenza che dà potere deve esser quella giusta ma ovviamente non deve esser divulgata.
Così è dal tempo degli sciamani paleolitici, dei sacerdoti egizi, di Ermete Trismegisto (derivato dal dio Thot, dio delle lettere, dei numeri, della geometria), delle sette pitagoriche e delle dottrine segrete di Platone, dei vari misticismi su fino a Newton alchemico deista, alla Massoneria, a Davos e Bilderberg che gli ingenui pensano sia un covo esoterico di complottisti del dominio Ancora oggi lo studioso è riconosciuto tale tanto meno si fa capire quando si esprime, come la Pizia. Ci sono cose che voi umani …
Di contro, ogni movimento di emancipazione umana ha cercato simmetricamente si allargare la diffusione di conoscenza ed ogni diffusione di conoscenza ha cambiato lo stato di cose del mondo. Sono decine, forse centinaia gli esempi da addurre a supporto dal Kerala indiano alle 150 ore dei metalmeccanici, dalla rivoluzione della macchina a stampa a quella precedente della scrittura, dal Capitale di Marx al libretto rosso di Mao e la sua successiva poi mal evoluta “rivoluzione culturale”, dall’introduzione della scuola dell’obbligo alle scuole di élite precluse al popolo su cui si fonda il potere oligarchico americano.
C’è solo una strada per cambiare lo stato delle cose nelle forme umane di vita associata ed è -tendere- all’uguaglianza delle conoscenze cosa che si può ottenere e si dovrebbe ottenere prima di imbarcarsi in qualsiasi progetto politico fattivo. Gramsci lo aveva ben capito e l’egemonia esercitata da un certo pensiero lungo tutti i ’60 ed i ’70 italiani, prescindeva di buon grado l’effettivo peso politico della corrispondenti forze politiche organizzate. Per questo Gramsci è tutt’oggi alacremente studiato nelle università anglo-americane e da cui questi ultimi hanno tratto il concetto di “soft power”. Le tre religioni del Libro lo hanno capito molto tempo addietro.
Brecht nel ’33, nel fare la sua “Lode al comunismo”, un comunismo molto umanista quello del drammaturgo tedesco, concludeva la sua poesia con una icastica (dal greco ikastikòs: che descrive, rappresenta o ritrae nei tratti essenziali, e quindi in modo efficace e spesso asciutto) definizione “E’ la semplicità che è difficile a farsi”.
Un massa di uomini e donne che hanno conoscenza non potrà mai esser dominata, ma pare che capirlo ed agire politicamente di conseguenza per aiutare tutti ad avere condizioni di possibilità per emanciparsi, sia proprio quel semplice che è difficile a farsi.
CRONACA 764
TUTTO SOTTO CONTROLLO? DI CHI? Diamo un seguito ideale al post precedente che faceva il punto sulla rivoluzione info-digitale-AI-robotica-reti e rivolgiamoci a due altre ambiti che con quello già esaminato, costituiscono un triangolo di punta dello sviluppo tecno-scientifico contemporaneo e futuro.
La genomica avanza a grandi passi. Da una parte sta incontrando livelli sempre maggiori di complessità per i quali dopo aver letto il genoma, ha capito che quello è l’alfabeto ma cosa dicano le frasi è un problema non ancora risolto. Ha anche capito che la presunzione semplicista per quale un carattere avrebbe trovato corrispondenza in un gene è infondata. Sta anche capendo che quello che aveva sprezzantemente definito DNA spazzatura (mah, e dire che questi biologi sono o dovrebbero essere “evolutivi”. L’evoluzione replica un 98% di DNA da milioni di anni, così, senza un perché, per confonderci le idee …), quello che si riteneva DNA non codificante avrebbe altresì un ruolo ma chissà quale. Inoltre, se il gene è un “in potenza”, il fatto che poi vada “in atto” dipende da una costellazione di fattori, molti dei quali esterni al DNA stesso, detti per lo più “epigenetici”. Infine, le variabili sono talmente tante e talmente differentemente correlate tra loro nel fenotipo individuale che ognuno di noi è praticamente un “pezzo unico”. Vale per le impronte digitali, per le cornee, per il cervello-mente e vale più in generale per il codice sorgente.
Poiché però, pur in questa nebbia che comunque stimola ulteriore ricerca, alcune costanti o tendenze sembrano rilevabili, si sta facendo strada l’imperativo di identificare ognuno di noi con il proprio DNA. La faccenda potrebbe esser necessaria per trattarci a livello ospedaliero in maniera rapida ed efficace o a livello di cura di qualsivoglia accidente (inclusa la faccenda dei vaccini) o di prevenzione, ma potrebbe anche diventare una richiesta necessaria per farci accendere una assicurazione sulla salute o sulla vita. Chi possiederà questi dati ed a chi potrebbe o in caso di necessità “dovrebbe” divulgarli? I dati saranno hackerabili visto che tutto sarà iperconnesso? Le aziende ci chiederanno il DNA prima di assumerci? Che rapporti evolveranno tra il “bio” ed “l’info” (DNA computing, biocomputing)? Quali chimere nasceranno dai vari esprimenti di re-writing DNA (DNA editing)? Che fine faranno? Dato che -al solito- la ricerca è spesso mossa da interessi militari, che applicazioni avrà questa conoscenza del codice a fini offensivi che al solito nascono apparentemente “difensivi”? E attenzione, non ci riferiamo solo a gli umani, ci sono virus e batteri, animali, piante tutti derivati di DNA potenzialmente manipolabile. Il fatto che la maggior parte degli umani vivrà in grandissime città con una corona di slum intorno al centro politico-commerciale, aumenta il rischio di future epidemie che poi coi voli “da qui a dappertutto” potrebbero diventare facilmente pandemie.
Intorno al tema molecolare, si agitano le ricerche farmaceutiche. Qui pare avanzarsi il sospetto che la ricerca su gli antibiotici vada incontro a rendimenti decrescenti, i batteri cambiano più veloci ed agili della nostra capacità di stargli appresso. La ricerca che è condizionata dal profitto, costa sempre di più, i tempi sempre più lunghi, la varietà di problemi sempre più ampia, vengono alla fine usati una o due settimane (se ne vendono pochi, cioè) e i ritorni su gli investimenti si fanno sempre più incerti ed a lungo tempo mentre le quotazioni in borsa pretendono risultati crescenti ed a breve. Per info, l’ultimo antibiotico creato ex novo oggi sul mercato è del 1987, trenta anni fa. Poi c’è lo sviluppo delle nano-tecnologie,la coltivazioni in vitro di interi organi o tessuti che possono riparare l’usura del tempo, l’interfaccia bio-info per esser monitorati continuativamente intervenendo anche prima dei problemi e non solo dopo, la biologia sintetica, i nuovi materiali intelligenti. Il fine vantato è quello di farci vivere meglio, ma soprattutto più a lungo. Tutti?
Tutto ciò che è enormemente più complesso di questa sua sintesi forzata ed ancora molto indeterminato, è in mano a potenze geopolitiche e dentro ed intorno a queste alla classe dominante, secondo logiche di sviluppo in parte di potenza politico-militare nazionale, in grande parte di profitto per i propri operatori economici ma in altra parte con la classe dominante come primi (o unici?) consumatori. Il rischio avanzato da nomi del tutto conformisti all’interno del pensiero dominante, ad esempio lo storico israeliano Harari o il fisico britannico Hawkings o lo storico americano Fukuyama, è che una superclasse di quasi-eterni bio-info potenziati, si stacchi dalle già sfilacciate società nazionali per formare un inarrivabile Olimpo. Hanno già l’impianto ideologico di corredo (gente sveglia questa), il “transumanesimo”, potenziato dai filosofi di corte, opinionisti, altri che fanno finta di criticarlo ma in realtà aiutano a divulgarlo.
“Cosa ne sarà dei diritti politici il giorno in cui, di fatto, saremo in grado di far nascere alcune persone con la sella sulla schiena e altre con stivali e speroni?” si domanda l’indomito e pentito autore della “Fine della storia”? Basta vedere la torma di idioti irriflessivi che replica su fb meme sul fatto che già oggi “non si può più far votare tutti” per capire come andrà a finire.
Dall’info-digitale all’ecologico, dal bio-genetico al politico ed economico in regime di stagnazione secolare, il futuro si presenta con una certezza: tutto converge verso un superamento della democrazia. Troppa complessità a fronte di troppa ignoranza. Porsi la domanda: chi deciderà? ha già oggi la risposta: i competenti. Quali saranno starebbe a noi deciderlo ma in gioco è proprio la nostra capacità, facoltà e conseguente diritto di decidere. Alla fine, la servitù sarà -come al solito- “volontaria”, invocata, desiderata.
CRONACA 763
ACCELERARE STANDO SU UN TRENO CHE RALLENTA. La crescita del Pil mondiale, dal 1960 ad oggi, presenta i tipici picchi e valli degli istogrammi cardiaci. Ma se prendiamo la media della crescita complessiva dell’economia-pianeta, dal 1960 ad oggi, la linea scende. Trattasi di percentuali ed in fondo non sarebbe poi così strano che crescendo progressivamente il montante, il di più annuo di crescita, sia una percentuale decrescente nella tipica curva a plateau. C’è una aspettativa metafisica verso questa curva di crescita che dovrebbe crescere all’infinito meglio se sempre di più ma poiché dentro la curva ci sono fatti fisici e non metafisici, e poiché come recitava il titolo di un libro del paleontologo S.J.Gould “Gli alberi non crescono fino al cielo” e pure gli elefanti e le balene, non meno dei pianeti gassosi e delle stelle ad un certo punto si assestano al volume logico-strutturale del proprio sistema, c’è da constatare che quella crescita rallentata è del tutto naturale e poco sensata è semmai l’aspettativa contraria.
Nella chart World Bank (https://data.worldbank.org/indicator/NY.GDP.MKTP.KD.ZG…) si noterà che in fondo è dagli anni ’90 che picco o valle, la media va ristagnando il che però ha un significato aggiuntivo. Dai primi anni ’90 infatti, operano a livello di economia mondiale due fattori nuovi. Il primo è l’accelerazione della globalizzazione e soprattutto l’entrata in gioco di nuovi massivi territori economici (Cina, Sud Est asiatico, poi India) che partendo da livelli di Pil bassi, hanno registrato percentuali di crescita molto importanti per lungo tempo. Il secondo è, in talune economie come le occidentali ma dato il peso di queste con riflessi sul sistema-mondo, la crescita esponenziale delle attività finanziarie al posto di quelle di economia agro-industrial-terziaria. Di quel segmento di curva che parte dagli anni ’90 ci si potrebbe domandare quanta crescita è stata determinata (drogata) da questa esuberanza di capitali fittizi. Nonostante quindi i nuovi massivi affluenti e la droga, si rallenta o si ristagna.
Ma del sistema economia mondo, in genere, frega niente a nessuno poiché il mondo e quindi il suo stato economico soffre della “maledizione dei beni comuni”, quelli che essendo di tutti, alla fine non sono di nessuno. Quello che importa i più è come va l’economia della propria area o meglio ancora del proprio Paese. Ogni economia deve accelerare anche se il treno decelera (certo che il dissidio tra logica ed economia è ben surreale).
Da qualche mese, tutti gli analisti e commentatori dell’economia-mondo, profetano l’arrivo di una contrazione, crolli repentini o discese continuate per colpa di questo o quell’accidente. Per ora, quello che si comincia a registrare è l’inizio di una discesa, poi si vedrà se e quanto violenta e brusca o dolce e costante. Troppi capitali fittizi, troppi debiti, troppe aspettative, cattive distribuzioni interne (a chi troppo a chi troppo poco), competizione “unfair” disordinante, presenza di molti meccanismi interni al sistema che potrebbero amplificare i problemi accumulati nel tempo.
Allego analisi di un giornalista e non di un economista che è il fondatore di Business Insider UK (qui), non esattamente una colonna del pensiero economico mondiale, né lui, né la testata. Dell’analisi mi interessa la composizione multifattoriale, è intuitivo che un sistema macro-complesso come l’economia-mondo risponda non ad una ma a molte variabili. Forse è sbagliata, forse è incompleta, forse giudica male singoli item, non ve lo so dire. La metto a registro per informazione generale e dibattito. L’elenco cita: guerra commerciale, debito cinese e suo free-riding non più sostenibile, venture capitalism che esagera le valutazioni, troppi debiti ad alto rischio esposti a crescenti rischi, fondi pensione che investono su andamento indici rinforzandoli senza ragione concreta, FED che compie errori, Italia pazzerella, UK non si sa dove sta andando, mine vaganti che ci metti un attimo a farle diventare “sand in the vaseline” (Turchia, Argentina, Venezuela, Pakistan), prezzo del petrolio che sta di nuovo salendo.
A me pare che di base ci siano tre problemi: c’è troppo denaro in giro che al solito per un po’ droga la crescita poi ti accorgi che la crescita è fatta di debiti ed allora è “Minsky moment”. A parte la crescita materiale dei paesi secondi e terzi, nel mondo dei primi non si produce più nulla di significativo. L’impazzimento per la “distruptive innovation” schumpeteriana porta a saldi pari, qualcosa di nuovo prende il posto del vecchio ma non aggiunge nulla in termini di saldo complessivo, anzi (caso Amazon ad esempio il cui fatturato e indice occupazionale andrebbe mediato con la perdita di fatturato ed occupati di tutte le aziende che ha fatto fallire). Dentro il treno che rallenta è iniziata la rissa geopolitica e dentro i singoli Paesi, soprattutto occidentali, è iniziata la rissa tra capitalisti (finanziari e produttivi) e tra popolo ed élite. Rendimenti decrescenti, nervosismi crescenti. Poi, di fondo, ci sono le nuove tecnologie mangia lavoro che erodono la base della domanda e le retroazioni dei limiti ambientali.
Dato l’argomento molto vasto e complesso è benvenuta la critica, l’implementazione, il dibattito su questa provvisoria fotografia con ambizioni di diagnosi. In ballo c’è sempre il come, dove, quando e perché, ma sul fatto che andiamo a casino certo, non paiono esserci dubbi, il che è da tener in debito conto …
CRONACA 762
TUTTO SOTTO CONTROLLO? (Post lungo ma necessario) L’articolo postato affronta il problema dell’etica dell’Artificial Intelligence. Propone un decalogo, se ne potrebbero fare diversi, più corti, più lunghi, è solo un esempio dei possibili. Il giuramento di tipo “ippocratico” dovrebbe esser fatto da ogni laureato in materie connesse col fenomeno che andiamo a descrivere. Da vedere poi il capitolo “controllo e sanzioni” per coloro che lo dovessero trasgredire, lì si torna la “chi decide?” di qualche post fa. Il fenomeno è il vorticoso ampliamento della nuova ricerca, creatività e tecnica applicativa sulle intelligenze artificiali (accettiamo per il momento la definizione di “intelligenza” come “capacità di risolvere problemi”), che mostra possibili evoluzioni che potrebbero, forse dovrebbero, preoccuparci ed è giusto quindi riflettere. Cosa sembra venirci incontro ?
Breve premessa storica. Il campo dell’AI nasce, come spesso è avvenuto, al seguito degli sforzi umani fatti per prevalere nel conflitto armato (IIWW), basato sulla nuova Teoria dell’informazione nata nel gruppo di ricerca della Bell incrociata alla nuova disciplina cibernetica. Cibernetica sta per “tecnica del controllo”, il termine deriva dal greco equivalente di “timoniere”. La metafora allude ad un tecnico (il timoniere ha un compito ben preciso e limitato) che deve governare un processo (la navigazione) che ha un fine (arrivare in porto) ma il cui compito è impreciso in quanto chi ha mai governato una barca sa della non linearità che c’è tra spostare il timone a destra di un tot ed aspettare per verificare quel tot del timone a quanto tot della direzione della barca effettivamente corrisponderà. Resistenza dell’acqua, correnti, idrodinamica, vento, velocità, attrito, peso ed altro si mettono in mezzo tra uomo – timone, barca-mare e direzione, scombinando un po’ la faccenda. La disciplina che nasce interdisciplinare e che costituirà assieme alla Teoria dei sistemi la doppia fondazione della cultura della complessità di cui qui spesso parliamo, ha il suo fondatore in un matematico inviato a suo tempo dagli USA in UK per aiutare i britannici a registrare i processi di rilevamento dei V2 (coi radar) e di conseguenza muovere le piattaforme di lancio dei missili intercettori ed in base al risultato, ritarare l’intero anello di processo fino a che il tutto potesse conseguire il fine preposto: abbattere i missili. L’anello del processo in questione assomigliava molto all’anello del timoniere, da cui la metafora. Lo scienziato, Wiener, passerà posi il resto della sua vita a scrivere ed a battersi per un uso pacifico ed etico della sua spaventosa invenzione, ma ormai il Vaso di Pandora era aperto. Dall’incrocio tra la tecnica del controllo e la Teoria dell’informazione, nasceranno gli sviluppi dell’AI che vorrebbe mimare la capacità umana di “fare cose intelligenti” ovvero compiere azioni che risolvono problemi.
Vediamo velocemente cosa appare all’orizzonte degli sviluppi di questa (trans)tecno-disciplina. Farò un elenco brutale. Le macchine elettroniche stanno evolvendo da sole auto-apprendendo dalla propria esperienza di processo e di informazione (data). Sappiamo che lo fanno (glielo facciamo fare noi) ma non sappiamo bene come (processo di black box). Enormi depositi di dati vengono continuamente formati e riempiti e costituiscono una ricchezza informativa centralizzata a cui tutte le macchine potrebbero accedere. La capacità di calcolo raddoppia approssimativamente ogni 18 mesi e potrebbe fare un salto ulteriore con lo sviluppo della computazione quantistica. Siamo ormai oltre l’imputazione algoritmica (fai questo con quello), le macchine traggono imput da se stesse. Che questi meccanismi possano raggiungere addirittura uno stato di auto-coscienza (singolarità) è da taluni auspicato, da altri temuto, non si sa neanche se la cosa ha basi concrete per avvenire. Se non fenomenica, almeno una coscienza funzionale sembra possibile.
Poi c’è l’allaccio di tutto ciò ad Internet, al cloud computing,
all’IoT (Internet of-delle Things-cose) la interconnessione in rete di vari tipi di elettro-aggeggi dal frigo all’automobile ad auto-guida. Intere città (smart city) delle tante sopra i 30 milioni di abitanti che si vanno formando. Esoscheletri, protesi robotiche, arti bionici. Si parla di una nuova Internet (IPv6) sicura e protetta dal cybercrime a cui però potrete accedere solo rilasciando i dati di identità (identità digitale) che ovviamente permetteranno di stoccare i vostri dati in mano a chissà chi. Internet del resto sarà progressivamente infestato a tal punto di virus, fake news, impazzimenti logici, pirati, sòle organizzate, furto di dati e soldi, che prima o poi tutti noi vorremmo fuggire dalla piattaforma “libera” (l’attuale IPv4) per auto-recluderci nel paradiso protetto. Ma gestito da chi?
Del resto, sapete come vanno queste cose, no? Quando la massa critica di tutti gli apparati della vostra esistenza saranno dipendenti dal sistema, trasmigrerete volenti o nolenti. Per un po’ verranno tollerati i ritardatari poi vi diranno che i cancelli si stanno chiudendo, poi vi chiuderanno fuori. Ogni sistema umano di vista associata si basa sulla minaccia di ostracismo. In più “dentro” la realtà è aumentata, si gode alla grandissima, è fico, è necessario ed è pure ecologico (non lo è affatto).
Di ciò, non sappiamo l’impatto che tutto ciò creerà sul lavoro e sulla sicurezza, sappiamo che ci sarà e non sarà lieve e sappiamo che tutto avverrà (già avviene) ad un velocità ben maggiore delle nostre capacità adattative. Come nel caso climatico discusso l’altro giorno, c’è un vasto fronte di negazionisti e quelli del principio di precauzione, tra cui gente come Bill Gates ed Elon Musk nonché Stephen Hawkings e nutrita pattuglia di ricercatori e scienziati (del campo) che lanciano disperati appelli, non se li fila nessuno (e notate che non ho citato “luddisti”). Meno di quelli del clima e molto ma molto meno di Burioni che almeno aiuta a vender farmaci.
Le applicazioni militari e poliziesche dei marchingegni preoccupano, soprattutto per la possibile decisione autonoma di quando e quanta violenza somministrare. Quel drone visto all’opera di recente a Gaza che sparava all’impazzata proiettili urticanti e gas venefici dal cielo è roba sud africana prodotta in Oman (non a caso, l’Oman è l’unico paese né sciita, né sunnita, né ebraico, né cristiano). Ci sono poi enormi questioni di privacy e controllo dei controllori, aspetti etici nella realizzazione di babysitter o caregiver (prestatori di cure ed assistenza ad esempio a gli anziani o ai ricoverati in ospedale) elettronici già in uso in Giappone. Poi ci sarà il capitolo “amore” nella doppia accezione sessuale e romantica. C’è poi l’applicazione gene-data-elettrobio in quel trans umanesimo che vorrebbe costruire umani più “longevi”,“felici”, “virtuosi” ed “intelligenti”. Non possiamo qui effonderci in particolari, dico solo che la semplice lettura dei testi dei tecno-entusiasti potrebbe assomigliare all’esperienza di chi si prese la briga di leggere Mein Kampf nel 1925 sorridendo di tanta idiozia. Poi però il sorriso svanì.
Infine, tutto ciò è raccontato dai pur volenterosi che ci vogliano informare di opportunità ma anche rischi e pericoli, come se avvenisse nello spazio assoluto, ma non è assoluto affatto. Questo spazio vede attivo un gruppetto geopolitico di minoranza (D5 = Estonia, Israele, Nuova Zelanda, Corea del Sud e gli immancabili UK che si scambiano qualche info), due agenti vigili-sospettosi (Cina e Russia) già auto-reclusi nel proprio spazio virtuale da cui tentano sortite pirata ed il dominio incontrastato ed assoluto del complesso militar-commercial-industriale (v.2.0) statunitense. Ai “sovranisti” ed ai credenti dello Stato “piccolo è bello”, manco gli passa per l’anticamera del cervello porsi il problema di quale sovranità si potrà avere in questo scenario, quando c’è la valuta c’è tutto! Ovviamente all’UE, più che fare leggine che ti avvertono su i cookie, non si va. Di investimenti comuni, brevetti comuni, imprese comuni, reti comuni neanche l’ombra. Frontiere aperte per migranti ma chiusissime per avere un comune cyber spazio con intelligenza strategica comune e non è cattiva volontà, è proprio la mal compresa essenza dell’UE, in comune c’è solo il mercato, tutto il resto rimane nazionale e privato.
Se i “sovranisti” sono ciechi, gli “europeisti” sono idioti e per chiudere con la saggezza inglese (Shakespeare): che epoca terribile quella in cui degli idioti governano dei ciechi. Riflettere è il consiglio del week end …
CRONACA 761
ECOLOGIA NELLA MENTE. Qualche giorno fa ho evitato di postare l’ennesimo angosciato allarme dell’IPCC sull’andamento climatico. Il rapporto si basa sull’analisi di poco meno di 7000 articoli scientifici da parte di 86 ricercatori di 40 paesi diversi (le due cifre hanno piccole oscillazioni a seconda dei giornali che riportano la notizia) che hanno poi inviato una prima sintesi ad un comitato ristretto che ha a sua volta ricevuto 40.000 commenti integrativi-interpretativi, redigendo le considerazioni finali.
Il succo del rapporto è che l’Accordo di Parigi di contenimento al +2° di riscaldamento è sbagliato perché già a 1,5° ci saranno problemi gravi. Di questo limite abbiamo già consumato il 66% perché siamo già +1°, rimane poco tempo e necessitano misure più drastiche del previsto. Il tono è allarmato-ultimativo. Se Trump già ha detto che vuole sapere “chi lo ha scritto” preannunciando la strategia del discredito delle fonti, altri come il Max Planck Institute hanno detto che il rapporto è stato eccessivamente moderato per ragioni politiche mentre altri hanno spifferato di enormi pressioni USA ed Arabia Saudita per moderarne i toni che -ciononostante- non sono moderati affatto. Evito la descrizione delle sciagure che conseguiranno gli eventi previsti, spero le sappiate altrimenti leggete uno dei tanti articoli che ne parlano (qui). Il post vuole invece parlare di una altro aspetto ovvero cosa impedisce alle nostre menti di recepire consapevolmente (primo capire, poi agire) queste informazioni?
Che posto ha l’ecologia (letteralmente: logica dello spazio in cui viviamo) nella nostra mente? Ci sono almeno sei problemi nelle nostre immagini di mondo che ci rendono evolutivamente inadatti ad affrontare il problema.
Il primo problema è che la nostra visione del mondo è locale, la nostra mente non ha visione globale. Non vedendo il sistema globale (il sistema planetario) molti di noi non capiscono l’impatto disordinante che gli eventi avranno sul sistema generale e da questo sulla propria specifica mattonella-mondo su cui vive.
Il secondo problema è che la nostra visione del mondo è tarata sull’adesso. Così come molti di noi disconoscono la trama degli eventi che hanno portato il mondo ad essere quello che è ora, così molti non hanno proprio lo spazio mentale per ragionare a dieci-trenta anni. L’egoismo dei vecchi che poi sono in genere al comando delle cose del mondo, non ha quella prospettiva proprio esistenzialmente. La nostra cultura inoltre, non è abituata alla previsione, proveniamo da tempi in cui al problema immediato si dava soluzione conseguente a breve mentre in questo caso quando si manifesteranno i problemi più gravi lo faranno accompagnandosi con l’etichetta “mi spiace, è troppo tardi, dovevi pensarci prima”.
Il terzo problema è che la nostra visione del mondo non è sistemica. La nostra mente non sa come correlare fatti demografici, ecologici, economici e finanziari, politici, culturali. Basta vedere la quantità di articoli sul web che ronzano attorno alla cronaca politica sulla polemica del giorno (ogni giorno ce ne è una) per capire quanto noi si legga il mondo solo per lo spicchio a cui siamo stati sensibilizzati. Inoltre non capiamo che tipo di retroazioni si formeranno tra la desertificazione, deforestazione, acidificazione dei mari, l’alluvione, l’estremismo degli eventi atmosferici, la riduzione di biodiversità, l’innalzamento delle acque, la diminuzione dell’acqua potabile ed il resto dello sciame delle disgrazie con lo spread ed il migrante di cui discutiamo non il fatto in sé ma il fatto che io odio chi dice che sono un problema o io odio chi dice che non sono un problema. La moderna separazione dei saperi (orti disciplinari, specializzazioni, determinismi e riduzionismi a gò-gò, logica dell’ente irrelato etc.), fa da genetica della mente “troppo piccola per non fallire”.
Il quarto problema è che ci sono molti che hanno una contro-ideologia o semplici interessi che remano contro l’assunzione responsabile di questo problema. Non solo i sospettabili naturali (americani, russi, arabi del Golfo, industriali, finanziari) anche altri come i negazionisti per ignoranza, i negazionisti per eccesso d’ansia e d’impotenza, coloro che vedono manovre del neo-liberismo anche dietro queste informazioni che sarebbero mosse dagli interessi per una nuova “finta” economica del “sostenibile”, quelli che postano Rubbia così tanto per far vedere che “a loro non gliela si fa”, gli adoratori delle femmine dei bufali, quelli che la scienza non è democratica quando parla di vaccini ma lo diventa quando parla di clima, i critici talmente critici da criticare anche la critica più critica, quelli che aprono bocca dandogli suono anche quando in effetti hanno solo da emettere aria e si vergognano di farlo dallo sfintere.
Il quinto è un derivato di tutto ciò: se pure sul piano individuale comprendo, capisco e però voglio reagire, in mancanza di sistemi collettivi di azione politica che mi danno le soluzioni pratiche perseguibili collettivamente, io “che posso fare?”. Vado in campagna, mi faccio lo yoghurt da solo, separo l’immondizia, mi faccio la doccia col catino per riciclare l’acqua, ma poi? C’è un divario tra l’individuale ed il collettivo, il problema è collettivo ma il piano delle azioni è ancora lasciato all’individuale. Del resto se coltivi l’individuale competitivo sul sociale cooperativo che t’aspetti?
Il sesto è infine il più grave. Alla fine della fiera, rapporto o non rapporto, cifra più o cifra meno, ormai è chiaro che 7,5 mld prossimi 10 di gente che vuole vivere come viviamo noi occidentali non gliela si fa, punto. S’ingenerano quindi tre problemi ulteriori: a) come distribuire gli sforzi contenitivi che limiteranno gli stili di vita? b) poiché questo sforzi, ci piaccia o meno, andrebbero a minare decisivamente il modo col quale stiamo al mondo (in senso stretto “capitalismo” in senso ampio non ha nome ma non è solo il “modo economico”) come fare ciò che sembra noi si sarebbe obbligati a fare se pur evitassimo tutte le trappole disseminate negli altri cinque punti? c) non capendo a livello di “gente” il problema quale politico -che dalla “gente” dipende- potrebbe far da catalizzatore al cambiamento?
Fallimento adattivo è quando le forme del mondo non possono esser recepite dalle forme dell’ immagine di mondo e noi siamo esattamente in quella condizione.
CRONACA 760
LE STRUTTURE DELLA FEDE. Col caso brasiliano, è giunta alla nostra attenzione la strana realtà della chiese evangeliche. Diamo prima un po’ di numeri-Mondo (i numeri vanno presi a grana grossa, fonte PEW Resaerch, varie ricerche): Cristiani 31%, Islam 23%, Induismo-Buddhismo 22%, il mondo è religiosamente parlando multipolare.
Dentro queste grandi famiglie ci sono le distinzioni dottrinarie. Se i cristiani (complessivamente in trend stabile) sono il il 31%, i cattolici sono il 16% ed i protestanti poco meno del 12% mentre gli ortodossi sono il 4% del mondo. I protestanti crescono più velocemente dei cattolici e gli ortodossi decrescono in ragione del ristagno demografico dei paesi in cui è praticata quella interpretazione (Russia ed Europa dell’est). Ma per la stessa ragione all’inverso, l’islam cresce più velocemente dei cristiani ed è meno diviso al suo interno poiché i sunniti ne sono la stragrande maggioranza tanto che i sunniti dovrebbero essere la singola interpretazione più diffusa la mondo (secondi i cattolici).
Cristiana, islamica ed ebraica son dette “religioni del Libro” poiché riferite o ad un primo fondamento testuale (Antico testamento) o a questo più un altro (Nuovo testamento) o a questo come lontana radice ma con un successivo più importante (Corano) corredato da una appendice (Sunna).
Ermeneutica è termine antico che deriva da Hermes esso stesso un dio olimpico ma messaggero tra Olimpo e mondo umano, ma messaggero è anche interprete, l’ermeneuta è quindi l’interprete. I testi infatti, sembrano chiari poiché esplicitati in linguaggio ma il linguaggio scritto è meno esplicito di quello orale (manca il contesto corporale dell’esprimente ed infatti su facebook molte intenzioni e toni di voce sfuggono alla comprensione perché sono decontestualizzate) e cambiano poi senso e significato a seconda della mente che riceve il messaggio.
Quindi le religioni del Libro hanno lo storico problema di riferirsi alle certezze dei testi (ammesso siano stati trasmessi fedelmente cosa che si può dubitare in misure maggiori o minori a seconda delle tradizioni) che però certe nell’interpretazione non lo sono affatto. In più, sono testi che dalla redazione definitiva pare di 2500 a.f. dell’Antico ai 1900 a.f. del Nuovo, ai 1400 a.f. del Corano, ad oggi sono presi dalla forbice tra l’eternità e globalità di alcune verità e la contingenza e relatività di altre verità. Per tutti questi motivi, le tre religioni del Libro (che poi sarebbero “dei Libri”) hanno prodotto una classe di interpreti, gli ermeneuti. Tali sono rabbini, imam e preti di vario tipo e gerarchia, più i teologi che però non ci sono nella tradizione ebraica e musulmana (più o meno). Naturalmente, ognuno di loro non dice apertamente che è uno degli interpreti possibili, dice che è l’interprete unico, quello giusto e ciò apre a dispute infinite che oscillano tra il dottrinario ed il bagno di sangue (Guerra dei Trent’anni, Crociate, faida sunniti-sciiti, pogrom etc.).
Erroneamente -secondo chi scrive- si ritengono le religioni motivo di guerra. La nostra attenzione selettiva che osserva le cose una alla volta così può intendere in alcuni casi, ma così può anche intendere se invece che religioni osserva etnie o ideologie o capitalismi o nazionalismi. L’ermeneuta della guerra è a sua volta chierico di qualche disciplina o ideologia ed ha interesse ad attribuire la colpa della guerra a questo o quel fenomeno o abito di pensiero, ma la guerra è fenomeno sistemico ed il problema è la lotta tra sistemi, poi sceglie in interpretazione la ragione contingente che più gli aggrada, ma ognuna di queste ragioni è stata a volte ragione di guerra, altre volte ragione di pace. Per quanto va notata la diversa natura dei sistemi asiatici dove mai si è visto alcuno brandire l’arma perché l’uno taoista e l’altro buddhista o l’uno induista e l’altro confuciano (ammesso che quella confuciana sia una religione, cosa che non è). Lì si fa “sincrestismo” che assieme al “relativismo” erano i due nemici giurati del teologo Benedetto XVI.
Ma insomma, volevamo solo far notare che protestantesimo ed islam sono accomunati dall’idea di escludere in via di principio vi sia ruolo per una chiesa centrale com’è per cattolici e diversamente per ortodossi, i testi parlano chiaro (i testi parlano chiaro, è la mente che interpreta che non è chiara affatto). A questa dichiarazione di principio fanno poi seguire ben diverse pratiche per le quali il singolo imam (che appartiene non a diverse teologie ma a diverse scuole giuridiche, quattro per la precisione) o il singolo prete protestante dà la sua interpretazione.
Tra i cattolici l’interpretazione dipende dal papa (ovvero il singolo papa esprime il consensus di una certa epoca nella gerarchia di cui è front-man) e ti può capitare il papa-periodo anticomunista (Giovanni Paolo II) o anti-capitalista (Francesco I), dipende.
Tra i protestanti invece abbiamo grande pluralismo con grandi partizioni come i luterani più o meno calvinisti, i riformati, gli anglicani, i battisti, i metodisti, gli avventisti, i presbiteriani, i pentecostali, gli evangelici (quest’ultimo fenomeno tipicamente statunitense) L’elenco in cui declinare questi ultimi è sterminato. Protestanti e islamici sono quelli però che richiamandosi alla chiarezza “inequivoca” di testi scritti secoli fa, tendono a prender per vero-giusto-buono cose vere-giuste-buone di secoli fa anche se ritengono che siano vere-buone-giuste in assoluto, potenza della fede. Entrambi, sono maggiormente a rischio di “fondamentalismo” ovvero richiamo ai fondamenti ritenuti chiari, certi, e veri.
A questo punto mi arrendo, l’intenzione di dire un paio di cose in più sulla interpretazione evangelica della fede cristiana dovrebbe partire da questa premessa ma siamo già troppo lunghi, quindi la rimandiamo ad altra occasione. In compenso, abbiamo portato all’attenzione una cosa -la credenza religiosa- che risulta svalutata solo qui in Europa occidentale mentre nel resto del mondo continua ad esercitare un ruolo decisivo nelle immagini di mondo. Chi pensa che il motore del mondo sia economico o politico si ravveda, la faccenda è più complicata, as usual …
CRONACA 759
08.10 ORDEM E PROGRESSO. Bolsonaro andrà quindi al ballottaggio ma gli mancano solo 2.5% dei voti per diventare presidente. Il personaggio è notoriamente un concentrato di nefandezze: ex-militare, nostalgico della dittatura militare, omofobo, misogino, razzista, anti-democratico viscerale, con un consulente economico della Scuola di Chicago quindi ultra neo-liberista allineato a coperto. Il tizio è anche vicino a gli interessi espansivi ed egemonici delle chiese protestanti e da tempo segnaliamo questa guerriglia interna la mondo cristiano che ha in America (tanto del Sud che del Nord) uno dei suoi (non unico) terreno di battaglia.
Sembra abbastanza chiaro che Bolsonaro non dispiacerebbe a gli USA verso i quali le élite militari, religiose e la grande borghesia carioca che lo appoggiano, guardano con grande trasporto. Ancora da meglio valutare ma la questione avrebbe grande rilevanza geopolitica e nell’allineamento BRICS e più in generale nei rapporti tra Sud America – Cina ed USA, una sorta di Dottrina Monroe di fatto in cui gli statunitensi si starebbero riprendendo il mezzo continente sottostante.
Ma la faccenda avrebbe anche un altro significato, più generale. Sembrerebbe che così come successo un secolo fa, in Occidente, il fallimento dell’ordine liberale, dopo occasionali e contraddittori rimbalzi a sinistra, porti a forme di rigidità para-fasciste. Sembrerebbe delinearsi in ripetersi di una dinamica nota per la quale il sistema generale delle società occidentali non va mai seriamente in discussione, ove tende a fallire in caos la sua interpretazione più o meno “liberal” (nell’ambigua doppia veste di liberale e progressista), si reclama rigidità ed ordine. Quello che non si può più fare con le buone, riuscirà con le cattive, tertium non datur.
A grana fine ci divincoliamo con concetti come globalizzazione e nazione, elitismo e populismo, multiculturalismo e razzismo, sovranità e mercato ma più passa il tempo della transizione, più le posizioni che sembravano aprire a nuove categorie e scenari, sembrano volersi semplificare a grana grossa nella storica oscillazione tra ordine e caos sempre all’interno dello stesso sistema, quello per il quale il potere è in mano ai detentori della potenza da ricchezza ed il circolo dei funzionari della gerarchia che li accompagna.
La faccenda americana del giudice della Corte Suprema Kavenaugh qui è stata rubricata come il solito copione della faida tra trumpiani e liberal, giocata sul tavolo dell’anti o pro femminismo, ma leggo di molti micro-fatti collegati o meno con questa faccenda da prima pagina (che non è tutta lì dove pensiamo che sia), che lanciano un’ombra sinistra sulla traiettoria della presidenza Trump. Il romanzo distopico di Philip Roth sulle possibili derive fascistoidi degli Stati Uniti d’America vengono a mente chissà se come esagerata paranoia o premonizione.
Dico solo che in termini di teoria dei sistemi, se dopo agitazione dovuta a crescenti disequilibri interni al sistema stesso, disequilibri in genere reagenti a difficoltà di adattamento a nuovi contesti, il sistema non ha energia sufficiente a saltare ad una transizione di fase che lo modifichi sensibilmente, alla fase caotica, -per reazione- sopraggiunge sempre la fase rigida.
Qualcuno ammoniva che l’anti-fascismo non ha senso in mancanza di fascismo. Intanto che si discute la fondatezza della posizione, potrebbe darsi che la Storia ci levi d’impaccio chiarendoci che le forme rigide del governo le possiamo chiamare come ci pare (ed a riguardo la presunta teoria del totalitarismo non aiuta a comprenderne l’essenza), ma sono storicamente le reazioni più probabili alla deriva di quello che sempre più vaste porzioni di popolazione avvertono confusamente come disordine.
Ordine e progresso potrebbero essere la tipica coppia da ossimoro. Del resto venne partorita dalla stramba mente di Auguste Comte e le idee mal generate, portano disgrazia.
CRONACA 758
CRONACA 757
BORN IN THE U.S.A. Allora abbiamo tre correnti di pensiero che si stanno rivolgendo con grande interesse all’Europa ed all’Italia.
Sta per uscire la versione italiana del magazine della sinistra democratico-socialista à la Sanders, Jacobin. Da un po’ di tempo siamo oggetto, noi ed altri in Europa, delle cure interessate di Steve Bannon che agisce certo non a titolo personale. Ieri ho visto addirittura la signora Meloni da Garbatella (lo dico con affetto, a me la Meloni umanamente sta pure “simpatica” e poi sono romano) sfoggiare un discreto inglese in conferenza stampa con Steve che paternamente sorrideva. Ma questi sono solo gli ultimi arrivati. Da George “Palpatine” Soros a molti altri l’internazionale liberale a guida anglo-sassone da tempo, il pensiero neo-lib (che faremmo meglio a chiamare Washington Consensus) imperversa nel sub-continente e nella penisola ed ha anche aperto succursali (Macron, Renzi, Ciudadanos).
Di contro, il teorico liberale made in UK Timothy Garton Ash, notava qualche giorno fa sul The Guardian, che gli americani anche al netto dell’interpretazione specifica che Trump dà di questo atteggiamento, non sono mai stati intrinsecamente “atlantici”, l’americano medio è americano punto. In effetti, l’atlantismo è un concetto inventato assieme a quello di “sfera occidentale”, da dopo la seconda guerra mondiale per far pacchetto tra istituzioni concrete (NATO e molto altro) e mentali (occidente bastione delle libertà e della democrazia, cioè del mercato liberale) e diffuso a livello di élite. Poi irrorato con mezzi di comunicazione ed informazione, dal cinema alla tv, ad un certo modo di far scienza o tecnoscienza, al dominio sistematico delle “nuove correnti di pensiero” che attraversano l’immagine di mondo, sezione “economia&politica” in particolare. Concludeva il TGA, anche ai fini del punto di vista liberale inglese che forse vorrebbe recuperare il rapporto con l’UE, che della separazione oggettiva per divergenza degli interessi materiali tra America ed Europa bisognerebbe farsene una ragione e cominciare a pensare “in proprio”. Trump o non Trump, il processo della divisione degli occidenti è irreversibile (e chi scrive lo sostiene da tempo).
Se TGA ha ragione, ed io penso ce l’abbia, ci si domanda: perché allora tra socialisti-democratici, sovranisti e neo-liberali americani c’è tanta attenzione ed intervento in Europa ed in Italia? Se ne dovrebbe dedurre che queste tre nuove internazionali semplicemente esportano le divisioni del panorama politico americano che non è detto siano naturali anche qui da noi o non è detto siano proprio quelle le interpretazioni che qui da noi se ne potrebbero o dovrebbero dare. Se poi uno volesse entrare in modalità sospettosa, si potrebbe anche dire che c’è un interesse americano nell’imporre questa tripartizione, perché altrimenti darsi tanto da fare a venir qui? Dove c’è gente che spende soldi, ci sono interessi. In fondo demo-socialisti à la Sanders non sono per certi versi meno sovranisti di Bannon, cambia il tasso di distribuzione sociale dei proventi della nuova auspicata autonomia nazionale. Di contro, i neo-lib (e neo-con, l’altro giorno su Repubblica c’era addirittura il “principe” di questi ultimi: Robert Kagan), perseguono la vecchia strategia dell’atlantismo che ha in vasti parti del deep state, il suo bulbo di massa. American first o America primus inter-impares sarebbero le due matrici fondamentali della visione dell’interesse propriamente americano che qui rimbalzano per regolare i rapporti con la macedonia europea da settanta anni in modalità “servitù volontaria”.
In tema quindi di decolonizzazione dell’immaginario (almeno citiamo un greco) ci si domanda ulteriormente: esiste uno specifico geo-culturale ovvero una matrice geo-storica che dovrebbe esser rappresentata nel pensiero per dirsi autonoma? In tempi in cui “Occidente” è un sistema in liquidazione, facciamo bene a pensare secondo partizioni che provengono dal centro del sistema in liquidazione? Dibattito?
No il dibattito no …
CRONACA 756
L’ECONOMIA DELLE DONNE? Con la nomina di Gita Gopinath a chief eocnomist del Fondo Monetario Internazionale, per la prima volta si compone una trinità di donne economiste al vertice delle istituzioni economiche mondiali. La Gopinath infatti, segue la nomina a giugno della francese Laurence Boone alla guida del dipartimento dell’OCSE/OECD, che seguiva a sua volta la nomina ad aprile della greca Pinelopi Koujianou (Goldberg) alla guida degli economisti della Banca Mondiale. In più, la Gopinath ha “solo” 46 anni ed è indiana, sebbene “formata” negli USA.
La Gopinath però, ha all’attivo, oltre ad una cattedra ad Harvard ed uno strepitoso curriculum, anche il ruolo di consulente economico-finanziario personale del primo ministro del Kerala indiano per altro in longeva polemica con l’IMF. Il Kerala è storicamente uno stato particolare in India, a lungo governato dai comunisti indiani (che hanno varie sigle) e con una politica molto incisiva di istruzione generalizzata che ha emancipato molte donne ottenendo così anche l’abbassamento degli indici di riproduzione che in India sono ancora -per lo più- fuori- registro. Il primo ministro è di un partito di sinistra democratica (LDF) che governa in coalizione col partito comunista e con quello comunista marxista. La stessa famiglia Gopinath ha lunghe discendenze di leader comunisti.
La “mossa” è forse sia politically correct in termini di parità sessuale, sia forse ed anche più politically correct nei confronti di tutti i paesi soci dell’IMF che per lo più sono non occidentali (in tutto sono 189) e che sono piuttosto contrariati dal dominio occidentale ai vertici dell’istituto, sia formalmente, sia praticamente (vedi gestione caso Grecia che stava costando la rielezione alla Lagarde). Come Amartya Sen, l’indiano è il testimonial perfetto di questo rispetto del resto del mondo più formale che sostanziale, parla inglese, ha tracce di cultura anglosassone, è asiatico ed ex colonia, in più sta diventando un gigante economico ma è meno alieno del cinese.
Ricordo che l’unica donna ad aver mai ricevuto il premio collegato al Nobel svedese in economia (una donna su 76 premiati) è Elinor Ostrom per il suo lavoro che segnalammo qui a suo tempo su i beni comuni. Vedremo quanto il nuovo terzetto si distinguerà per “woman’s touch” in economy o per l’interpretazione indistinta della solita ribollita neo-lib mainstream.
CRONACA 755
GUARDA CHE TI BANNO! [Post lungo e non proprio comodo e liscio] “Senza sensibilità non ci verrebbe dato nessun oggetto, e senza intelletto nessuno ne verrebbe pensato. I pensieri senza contenuto sono vuoti, le intuizioni senza concetti sono cieche. […] Entrambe le facoltà o capacità non possono poi scambiare le loro funzioni. L’intelletto non può intuire nulla, e i sensi non possono pensare nulla. Soltanto dal fatto che essi si uniscono può scaturire conoscenza. (I. Kant, Critica della ragion pura, Parte II, Introduzione).
Lo sviluppo recente delle neuroscienze, ha trovato il probabile correlato neuronale di questa intuizione di Kant. Si tratterebbe degli strati più esterni frontali del cervello che si chiamano neocorteccia. Questa è formata da fogli sovrapposti di neuroni che formano colonne di sei neuroni collegati verticalmente. I primi tre dall’alto (1-2-3) formano il sistema top-down, il sistema della mente costruttrice che impone i concetti che sono nei centri del linguaggio e le forme di elaborazione delle informazioni basate sull’esperienza passata inclusi i modelli o schemi mentali generali che chiamiamo immagine di mondo.
I secondi tre (6-5-4) formano il sistema bottom-up, il sistema della mente conduttrice che riceve le sensazioni (dai cinque sensi ma forse sono di più). I due sistemi si inibiscono a vicenda, quando funziona l’uno l’altro è in stand by. Rispetto alle scimmie con noi imparentate, pare noi si abbia più spessi i neuroni 3 e 4, quelli in cui culmina l’attività del flusso sensoriale dal basso ed in cui culmina l’attività ordinatrice della mente che interpreta, giudica ed archivia. (D.J.Siegel – I misteri della mente – Cortina editore, 2017)
La conoscenza scaturirebbe dalla relazione tra questi due flussi. In alcune condizioni post traumatiche o di assunzione di sostanze psicotrope o di stati mentali indotti ad esempio da certe forme di meditazione, la mente lascia più spazio ai circuiti bottom-up. Vi sembrerà allora di bere l’acqua per la prima volta, di ascoltare la bellezza di una musica facendovi assorbire del tutto come mai prima di allora, di avere quello sguardo ingenuo detto del principiante e che Aristotele rivendicava al filosofo per sua continua capacità di stupefarsi di tutto, da capo, ogni volta. Alla lunga però, per quanto divertente, questa modalità della mente non costruisce nulla che possa servirvi a processare il mondo a cui dovete adattarvi.
Molto più spesso, tutti noi ci troviamo in modalità top-down. Ogni cosa che vedete già la conoscete, l’avete già capita ed archiviata, incastonata in un sistema interpretativo fisso, minerale, lì dove identificate la vostra stessa identità. Tutto non fa che confermare la capacità di spiegazione dei concetti che avete in testa e la loro forma sistematica detta appunto immagine di mondo. Se dal basso arriva qualcosa di nuovo, probabilmente non ne noterete il dato di parziale novità, lo sfronderete delle eccezioni e lo riconoscerete come già saputo e giudicato. Se non si siete soli e qualcun altro vi fa notare il dato fuori teoria, vi innervosirete e se insiste, vi arrabbierete.
Il “come la pensate da sempre” non ammette modifiche, tornare all’immagine di mondo a cambiare qualche elemento o qualche connessione è faticoso ed anche rischioso poiché voi in realtà avete una immagine di mondo ma chi l’abbia costruita, come e quando, non lo sapete appieno e quindi non sapete bene come e dove metterci le mani. In più quella che avete è una variante di versioni che condividete con altri e poi spesso ha vigenza storica per cui a nessuno piace secessionare dal come la pensano gli altri o trovarsi ad essere l’unico o il primo che la pensa così.
Se semplificando diciamo che la mente emerge dal cervello (in realtà il sistema completo è più ampio coinvolgendo tanto il corpo che le relazioni esterne), questa è poi composta da molte funzioni. La funzione generale e principale però pare sia quella di intermediare tra voi ed il mondo in cui siete immersi. Fino non molto tempo fa (si parla di una manciata di decenni, sic!) si pensava che il cervello fosse cablato ab origine dai geni e tale rimaneva per tutta la vita. Oggi sappiamo che entrambe le assunzioni sono false. Il cervello si compone nel tempo, dal concepimento alla morte (più al’inizio che alla fine, s’intende) e si modifica e si può modificare anche intenzionalmente, sempre. Il cervello produce nuovi neuroni tutta la vita, si possono rinforzare certe connessioni e far cadere in disuso altre precedentemente più usate, si possono coprire gli assoni con maggiori strati di mielina che è un altro modo per rinforzare di più certe vie neurali (con uso e riuso, regola biologica estensivamente molto presente) e si può addirittura intervenire nei componenti epigenetici che modificano l’espressione dei geni. La mente emerge dal cervello e svolge la funzione adattativa, quindi anche il cervello deve modificarsi in relazione ai contesti, lentamente ma cambia.
Utilità di questo post? Prossima allo zero. Era solo per condividere un pezzo di conoscenza su come funziona (all’ingrosso) la nostra mente e su come in tempi nuovi, sarebbe fondamentale mantenere il giusto equilibrio tra i due circuiti di modo da permettere ai dati di novità, di afferire al sistema di default invitandolo, se necessario, ad acquisire nuova conoscenza anche cambiando gli schemi dati per eternamente certi. Di contro, si può ipotizzare una correlazione per la quale più fatti fuori teoria compaiono (ed in tempi di cambiamento ne compaiono tanti), più l’ottusità congenita si incaponisce a normarli negandogli il significato che hanno sottomettendoli, anche contro l’evidenza, al già noto e conosciuto. Così, quando qualcuno ci fa notare le incongruenze, scatta la difesa ad oltranza, fino all’attacco personale che avvelena molte discussioni su i social e fortunatamente, grazie a voi tutti, non qui o raramente.
Dato che la trama della nostra vita associata è fatta di comunicazione dei nostri pensieri, conoscere mezza cosa in più su come pensiamo sarebbe forse utile, ma forse il segreto del potere è tutto lì: non aprite quella porta!
CRONACA 754
INSERTO DOMENICALE. Allego ed invito a scaricare (qui) per una rilassata lettura pomeridiana (o quando sarete in grado), questa chiacchierata che è nata dalle domande di Lau Kin Chi dell’Università cinese di Lingnan poste al professor Michael Hudson Università del Missouri ma anche molto altro tra cui una recente affiliazione ad ISCANEE (International Scholars Conference on Ancient Near Eastern Economies), una nuova branca di studi di archeologia economica che riprende la solitaria tradizione di Karl Polanyi e pochi altri.
La traduzione è del mio “compagno di merende” Piero Pagliani. Una o due volte al mese potreste trovarci in una delle varie ville-parchi romani (Villa Torlonia) a chiacchierare amabilmente sulla “situazione” e l’universo mondo. I riferimenti dati da Piero (che è un “logico” di levatura internazionale) in introduzione (Braudel, Amin, Arrighi, Polanyi) fanno parte dell’idm comune che poi lui vira in termini marxisti ed io no o ni.
Due cose sottolineerei del discorso di Hudson molto noto in USA quanto ignoto qui da noi. La prima è una nota di colore intellettual-esistenziale ovvero quella sensazione di straniamento che prova colui che pur si occupa di economia a livello teorico ma provenendo da una esperienza ad un certo livello “sul campo”. L’economia reale e quella teorica sono due mondi con qualche rara sovrapposizione, qualche punto di tangenza e molta autonomia reciproca. Nei miei oramai quindicennali studi su (quasi) tutti i campi del sapere umano, quando affrontai (a più riprese) l’economia, quella teorica tradizionale fondamentale, quella di storia dell’economia che pochi frequentano e quella del dibattito più recente, impiegai molto tempo a capire esattamente di cosa stavano parlando, sopratutto nel primo e nel terzo caso. Non avevo trovato grosse difficoltà in metafisica, logica, nelle principali scienze sociali ed anche dure, coltivando una passione amatoriale per tutto ciò che riguarda cervello e mente, biologia, la meccanica quantistica e l’astrofisica, non pensavo quindi di esser un imbecille. Non capivo di cosa parlavano perché da quanto mi era stato dato da vedere nella mia venticinquennale esperienza “sul campo”, e diciamo “ad un certo livello”, ai miei occhi e memoria, i fatti economici si presentavano con logica, esperienza e significato a volte ben diverso. Mi ha fatto sorridere quindi leggere lo sconcerto di Hudson nel suo peregrinare tra Chase e Wall Street, di contro a quello che poi ha trovato nel mondo accademico.
La seconda cosa che vorrei sottolineare è la sua recente militanza nell’archeologia economica, assiro-babilonese in particolare. Scrissi non molto tempo fa, nell’ambito dei miei studi sulla formarsi delle prime gerarchie sociali, dell’ultimo libro di Liverani (a chi mai interessasse: https://pierluigifagan.wordpress.com/…/seimila-anni-di-soc…/) che raccontava di come le ultime scoperte, diano un quadro diverso della prima formazione dello “Stato”. Hudson parla di “economia palaziale” ma sarà bene rilevare che nel “Palazzo” non sedevano re o generali che s’imponevano con la forza ma sacerdoti delegati alla gestione del bene pubblico da tutti. L’inizio per Hudson non fu la proprietà privata ma le tasse, il “potere” non fu preso ma attribuito. Risuonano qui, quindi, i tanti accenni che ogni tanto faccio, alla “servitù volontaria” come motore della gerarchia. Leggete Hudson, è interessante -anche se qui non approfondito-, il divario tra il canone marxista (Engels-Childe) a lungo dominante e quello che si va scoprendo. Hudson è un marxista, per quanto di tipo suo (ma marxisti di tipo proprio pare siano la regola), interessante per chi vorrà anche la sua Wiki in inglese.
CRONACA 753
TRA DODICI ANNI. La HSBC, storica banca inglese prima in Europa e seconda nel mondo, a suo tempo sviluppatasi a partire dal 1866 tra Hong Kong e Shanghai a seguito dei fasti imperiali, ha rilasciato un rapporto previsionale sull’andamento delle principali economie al 2030, ci siamo quasi. Gli USA scendono al secondo posto impacchettati tra Cina prima ed India terza. La stima sulla Cina è confermata da IMF e già a suo tempo dal Global Report PWC. Al quarto posto un altro paese asiatico, il Giappone, al decimo, giusto dietro noi, la Corea del Sud. Vietnam con il Bangladesh, le Filippine, la Malaysia ed il Pakistan saranno le cinque economie-Paese a più rapida e consistente crescita capeggiando il gruppo dei paesi emergenti nei quali si concentrerà il 70% della crescita globale. In sempre più costante e verticale regressione molti paesi europei occidentali con popolazione piccola e sempre più anziana (Austria, Norvegia, Danimarca … adieu …) mentre performeranno meglio gli euro-orientali. Punti interrogativi e grandi potenzialità per l’Africa.
Quindi, resisteranno ancora bene gli USA in virtù dei suoi 330 milioni di cittadini con indici di riproduzione ancora vivaci (tra i migliori dell’Occidente) e per via della massa critica di investimenti in ricerca e sviluppo nelle tecnologie che gli faranno mantenere ancora un ruolo importante nell’economia-mondo (più tutto il ben noto e non secondario “resto”).
Sovraperformerà l’intero quadrante asiatico che è un sistema che ha ancora bisogno di molte cose (dove cioè l’economia ha scopi che noi abbiamo già da tempo raggiunto), ove cioè il successo dell’uno rinforza anche l’altro, stante che sono e saranno circa il 60% del mondo, molti giovani in età da lavoro ed una crescente capacità tecnologica con forti investimenti guida (Cina, India, Corea) manovrati o coordinati dallo Stato.
Sottoperformerà l’intero quadrante Europa occidentale che ha indici demografici da -cupio dissolvi-, popolazione anziana non lavoratrice e pure costosa in termini di welfare ed assistenza, incapace di competere in termini di investimenti in ricerca e sviluppo delle nuove tecnologie anche perché auto reclusa in una ideologia politico-economica senza senso nonché ostinatamente sparpagliata in staterelli antagonisti come lo erano le poleis greche prima che Alessandro prima e Roma poi ne spazzasse via le vestigia dal registro storico: “O quam cito transit gloria mundi”.
Il problema non è sapere le cose, le cose si sanno, sono chiare e razionalmente ed abbastanza oggettivamente fondate. Il problema è che il mondo che abbiamo in testa e che ci dà l’identità a cui non vogliamo, forse “non possiamo” rinunciare, prevale ad ogni costo su quello che è fuori di noi. L’immagine di mondo, è per noi più importante del mondo stesso. Alle resistenze naturali a cambiamenti così complessi come il cambiare immagine di mondo, poi si oppongono coloro che dalla vigenza di quella immagine di mondo traggono il loro potere. Quando il mondo che abbiamo in testa non corrisponde più al mondo che voleva catturare in rappresentazione, ci si va a schiantare. Così per la nostra individuale esistenza, per quella sociale e politica, per il declino delle civiltà.
CRONACA 752
CITTADINI DI COSA? Per caso mi sono imbattuto in un sito di una grande multinazionale che, nella sua auto-rappresentazione istituzionale, riportava con una certa insistenza il concetto di “cittadinanza d’impresa”, in inglese il concetto recita “Corporate citizenship – CC”. Il concetto evolve il precedente ed a me noto perché quando lavoravo mi occupavo anche di queste cose: Corporate Social Responsibility – CSR. La CSR era la vocazione delle imprese a dire che erano bravi cittadini, seguivano le leggi, erano ambientalmente corrette etc. etc., diciamo con termine che fa rabbrividire ma che si usava con nonchalance: eticamente corrette. Lo si scriveva su brochure e siti istituzionali (corporate), piaceva ai consigli di amministrazione, dicevano che rassicurava gli azionisti e bla bla bla.
Ma la Corporate citizenship è qualcosa di più. Non si legge solo come cittadinanza responsabile da parte del soggetto azienda, si legge anche come offerta di cittadinanza che l’impresa fa ai suoi dipendenti. Il tema è diventato uno dei principali compiti del CEO ed è oggi monitorato da vari indici e ricerche continuate (da Fortune a Dow Jones, da Nielsen a Deloitte). Ai temi di buona condotta sociale dell’impresa prima interni alle strategie CSR, ora si aggiungono: sconti per dipendenti, servizi sociali interni all’azienda (dal counseling all’assistenza per l’infanzia), coperture assicurative sanitarie e pensionistiche (sì, quelle che vanno viepiù a mancare negli Stati stritolati da bilanci sempre più stretti), vari tipi di benefit accessori e fidelizzanti, formazione permanente, intrattenimento e socializzazione, coordinamento di attività sociali esterne, indici di rispetto della parità di genere e di etnia, sostenibilità ed ambientalismo. Il tutto vira non più solo verso il rapporto impresa – società ma verso il rapporto lavoratore-cittadino di una impresa-società, una internalizzazione della società civile nell’impresa commerciale.
Oltre al rilievo d’opinione, la faccenda ha anche l’aspetto pratico di coltivare e fidelizzare il capitale umano, ovvero l’”asset” fondamentale di ogni impresa: il dipendente (magari promosso a collaboratore in attesa di coniare qualche nuovo termine più “riconoscente”). Ma ha anche il rilievo pratico di portare solo le grandi corporation al rango vero e proprio di “società” in quanto la faccenda ha costi e richiede impegni che le medie e piccole compagnie non possono sostenere per ovvi motivi dimensionali. Queste grandi compagnie sono poi le famose multinazionali e quindi la cittadinanza interna diventa essa stessa multinazionale, appartenenza ad una comunità trans-nazionale. Insomma se società era termine che connotava le forme dell’umano vivere associato, ora prende sempre più il carattere giuridico-commerciale di società per azioni.
Mi venivano allora in mente le tesi apparentemente surreali di Parag Khanna nel suo Connectography, ovvero superamento degli Stati in una rete di città ben amministrate sul modello Singapore al servizio di reti di imprese-città interconnesse da Internet, grandi vie logistiche e scambi commerciali. Questa rete di interessi sarebbe stata la mente, le reti materiali (ad esempio la BRI cinese) con a nodi le singole città-Stato il correlato neurale, il cervello. Questo il mondo post geografico e post politico della tecnocrazia a guida liberal-asiatica (compromesso ed alleanza tra le due forze globali) del visionario consulente globale. A questo punto, ben si capisce il perché cominciare a disegnare imprese come poleis. Poleis in cui le donne sono a pari diritti e non ci sono “stranieri” poiché sono tutti “inclusi”, solo schiavi però nominati collaboratori, magari domani nominati “imprenditori di se stessi”, per dar lustro ed entusiasmo. Il governo è ovviamente in mano a tecnici platonici che monitorano performance, in nome e per conto del capitale globale che è l’Olimpo che governa il tutto. I cittadini della nuove poleis sono tutti schiavi perché nessuno ha diritto di voto, nelle multinazionali il voto non è interno, il voto lo danno i mercati.
C’è una intelligenza impersonale in questi disegni, nessun centro occulto che disegna il mondo, solo la circolazione di idee che s’incastrano perfettamente l’una con l’altra su base di semplici visioni comuni. E’ la storica mancanza di altrettante semplici visioni comuni della controparte a permettere a questi Pochi di disegnare e gestire il mondo dei Molti che li soverchierebbero facilmente. Voi continuate a discutere di Keynes e Nazione, così l’unico ordine naturale che si contrappone logicamente a questo disegno non lo cura nessuno. L’ordine naturale delle poleis “era” la democrazia, ma a chi frega più niente della democrazia?
CRONACA 751
IMPOTENZA APPRESA Lo psicologo Martin Seligman, è il coniatore del concetto psicologico dell’ “impotenza appresa”. L’impotenza è come dice il termine il contrario di potenza ovvero di possibilità di fare, l’impotente non può fare. Quando si verifica più e più volte che non possiamo fare, non c’è nulla che possiamo fare, non è alla nostra portata fare, apprendiamo che è inutile tentare per l’ennesima volta, “apprendiamo” l’impotenza. Sono stati fatti diversi esprimenti di laboratorio a riguardo e c’è sostanziale consenso clinico sulla faccenda che -secondo alcuni- potrebbe esser, in termini esistenziali, anche alla base della depressione ovvero l’auto-limitazione al fare tanto è tutto inutile.
La simpatica affermazione fatta a suo tempo da miss Thatcher per la quale al sistema vigente semplicemente There Is Not Alternative (ripresa dall’orrido H. Spencer), così come i sorrisetti di commiserazione di coloro che ascoltano critiche ai vari sistemi dominanti, tendevano e tendono a rinforzare questo apprendimento dell’impotenza. L’apprendimento di quella impotenza è stato favorito sia dalle reiterazioni della Thatcher, dalle riprese che ne fece anche Schroder e la stampa mainstream, nonché del famoso e citatissimo (oggi deriso) libro di F. Fukuyama sulla “Fine della storia” fino al totalitarismo neo-liberale contemporaneo. Il libro di Fukuyama era proprio uscito pochi mesi dopo l’ufficializzazione della fine dell’URSS. In effetti però, in termini socio-politici nelle culture occidentali, fu proprio il collasso del sistema sovietico pur non ritenuto limpidamente la vera applicazione del sistema di pensiero di Marx, a generare la vasta e profonda depressione politica della cosiddetta “sinistra” che tutt’oggi perdura. Quel fallimento epocale è stato appreso come impotenza a cambiare lo stato di cose.
Che fosse la sinistra democratica originaria degli inizi della Rivoluzione francese o quella socialista o quella comunista, la sinistra è per lo più attratta da modelli parzialmente o in toto alternativi a quello dominante in Occidente: la società ordinata dal mercato, il mercato dalla “mano invisibile”. Modelli alternativi hanno bisogno di teorie alternative ma se l’applicazione della principale teoria alternativa (marxista) aveva dato quei risultati del tutto sconfortanti, ecco l’impotenza. Che i risultati fossero sconfortanti lo si sapeva anche prima e forse nessuno di sinistra in Occidente teneva l’URSS come reale modello di riferimento, però il collasso per ragioni interne e lo sconforto nell’apprendere le reali situazioni del sistema, fu un colpo forse non davvero elaborato dalla sinistra. La corrosiva critica di Losurdo ai “marxisti occidentali” tenacemente ancorati ad overdosi di irrealismo che li portano a schifare il tentativo cinese di far venire a patti il socialismo con le condizioni di possibilità concrete, andava su questo registro. Una sinistra prigioniera di un sistema di pensiero diroccato e ormai disabitato da chiunque sul pianeta è inconsciamente convinta che in effetti a Marx, There Is No Alternative. Tanto vale che i più vitali allora diventino social-liberisti, come in effetti è successo, non saranno più di “sinistra” ma almeno si agitano. O filo-cinesi.
La condizione difficile della sinistra è data dalla mancanza di una prefigurazione sistematica del “possibile” alternativo. La mancanza di un sistema teorico consolidato e condiviso di contro ai tenaci cultori di un idealismo ottocentesco che forse serve ad alcuni a pubblicare qualche libro o ottenere qualche cattedra, ha lasciato tutti i critici del sistema nel perdurante stato di depressione politica che continua sino ad oggi. Qualcuno, coltivando il magico del pensiero, spera che continuando a “criticare” qualcosa succederà, qualcun altro ha provato a pensare aperture alternative “a pezzi” (o economiche o culturali o politiche -assai pochi- o geopolitiche o no forse no, geopolitica e sinistra sono come l’intelligenza e Severgnini) ma nessuno è più in grado di pensare l’intero.
Sebbene gli indefinibili “progressisti” non siano marxisti è in fondo a quella teoria generale che si rifacevano ed ecco che oggi ti tocca leggere di un ricercatore di antropologia che scrive su Rolling Stone che lancia strali avvelenati contro la tribù rossobruna in nome del sacro “internazionalismo”. Ma siamo sicuri che quella “teoria” è giusta ed ancora valida? O quell’altro che gli risponde con Che Guevara “O Patria o muerte!” che c’entra come il parmigiano sulle cozze? Senza farsi mancare qualche ragioniere delle citazioni che apre e chiude le virgolette su qualche passa del Sacro Verbo delle scritture e ti fulmina con l’accusa di eterodossia. E il proletariato? E il concetto di “rivoluzione”? Ed i rapporti tra la struttura e la sovrastruttura? E la concezione “materialistica” cioè giuridco-economicista della storia? E le prefigurazioni del “comunismo” che messe assieme le frasi dell’immensa opera del tedesco che riportano il termine, stanno scarse in mezza paginetta? Quello sarebbe un possibile?
Fino a che la sinistra non ammetterà che quel sistema teorico era fallito non per cattiva applicazione ma perché è sbagliato intrinsecamente, capendo dove e come, non ci sarà la possibilità di pensarne un altro. Senza teoria, sinistra non si dà e così, come negli esperimenti su i cani di Seligman, la sinistra continuerà a restare bella depressa ed accucciata in fondo alla gabbia in attesa della punizione, senza neanche più tentare un morso che non sia a se stessa. La lezione è stata appresa quasi trenta anni fa e la lezione è che la sinistra non sa cambiare il mondo perché non sa pensarlo.
CRONACA 750
MAMMA HO PERSO IL GIUDIZIO MORALE! Il WSJ dà spazio ad una professoressa di letteratura inglese che lamenta la perdita di ruolo degli studi umanistici, perdita che si riflette in un deficit cognitivo di complessità dell’immagine di mondo, soprattutto per quanto attiene la modalità digitale (0,1; ON-OFF) del giudizio morale. Invero la perdita è ben più vasta.
Il metodo scientifico, dando per chiara la sua definizione che invero non lo è, si applica per lo più al mondo naturale particelle, atomi, molecole, organi, organismi senza valicare il passo dell’intenzionalità. Da lì in poi, in descrizione, aiutano la matematica se applicabile (raramente), la statistica, il “numero-peso misura”, limitatamente l’induzione, il cercare regole e non certo leggi ma il contenuto “scientifico” di questo mondo, il mondo della vita e dell’umano, è assai diluito e seppur presente in descrizione, mai comunque lo è in prescrizione come ebbe già a notare Hume.
Quanto alla tecnica, il modo di far cose, utilissima dal tempo in cui scheggiavamo i sassi per scarnificare cadaveri e passare dall’erbivoro all’onnivoro con potenti ricadute biologiche (nel corpo e nella mente), essa è pur sempre soggetta ai fini. Fini che non possono esser dati né dalla tecnica, né dalla scienza e che il WSJ, scegliendo una professoressa d’inglese dà evidentemente per dati, lasciando al lamento umanistico il pianto sommesso sulla perdita di “poesia del mondo”.
Il fine per il WSJ non può che essere il mercato e per il contesto del WSJ che sono gli Stati Uniti d’America, la potenza con cui questo soggetto ne domina le dinamiche traendone benefici individuali e collettivi (almeno fino ad un po’ di tempo fa, oggi l’armonia degli interessi del commonwealth è un po’ incrinata).
La vastità della perdita si apprezza maggiormente invece laddove tutti coloro che non traggono benefici dall’essere Stati Uniti d’America e redditieri positivi del processo di mercato, avrebbero interessi cogenti a ridiscutere i fini della nostra vita associata. Nei sistemi di educazione e formazione che servirebbero appunto a ridiscutere il contratto sociale, Tolstoj, Miller e Shakespeare ci mancano certo, ma ci manca invero molto ma molto di più …
CRONACA 749
LE RAGIONI DELL’ALTRO. In Europa, dopo esserci scannati per decenni per stabilire se l’ordinatore della società doveva esser politico (il principe) o religioso (il sacerdote), addivenimmo con la Pace di Augusta (1555) confermando poi la decisione a Westfalia (1648), all’accordo che l’ordinatore fosse il politico. Lì termina il medioevo (termina formalmente, i passaggi tra ere sono dissolvenze incrociate che partono molto prima e terminano davvero molto dopo). Enrico VIII, fondò addirittura una sua chiesa, l’anglicana, per avere potere sul religioso o quantomeno non subire quello di Roma. Seguì raffica di scomuniche, due ad Enrico, una ad Elisabetta.
Noto è il riproporsi del problema tra Chiesa romana e Repubblica popolare cinese. La RPC, è da sempre molto sensibile al formarsi di poteri concorrenti (vedi il caso Falun Gong, apparentemente una innocua pratica ginnico-spirituale basata sul qigong, che però aveva formato una sua casta interna che la configurava come “setta”) e mentre non ha mai avuto grossi problemi coi protestanti che non hanno una gerarchia centrale (il 95% dei “cristiani cinesi” è protestante e si segnala anche una grossa presenza in Corea ed altrove nel mondo in via di affermazione, cosa che preoccupa da tempo Roma e che non è estranea alla faccenda su gli abusi sessuali scoppiata in ambito americano), problemi ce ne sono stati e molti con i cattolici romani. Il casus belli era a nomina della gerarchie ecclesiastiche locali: a chi dare “potere”.
Dopo lunghi negoziati, pare che Vaticano e Cina abbiano trovato un accordo che non verrà divulgato perché da testare nei fatti. In prospettiva, potrebbe seguire l’agognato via libera ad una visita pastorale del papa in Cina, su cui a Roma, lavorano da anni.
Potrebbe darsi che questo accordo (è presto per dirlo) ma soprattutto gli atteggiamenti e le dinamiche sottostanti, possano rappresentare un modello per il mondo multipolare ovvero come co-esistere senza urtarsi eccessivamente. Il principio è sempre la “regola aurea”, confucianamente espressa in un concetto semplice-semplice: reciprocità – Ciò che non vuoi sia fatto a te, non farlo agli altri (Lun Yu 15, 23)
Gente che sta al mondo da tanto tempo, impara dai propri errori (lentamente a volte) ed ha intenzione di starci ancora a lungo. C’è solo da imparare …
CRONACA 748
L’ORA DI CULTURA GENERALE. Concediamoci una immaginazione. Immaginiamo che, postoci il problema del futuro di cui qui spesso proviamo a dare squarci ipotetici, ci si ponga il problema di “preparare” quelli di noi (i più giovani, stadio liceale) che dovranno adattarsi a questo scenario che appare ben diverso da quello che abbiamo vissuto nel recente e meno recente passato. Ci poniamo cioè il problema della “cultura animi” di Cicerone, colui che usò per primo il termine “cultura” mutuandolo dal vocabolario agricolo, come accudire la crescita ambientata di una pianta, come accudire la crescita ambientata dell’animo umano, -in parte- quella che i Greci chiamavano “paideia” ovvero educazione.
A tal fine, sarebbe forse utile, introdurre un nuovo corso di studio con ambizioni generalissime, posto cioè sopra le divisioni tra saperi scientifici, sociali, umanistici, artistici, tecnici, religiosi. L’unico filosofo della complessità che abbiamo, Edgar Morin, dedicò un delizioso libricino a riguardo: I sette saperi necessari all’educazione del futuro (Cortina editore). Lo penderemo a guida ma non lo seguiremo del tutto per fare ipotesi sul nostro corso di “cultura generale”. Il fine di questo corso è introdurre l’animo umano all’era complessa in cui cercherà le sue gioie, trovando però anche qualche inaspettato dolore.
Morin pone all’inizio la necessità di dare qualche linea di conoscenza sulla conoscenza stessa. Noi tutti consociamo, pensiamo, giudichiamo, organizziamo le memorie etc. ma lo facciamo in modo istintivo, partiamo cioè con dato lo strumento che conosce e lo usiamo così o colà, come meglio ci viene. Sarebbe invece il caso di dare qualche linea di conoscenza proprio su come conosciamo, com’è fatto e come funziona l’organo della conoscenza (tanto mente, quanto corpo) soprattutto su errori ed illusioni, false strade e cattive alimentazioni a cui sottoponiamo l’organo. Già solo il notare che lo strumento va pensato problematicamente oltreché usato, sarebbe un buon insegnamento.
Seguirebbe quella che chiamo la “situazione principale”. La situazione principale per chiunque è data da Io – Mondo, loro relazione. Vediamo meglio.
“L’essere umano è nel contempo fisico, biologico, psichico, culturale, sociale, storico. Questa unità complessa della natura umana è completamente disintegrata nell’insegnamento, attraverso le discipline.” Così Morin nel terzo capitolo del suo libricino. Inquadrare complessivamente quello che chiamiamo “Io”, inquadramento che ne darebbe la sfaccettata complessità, sarebbe un buon viatico per lo sviluppo individuale futuro. Molte di queste sfaccettature, verranno poi apprese meglio negli insegnamenti delle singole discipline, qui sarebbe necessario riepilogarle e soprattutto metterle in relazione tra loro.
Quanto a Mondo, siamo di nuovo a riepilogare altri saperi ma integrandoli con squarci sulla demografia, la globalizzazione, la tecnologia, l’ecologia e financo la geopolitica. Una presa di coscienza dell’ambiente grande in cui ogni futuro aspetto della vita dell’individuo andrà a collocarsi. Di nuovo, il portato primo di questa sezione sarebbe la capacità di mettere in problematica interrelazione i diversi aspetti, abituare a porsi i problemi in forma integrata, sapere almeno che se il nostro destino personale o le nostre preferenze si limiteranno poi a certi aspetti specifici, questo piccolo mondo è sempre inscritto in un bel più grande e complesso mondo.
Infine, la relazione tra Io e Mondo, intermediata dalla nostra mente (capacità cognitiva e psichica), dai nostri vari tipi di relazione reciproca che infine giungono a formare la “società”, le sue principali componenti istituzionali come l’economia, la cultura, la religione, la info-comunicazione, gli aspetti giuridici, la forza bellica e quant’altro.
Colui/colei che tiene il corso andrà certo preparato a sua volta in un corso universitario, ma sarebbe interessante anche provare ad immaginare “lezioni tematiche” in cui il docente ospita in sequenza psicologi, antropologi, economisti, sociologi, storici delle idee, giornalisti, artisti, geopolitici, scienziati del’ambiente, informatici, dando così anche qualche utilità ai tanti “laureati in attesa di giudizio” e dando ai discenti informazioni e cognizioni “vive” ed attuali.
Quando ero ragazzo e facevo “politica” in una scuola “turbolenta”, organizzammo una contro-didattica nella lunga auto-gestione della scuola occupata (ai tempi andava molto questa forma di precoce autonomia studentesca) basata proprio su lezioni tenute da universitari su i vari saperi. Il fine era quello di introdurre alla successiva scelta del corso di laurea ma in realtà ebbe un successo enorme anche presso coloro che erano ai primi anni. C’è una attitudine fertilissima nei ragazzi di quella età che l’evoluzione ha pensato utile dotarci: la curiosità.
Così, per -ogni tanto- provare a “costruire” e non solo a “de-costruire”. L’ora di “cultura generale” mi parrebbe un buon servizio al futuro della pianta: imparare a pensare il tutto.
Fatto nel Paese che quando è malinconico si tira su dicendosi di esser stato la patria dell’Umanesimo e del Rinascimento, sarebbe un bel segnale. Già m’immagino la copertina del testo del corso con l’immagine di Giovanni Pico …
CRONACA 747
PATRIA, IDENTITA’, SOVRANITA’, COSMOPOLITISMO, GLOBALISMO, INTERNAZIONALISMO. Premetto che questo è un post scritto di getto (del resto li scrivo quasi tutti così), interviene su materia aggrovigliata, genererà reazioni contrastanti. L’elenco del titolo è il menù di una corposa e feroce discussione che sta agitando il mondo delle idee politiche e la sua parte sinistra in particolare. La mia posizione riguardo ciò a cui alludono questi termini è nota, ma la ripeto in 7 passaggi schematici (la debbo premettere per giustificare ciò che dirò alla fine). In breve (si fa per dire…) :
1) gli unici soggetti politici dotati di potenza sono gli Stati, esistono solo Stati da cinquemila anni, la forma giuridico-politica propria delle forme di vita umana associata è lo Stato (più o meno poi precisabile in definizione ma questo è un altro problema. Regni, poleis, principati, imperi, califfati, Stati moderni sono assimilati all’ingrosso);
2) gli Stati europei detti Stati-nazione, provengono da tempi storici del tutto diversi da quelli attuali e futuri. Non già quello italiano o tedesco che sono arrivati per ultimi, ma i primi, quelli che hanno inventato il formato (francesi, poi inglesi e spagnoli – portoghesi), agivano nel contesto storico limitato dell’Europa occidentale del XV secolo (‘400);
3) sarebbe opportuno che gli Stati europei pensassero ad un loro ampliamento, alla fusione di gruppi di loro secondo il principio della massima omogeneità possibile dei popoli poiché oggi lo scenario adattivo non è più il limitato spicchio medioevale/pre-moderno dell’Europa occidentale ma il mondo intero e sono altresì molto diverse le questioni che lo Stato deve risolvere, ovvero il suo popolo;
4) la massima omogeneità possibile è necessaria perché non si possono fondere stati eterogenei con popoli dalle culture materiali ed immateriali ancora più eterogenei. Gli stessi Stati-nazione nacquero unendo popolazioni non perfettamente identiche ma poiché vicine, con una certo tasso di omogeneità culturale e storica che nel tempo poi si omogeneizzò progressivamente ulteriormente. Laddove questa non c’era per niente, come nell’isola britannica in cui i gallesi, gli scozzesi, gli irlandesi resistevano strutturalmente all’assimilazione con gli inglesi, non si fece “nazione” e si fece comunque Stato in quanto Stato e nazione non sono concetti coincidenti, il primo è più vasto del secondo come dimostrano i tanti stati federali, in genere con più popoli federati dentro un unico Stato (poi ci sono nazioni come i curdi che non hanno Stato ma questo è un altro discorso o nazioni “disperse” in più stati);
5) date le premesse il concetto “Stati Uniti d’Europa” non ha senso poiché non si rinviene alcuna omogeneità per quanto relativa tra i 27 stati dell’Unione, né tra i 19 del sistema euro. Gli europei sono “relativamente” omogenei se comparati a gli arabi o a gli africani o a gli asiatici ma questo non è base per un requisito di omogeneità per fusione o incorporazione;
6) poiché il concetto non ha futuro possibile e poiché la condizione attuale di una Unione che non è uno Stato e quindi è un ibrido condominio di sovranità spezzettate qui e lì e quando sono lì, a Bruxelles, non si sa bene in mano a chi stanno non essendo mani parlamentari, quindi democratiche; poiché quindi sembra una transizione ma nessuno sa verso cosa (e quindi –giustamente- si suppone non sia una transizione ma uno stato ambiguo permanente che conviene a pochi e non a molti), tanto vale battersi per riportare la sovranità politica all’interno dei contenitori statali che poi sono quelli che la Storia ci ha dato, i nostri vecchi e non più adatti Stati-nazione;
7) poiché però abbiamo detto che questo format non è più adatto alle condizioni di contesto contemporanee e viepiù future, sarebbe opportuno varare prarallelamente progetti di fusioni federali di Stati plurinazionali secondo il principio di massima omogeneità possibile. Per quanto ci riguarda, l’omogeneità greco/latino-mediterranea (i 200 mio di europei che affacciano sul Mediterraneo, oggi divisi in 5/7 stati diversi). Si tratterebbe di una “transizione” in cui da una parte si torna in possesso delle piene sovranità (almeno formalmente, sul piano concreto il formato Stato-nazione europeo non può essere davvero sovrano a partire dal fatto militare, ma anche economico e valutario per non parlare del geopolitico) e dall’altra si costruiscono le premesse per un nuovo progetto.
Del resto, dalla fine dell’Antichità che fa da spartiacque, la traiettoria della Storia è la triplice ed intrecciata corda del filo dell’aumento delle popolazioni, l’intensificazione delle interrelazioni tra popoli e territori a breve-media-lunga distanza, forme di sovranità di estensione sempre più ampia. Ricordo che l’Europa ha meno del 7% del territorio mondiale con più del 25% di Stati, è cioè strutturalmente iper-frazionata per ragioni della sua peculiare geo-storia.
Tutto questo si chiama “ragionare per sistemi”, gli stati sono sistemi, i popoli sono sistemi, l’Europa è un ambiente a cui si adattano sistemi e così il mondo. Su questa logica relativamente neutra (non oggettiva, per carità, l’oggettività in queste cose è data dal consenso di pensiero) che è logica di sistemi, si posano concetti che hanno un forte valore emotivo e valoriale: essere per una fratellanza mondiale che punta all’umanità tutta, essere legati al proprio mondo locale comunitario o municipale, amare il proprio sistema di appartenenza, forzare l’identità di questi sistemi, forzare la mancanza di reale identità di questi sistemi (recente polemica su Montanari), illudersi di essere forti e potenti (sovranisti ingenui), pensare che le guerre euro – mondiali furono il portato di eccessivi nazionalismi (una idea per quanto culturalista al contempo anti-storica e davvero balzana), non avere le idee ben “chiare e distinte” su demografia-economia-politica-geopolitica-culture (distinte ma anche intrecciate), ignorare il concetto di “potenza” che è la forza per difendersi prima che per attaccare propria di ogni sistema vitale, orientarsi pensando il contrario di quello che si reputa pensi il proprio nemico, guardarsi dentro invece che guardare l’ambiente a cui dovresti adattarti -ti piaccia o meno-, decidere quanto aprire o chiudere i pori del perimetro del sistema (società aperta – chiusa. Si tenga conto che non esistono sistemi del tutto aperti o del tutto chiusi, si tratta sempre e solo del quando, quanto e dove aprirli o chiuderli) e molto altro.
Capisco che una cosa è il freddo mondo del pensiero (che poi non è così freddo come si crede o si dice), un altro il mondo passionale dello scontro politico che diventa scontro di enti e valori comunicabili ai grandi numeri. L’importante però, sarebbe evitare di confondere i due, soprattutto evitare di far pensiero partendo da concetti nebulosi, contraddittori, esagerati per esigenze dialettiche, nati nella fabbrica delle dicotomie, riferiti ad idee impure che non hanno esatto corrispettivo con la realtà concreta, idealismi disancorati dal realismo.
Il problema primo non è lo stato attuale delle cose, cosa pensano gli Altri a cui ci contrapponiamo, cosa ci piacerebbe essere nell’astratto mondo dei valori, la nostra storia pregressa ma tutto questo, parametrato a cosa dovremmo essere per aver il miglior adattamento possibile alle condizioni del mondo di 7,5 – 10,0 mld di persone, sempre più vicine le une alle altre, in competizione per darsi le migliori condizioni di possibilità, con vari rischi di collasso generale davanti a noi (economico, quindi politico, geopolitico, demografico, ambientale). Cosa dà più “resilienza” per rimanere nella cultura sistemica.
Il problema è varare veicoli adattivi che è sempre lo stesso identico problema delle forme umane di vita associata dai clan e tribù di cacciatori-raccoglitori a ciò che decideremo di essere. Possibilmente, farlo con intenzionalità condivisa e non nella fornace del fuoco e del sangue della Storia secondo gli standard sin qui praticati.
[Quindi il problema non è se l’idea di Patria è di destra o di sinistra ma se, essendo è il corrispettivo valoriale di un sistema, se quel sistema ha possibilità adattive al contesto dato o no]
CRONACA 746
IL FUTURO DEL LAVORO: LAVORERO’? Prendete 313 tra responsabili delle risorse umane ed amministratori delegati di altrettante compagnie globali e domandategli cosa succederà al lavoro nei prossimi anni: ecco il Rapporto The Future of Job 2018 del World Economic Forum.
Il Rapporto ha una certezza: se oggi il rapporto di ore lavoro uomo – macchina/algoritmi è di 71% – 29%, già tra quattro anni nel 2022 sarà 58% – 42% per poi realizzare il sorpasso tra sette anni, nel 2025 con un 48% – 52%. La chiamano Quarta Rivoluzione Industriale. Si noti sia l’importante spostamento di lavoro tra uomo e macchina, sia il tempo molto ravvicinato degli accadimenti. Allora?
Niente paura, SE investirete almeno 101 giorni in formazione per riqualificarvi, praticamente 25 giorni l’anno per i prossimi quattro anni, potrete sicuramente far parte di coloro per i quali il futuro è luminoso. “Creatività, originalità e iniziativa, pensiero critico, persuasione e negoziazione, attenzione ai dettagli, capacità di recupero, flessibilità, risoluzione di problemi complessi, intelligenza emotiva, leadership, influenza sociale e orientamento al servizio” saranno le nuove qualità richieste.
Naturalmente non sarà facile evince il WEF ed ecco che i governi dovranno mobilitarsi in politiche attive: “Tali politiche attive del mercato del lavoro vanno dal miglioramento dei centri per l’impiego, allo sviluppo di reti di sicurezza dei redditi (redditi di cittadinanza), alla creazione di “conti individuali di formazione”, alla costruzione di un ecosistema per il pubblico ed il privato al fine di collaborare nelle trasformazioni, alle nuove politiche ed infrastrutture per il lavoro online.”. Che ci vuole? Ah, ovviamente i governi oltre a pilotare questa immane riconversione, dovranno abbondare in investimenti strutturali per rendere l’intero Paese ed ogni suo aspetto produttivo, collegato in rete per fare ospedali intelligenti, scuole intelligenti, case di cura intelligenti, autostrade intelligenti e cimiteri intelligenti. Con quali soldi? Vabbe’ dai non scadiamo nei particolari volgari.
Se tutto va bene, e non abbiamo motivo per esser pessimisti, dovrebbero esser distrutti circa 75 milioni di posti di lavoro MA dovrebbero nascerne 133 milioni di nuovi! Nel futuro cuccagna del WEF, le aziende investiranno sulle macchine, investiranno nei processi, spenderanno per cambiare le infrastrutture, si consorzieranno tra loro per aiutare i lavoratori a riqualificarsi ed alla fine si metteranno ad assumere come pazzi.
Lettori e lettrici di questa pagina, sono già un passo avanti in quanto nell’ Outlook Skills 2020, cioè delle capacità che andranno per la maggiore, c’è il “Complex problem-solving”. Noi qui si studia la complessità e quindi su i problemi complessi siamo un passo avanti, sulle soluzioni ci stiamo dando da fare, ma non temete, ce la faremo. Non è eccitante un futuro così roseo? Peccato non avere più venti anni …
LA RASSICURANTE SINTESI DI REPUBBLICA (Ma presto ci saranno robot copia&incolla anche lì) link principale +
WEF-5 MODI PER VINCERE NELL’ERA DEI ROBOThttps://www.weforum.org/…/ways-to-win-as-a-worker-in-the-ro…
WEF-5 COSE DA SAPERE SUL FUTURO DEL LAVOROhttps://www.weforum.org/…/future-of-jobs-2018-things-to-know
IL RAPPORTO WEF TUTTO INTERO CON TABELLINE E GRAFICI CARINIhttp://www3.weforum.org/docs/WEF_Future_of_Jobs_2018.pdf
CRONACA 745
NON SIAMO MAI STATI DEMOCRATICI. Democrazia è termine greco del tempo del sistema ateniese (V secolo a.C.) da dopo la riforma di Clistene che ridisegnò appunto i demi. Il termine nasce con connotazione spregiativa in ambiente aristocratico per indicare il degrado popolare del governo. Sebbene i più traducano “demos” con popolo, ci sarebbe da approfondire meglio il significato della riforma di Clistene, i demi erano delle sorta di circoscrizioni che eleggevano l’assemblea dei Cinquecento e molte altre cariche.
Purtroppo nulla dei tempi ci è pervenuto e nulla ci è pervenuto neanche della stagione d’oro periclea, almeno di fonte democratica. Di qui e di tutto il periodo successivo, tutto ciò che ci è prevenuto (!) è da fonte anti-democratica, da Platone a Tucidide. Tucidide, per dirne una, fu colui che presentò l’accusa per ostracizzare da Atene il maestro di Pericle, il filosofo Anassagora. Nulla ci è prevenuto né di Protagora, né di Democrito gli unici due filosofi democratici. Non ci son pervenuti discorsi, riflessioni, atti politici se non una ricostruzione detta “Costituzione degli Ateniesi” di ambito aristotelico (che molti ignorano) ed un’altra molto più nota che è un pamphlet altrimenti attribuito ad un “Anonimo oligarca” (prima, per dargli lustro addirittura a Senofonte, anti-democratico anch’egli), un condensato velenoso di critiche rancorose più e più volte ripreso da tutti i critici liberali e non, della democrazia. Ogni volta che ascoltate una delle quattro/cinque obiezioni fondamentali della democrazia, ascoltate un passo di quel libello.
Stendendo un pietoso velo su Platone (l’aristocratico nipote del capo Trenta Tiranni, il golpista Crizia, un estremista filo-spartano) che alcuni “comunisti” citano commossi per la prefigurazione della critica dei commercianti ed il comunismo dei guardiani (specie di polizia di stato votati alla repressione dei costumi e delle devianze), Aristotele si limita ad un approccio categoriale in Politica in cui comunque salva in parte l’ispirazione democratica sebbene volesse correggerla con forti dosi di costituzionalizzazione in quella -politeia- che era la sua miglior soluzione. Aristotele non era però del tutto libero nell’espressione, era un meteco non un ateniese e temeva di esser ostracizzato per le sue posizioni di pensiero (e l’amicizia con Alessandro nemico giurato di ogni poleis volendo costruire “l’impero” greco) tant’è che alla fine si auto esiliò. Modalità democratica si rinvengono molto tempo dopo nell’esercito romano ma anche per questo motivo, all’esercito era vietata dal Senato l’entrata a Roma.
Bisogna saltare più di dodici secoli prima che si ricominci a parlare di politica. Solo nel ‘400 si rendono note le opere politiche di Platone ed Aristotele che erano letteralmente sparite dalla conoscenza occidentale monopolizzata prima dai Romani e poi dai cristiani che pare abbiano una attitudine tutta loro alla “sottomissione”, condivisa da altri monoteisti. Per chi volesse rendersi edotto delle riflessioni politiche del Quattro e Cinquecento, l’ottimo G. Cambiano – Polis – Laterza 2007 è pieno di necessari riferimenti. In breve, nessun autore, umanista o rinascimentale, si sognò minimamente di riprendere il concetto democratico dell’Atene classica unanimemente considerata “degenerazione popolare”. I riferimenti fissi su i quali si discuteva erano il sistema di Sparta e soprattutto la Repubblica romana, modello riproposto da Machiavelli. Poi c’è Bodin ed Hobbes ovvero l’assolutismo e Locke e Montesquieu ovvero il liberalismo.
“I fondatori dei moderni sistemi elettorali, tanto negli Stati Uniti quanto in Francia erano apertamente anti-democratici … Quei fondatori si schierarono al fianco delle forze storiche repubblicane, sia contro i democratici sia contro gli aristocratici, e la Repubblica romana rimase, per gli americani ed i francesi, il modello politico di riferimento, mentre la democrazia ateniese rappresentava un modello negativo che veniva disprezzato” (F. Dupui-Deri, The political power of words, Political studies n.52 pp.118-134).
Il modello che era poi quello discusso nell’Umanesimo italiano era la -costituzione mista- ovvero monarchia-oligarchia-democrazia assieme, la nostra forma: un capo (presidente del consiglio, cancelliere, premier, presidente) con sotto una élite di pochi (parlamento bicamerale) in parte politica, in parte economica ed intellettuale, con i primi eletti una volta ogni quattro o cinque anni dai ricchi, poi anche dai un po’ meno ricchi, poi da tutti gli adulti ma solo a partire da dopo il Novecento inoltrato. Nel caso del voto delle donne, solo dal ’44 in Francia, dal ’46 in Italia, dal ’71 in Svizzera. Tali avanzamenti non furono regalati, furono il frutto di aspre lotte, assieme alla riduzione dell’orario di lavoro, del movimento operaio in particolare.
Nella prima metà del XIX secolo, il sistema repubblicano a governo di società “liberali” ordinate dal fatto economico c.d. “capitalista”, trovatosi nella necessità di allargare la sua base elettorale per farla coincidere coi “produttori”, con Andrew Jackson negli USA ed i socialisti in Francia, cominciò a chiamare questo sistema “democrazia”, dopo che il liberale B. Constant, nel 1819, aveva chiarito che la libertà dei moderni si basava su un diverso approccio rispetto a quella degli antichi nella quale prevaleva il concetto di eguaglianza, mentre in quella moderna prevale l’idea di “libertà”. Per tale motivo, mentre la democrazia antica si basava sulla partecipazione diretta e permanente dei cittadini (anche attraverso il sistema del sorteggio e della rotazione delle cariche), le democrazie liberali si fondano sulla competizione tra candidati e sul meccanismo della delega tramite elezioni, concetto introdotto dal liberale inglese J. Stuart Mill. “Il risultato è appunto la creazione di sistemi rappresentativi modellati sulla Repubblica romana, che poi sotto la spinta popolare, verranno collegati ad Atene e ribattezzati col termine -democrazia-“ (D.Graeber, Critica della democrazia occidentale, Eleuthera 2012 p. 86). Chiamiamo quindi una cosa (sistema liberal-repubblicano), col nome di un’altra cosa (democrazia).
Quando parliamo di “democrazia”, di solito e forse senza saperlo, ci immaginiamo come gli eredi degli antichi ateniesi che decidono assieme il proprio destino. Siamo invece un gruppo in genere poco preparato, e molto ed in vari modi fuorviato, di “elettori” che viene preso in giro una volta ogni cinque anni da élite (minacciati dalla loro parte economica, confusi dalla loro parte intellettuale) che poi eleggono i loro capi più o meno aristocratici o tiranni tra gli applausi festanti del popolo gioioso di esser stato sgravato dall’incombenza di darsi le leggi da sé.
Per nostra opportuna conoscenza …
CRONACA 744
16.09 SPOSTAMENTI PROGRESSIVI DEL PENSIERO. Da tempo segnalo il processo di ripensamento che comincia a manifestarsi nell’immagine di mondo dominante. Da T. Garton Ash, a I. Bremmen di cui ho dato recensione recente, a questo manifesto per il ripensamento del liberalismo, lanciato per il suo 175° compleanno da the Economist (scusate se è poco).
Contrariamente alla mia per molti versi non del tutto razionale antipatia per il concetto di “dialettica” (versione hegeliana), va effettivamente notato che l’insieme delle violente reazioni che si vanno manifestando nella realtà al dissennato disegno che pretendeva di disegnare il mondo complesso con un set di dogmi-verità dalla imbarazzante consistenza, sta portando qualche consiglio. Presto per dire se verso più sofisticati piani. Intanto però, registriamo il movimento.
[L’altro giorno volevo scrivere sulla nuova idea di reddito di base garantito di un Macron in picchiata di gradimento. Sopratutto volevo fare una collezione di Renzi e Calenda pensiero (“pensiero” si fa per dire) e dei sprezzanti giudizi da loro proferiti verso questa idea. A dire di come le periferie delle élite sostengono idee senza neanche aver ben compreso la posta in gioco. Le periferie ripetono sempre cose che al centro sono già cambiate da un po’, sono strutturalmente fuori-sync perché non hanno “autonomia”]
CRONACA 743
LA GRANDE OPPORTUNITA’. [Articolo di riferimento] Il Segretario generale dell’ONU, il socialista Guterres, ha commissionato uno studio (che verrà pubblicato nel 2019) ad un gruppo di scienziati finlandesi per valutare le trasformazioni intrinseche che stanno avvenendo nel sistema economico ed i riflessi che questi avranno su i sistemi politici e sociali. I nostri sistemi sociali si ordinano nell’attività economica svolta in modalità di mercato (o capitalistica), i sistemi politici hanno il compito di supervisionarne le condizioni di possibilità. Il sistema economico sviluppatosi nel concreto, si è riflesso in una teoria che è la teoria economica generale, elaborata tra fine XVIII e XIX secolo.
Questa teoria generale parte da una virtualmente infinita disponibilità di imput e di bisogni umani. In mezzo c’è la macchina di produzione e scambio tradizionale, il mercato, il profitto, la moneta anticipata (che deve ritornare incrementata per saldare il debito e accumulare profitto), il lavoro etc. etc.. Tutta la teoria economica generale (poco importa se liberale, keynesiana, austriaca o qualsivoglia altra) dà per infiniti gli imput che sono: materia, energia, capitali ed idee correlate ai bisogni.
Un economista rumeno N. Georgescu Roegen, negli anni ’70, obiettò che i primi due imput non sono affatto nel regno della metafisica ma della fisica e quindi nel regno governato dal Secondo principio della termodinamica, una antipatica limitazione al sogno dell’infinito che si presenta come legge scientifica (ineludibile e certa) che dice che ogni trasformazione di energia e materia degrada la qualità della stessa ed aumenta progressivamente i costi di estrazione e sfruttamento. Naturalmente, l’obiezione di Georgescu Roegen venne ignorata dalla metafisica economica a cui piace per assurdo definirsi scienza. Ma le idee reali sono ostinate ed ecco che l’obiezione bio-fisica si ripropone nel rapporto dell’ONU in gestazione. I costi di estrazione di nuova energia e materia tendono a crescere diventando in prospettiva anti-economici (anche per la gestione di quei problemi che gli economisti hanno scaricato in un cestino a parte che chiamano “esternalita’). Alla coppia materia ed energia si dovrebbe poi aggiungere il terzo contributo di imput: le idee.
Abbiamo già più volte segnalato il rendimento decrescente delle innovazioni che dopo la triplice rivoluzione meccanica (vapore-motore a scoppio) – elettrica – chimica di primo Novecento, hanno avuto una ripresa nello sforzo bellico prima, nella ricostruzione di ciò che lo sforzo bellico aveva distrutto poi e nella stagione degli elettrodomestici anni ’50 accompagnata dalla rivoluzione agricola. Nella seconda metà del Novecento, c’è solo la rivoluzione info-digitale il cui contenuto sociale e culturale è molto più vistoso di quello economico. Quello economico è addirittura -in parte- negativo visto che le macchine sostituiscono lavoro umano, quindi reddito necessario a fare del produttore un consumatore senza il quale la produzione non ha sbocco. Si spera oggi in quella bio-tecnologica ma siamo nel regno delle idee da impatto limitato, niente a che vedere con le waves precedenti, anche i bisogni hanno i loro limiti e molti di loro non hanno neanche ruolo economico (ad esempio il bisogno di più tempo personale, il bisogno di senso e significato, il bisogno di affetto, considerazione e riconoscimento sociale).
Ne viene fuori la “grande opportunità”. Si tratta in sostanza di un nuovo periodo storico-culturale in cui dovremmo ripensare il sistema generale, la forma che usiamo per stare al mondo ed adattarci al reale: società, suo governo, economia, sistema culturale. E’ per evadere da questo immane compito che i più si dilettano in polemiche astratte, ma viepiù dilazioniamo il compito, viepiù aumentiamo la possibilità di andarci a schiantare in quel fallimento adattivo che è oggi il rischio di tutti i rischi.
CRONACA 742
15.09 NOI vs LORO NEL PUBBLICO DIBATTITO. (Lungo e non semplice, solo per interessati) Nel pubblico dibattito, il formato “Noi vs Loro” è favorito da un insieme di fattori.
1) L’apriori determinista pre-vede solo cose certe, precise, nette, ma nell’analisi sociale, storica, politica o geopolitica il numero di variabili da considerare, la loro interrelazione ed il corso dinamico dei loro sviluppi intrecciati in reti di feedback non lineare, tutto danno tranne che cose certe, precise e nette. I confini dei fatti sono sfocati e sovrapposti, i valori misurabili cambiano a seconda di come li si misurano, la certezza è sempre assai relativa, provvisoria e dipendente da premesse invisibili.
2) L’apriori riduzionista invece, pretenderebbe che per ogni fatto ci sia una unica e semplificata catena causativa per la quale il risultato finale è la somma di addendi precedenti in forma di cause determinate. Ma le cause -come detto- non sono affatto determinate, sono in genere plurali, la somma delle sequenze causali dimentica gli effetti delle relazioni tra cause. Il concetto di “emergenza” -ovvero il formarsi di effetti non riducibili alla semplice somma dei componenti- impedirebbe in via di principio la possibilità di fare deduzioni causali semplici.
3) I concetti sono de-contestualizzati in modo da assumere le auspicate sembianze di universali. La cultura occidentale adora gli universali, base dell’atteggiamenti tipico che si può dire “imperialismo culturale”, come governare la conoscenza del tutto con poco.
4) Il riduzionismo quindi offre concetti semplici dedotti forzandone la completezza, il determinismo ne garantisce la precisione che invero è solo una infondata pretesa. Questi concetti nebulosi e precari che invece si presentano come chiari e fondamentali, vengono lanciati nel pubblico dibattito da chi detiene i mezzi di comunicazione. Costoro sono responsabili di due forme del discorso pubblico: la rilevanza dei concetti, la loro invisibile coerenza in un meta-discorso. Non solo i concetti sono nebulosi e precari ma di essi si presuppone la rilevanza che però è decisa ovviamente da chi li seleziona, è una “rilevanza per loro”, per coloro che possedendo i mezzi di comunicazione. Non solo. Pur presentati giornalmente o settimanalmente come conigli dal cappello del mago, essi hanno una loro intrinseca coerenza discorsiva ma il discorso intero non appare mai, non è oggetto di pubblicità, quindi si sottrae all’analisi ed alla consapevolezza. Non si vede ma in background agisce come una sorta di logica che tiene assieme i pezzi separati, nel tempo. Senza neanche averne consapevolezza, si ricevono non concetti ma discorsi in comode dispense settimanali che alla fine compongono una narrazione completa, depositata nel subconscio.
5) A questo punto, si fa affidamento sulla macchina dicotomica della logica occidentale: se A allora non B e tertium non datur. Chi tenta l’opposizione e la critica del discorso dominante, se ha la lucidità di voler riferirsi veramente al “discorso” e non al “concetto del giorno” perde in partenza perché concetto semplice vs discorso complesso è partita persa prima ancora di essere giocata. Rimane allora appiattirsi sul formato logico imposto, se “loro” spingono A, “noi” spingiamo B. Così facendo però, si accetta ed implicitamente si conferma che il concetto A è davvero rilevante, preciso, determinato quando invece, come abbiamo detto, non lo è affatto. Post verità, fake news, populismo, neo-fascismo, razzismo, globalismo-sovranismo, multiculturalismo-razzismo, sono tutti concetti o coppie di concetti altamente dubitabili, sia nella formulazione che nella specifica applicazione e pertinenza che però danno l’agenda del discorso pubblico, un discorso che ha forme pre-giudicate a monte.
6) A questo punto poi, le menti riceventi hanno un’altra forma pre-giudicante che agisce a priori ed è la competenza (in genere, comunque scarsa) e la sensibilità selettiva per argomenti settoriali. Con i suoi begli occhiali nuovi per i quali magari ha ricevuto riconoscimento sociale, laurea e lode (4% della popolazione), l’interprete va a leggere cose del mondo tutte tra loro intrecciate che però gli vengono presentate non intrecciate, pronte a reagire con la sua specifica sensibilità. Gli economisti -ad esempio- si interessano di economia, ignorando la storia (economica e non), la geografia in cui avvengono i fatti economici, la sociologia, l’antropologia, la psiche umana (razionale ed emotiva), la politica e la geopolitica, la demografia, la storia culturale e tutto ciò è ritenuto “normale”. Spesso ignorano proprio la reale attività economica in quanto tale in quanto studiano un oggetto morto in qualche diagramma di flusso, decontestualizzato, (apparentemente) de-politicizzato, ideologizzato e soprattutto di cui mai hanno avuto esperienza concreta. La teoria è insegnata a sua volta da teorici che si autoriproducono strettamente immuni dal contatto con l’attrito delle cose reali e concrete, la teoria è tangente la realtà, non può che ridurla, idealizzarla, razionalizzarla eccessivamente. Nel filtro cognitivo ad una dimensione, la realtà che ne ha quattro, entra solo se viene distrutta. L’intelletto non si adegua per niente alla cosa, è la cosa che deve adattarsi alle sue forme a priori.
7) Infine, questi attraenti blocchetti di significato sintetico artificiale decontestualizzato ed idealizzato, i concetti, sono gettati nella macchina dei social in cui i piccoli formati, l’impressionismo visivo, la sloganistica importata dalla tecnica pubblicitaria, i meccanismi delle bolle di filtraggio che recludono i comuni pensatori in stanze chiuse e reciprocamente in comunicanti, rinforzano il sentimento del “Noi” e quindi l‘acrimonia verso “Loro”. A valle nei social, non si fa altro che riprodurre il Circo mediatico. E’ stato giustamente notato (D. Graeber) che il luogo centrale dell’Atene democratica era l’agorà, il luogo centrale della Roma imperiale era il Colosseo. Pollice alto, pollice verso che Zuckerberg non vuole mettere ma tanto si esprime lo stesso, mentre il suo corrispettivo mediatico è l’audience, la gente che va al Circo. La confusa ratatouille concettuale cucinata dalle cucine reali è condita di forti emozioni fissative.
>> Così si compone il processo: concetti che riducono indebitamente ed hanno la pretesa di esser determinanti e determinati, decontestualizzati, vengono scelti o inventati ed imposti nel pubblico dibattito, sia in versione atomica, che in versione molecolare (a comporre discorsi coerenti) sebbene non esplicita e così ricevuti da menti che già di loro sono espressamente settorializzate che leggono le cose in maniera astratta e tendono ad una logica dicotomica che si rinforza nei format espressivi preordinati da media e social e nelle forme logico-emotive e reciprocamente ostili dei clan dei pensieri combattenti. Tenuta inutilmente occupata l’opinione pubblica, la realtà può tranquillamente andare dove chi la governa decide di portarla.
CRONACA 741
13.09 NOI vs LORO: (Piccola recensione) Ian Bremmer è un geopolitico americano, ma di tipo bilanciato, né ovviamente “critico”, ma nemmeno troppo liberal-imperiale. Più che altro non è uno studioso puro ma un imprenditore che col suo Eurasia Group vende consulenze ad imprese, governi, istituzioni varie, sul problema dei rischi sistemici mondiali. Quindi i “rischi” li vede anche perché è di quelli che vive, non è tenuto né ha interesse ad approfondire più di tanto le cause anche perché dovrebbe magari dire ai committenti “amico, lascia perde, ‘nc’è niente da fa’ ”. Detto ciò ragguaglio sulla sua ultime fatica uscita lo scorso giugno per i tipi di Egea (Bocconi, Milano).
Il titolo è Noi vs Loro. Il tipo fotografa un format di contrapposizione aspramente dicotomica che si sta rapidamente imponendo a vari livelli. Possono essere due fazioni politiche (tipicamente globalisti o cosmopoliti liberali vs sovranisti o stato-nazionalisti di dx o di sx) o il format popolo vs élite (populismo), o una etnia tipica di un territorio verso quelle affluenti di recente o di un etnia verso le circostanti, o the West vs the Rest, o Europa del Nord vs Europa scansafatiche, o “tutti contro il Grande Pericolo Giallo” o musulmani vs i non musulmani etc. .
Il format in sé dice tre cose: la prima è che evidentemente ci sono cose che non funzionano nelle nostre società e gli effetti vengono da A addebitati ad un B (e viceversa); la seconda è che visto che è così diffuso ed ha tante versioni deve avere non una causa specifica sola ma è una reazione elementare che piuttosto che mettere in discussione i grandi contesti (al famoso livello “sistemico”), va dritto all’addebito delle colpe (se non ci fossero “loro” tutto funzionerebbe); la terza è che si auto-rafforza nel tempo poiché interessi di gruppo, veicolati da media, partiti, intellettuali organici a qualche banda, spingono al più classico dei meccanismi di competizione sociale ovvero creare il nemico per inspessire e chiarire l’identità antagonista del “Noi”.
Bremmer parte da un giudizio facile epperò di cui si apprezza la chiarezza: il globalismo è stato un pensiero davvero stupido, mal approfondito, semplificato, ingenuamente egoista e poco meditato. Dato che si è diffuso ed applicato con l’entusiasmo dei cretini, ora arriva la marea di reazione, magari discutibile nelle sue varie forme, ma la cui causa non è oggetto di negazione se non dai cretini ontologici (che pure non mancano). Elementi del casino che è destinato ad aumentare: perdita lavoro-salario-classe media, innovazione tecnologica di tipo non riducibile alle varie rivoluzioni produttive precedenti (e dagli esiti ancor non compresi), migrazioni di vario tipo verso ambienti già critici di loro, asimmetrie demografiche e di sviluppo, disordini vari tipo (terroristi e vari tipi di criminalità diffusa anche on line), crisi del concetto di Stato e soprattutto del contenuto del “contratto sociale”, non solo ansia sociale derivata dalla somma di tutto quanto sopra detto ma anche ansia culturale (perdita di identità, troppi cambiamenti tutti assieme, troppo veloci, troppo profondi). Si è dimenticato la questione ecologica ma evidentemente la ritiene fuori dalla portata dei suoi personali interessi specifici.
Bremmer analizza l’indice di resilienza (resistenza dinamica a gli shock ed alle pressioni esogene) di dodici Paesi: Cina, India, Indonesia, Russia, Nigeria, Egitto, Mexico, Brasile, Turchia, Sudafrica, Arabia Saudita, Venezuela. Trattati in due paginetta cadauno, certo non si può pretendere l’analisi a grana fine, comunque -pur essendo un punto di vista preciso-, ci sono elementi di giudizio non troppo stereotipati o sbilanciati nella retorica occidentalista, demo liberale, diritto umanista. Poi chiude con un capitoletto su tutti i nuovi muri, non solo quelli di mattoni ed uno su i nuovi patti, il rinnovamento del contratto sociale, tema interessante sollevato se ben ricordo per primo da uno svedese poco tempo fa e senz’altro da porre al centro della discussione politica vera (cioè non quella che si fa solitamente nel mainstream come nei social).
Sue conclusioni in sei paginette, rivolte per lo più alla mentalità americana, è chiaro che per Bremmer le vere conclusioni sono taylor-made, cioè bisogna pagare una consulenza al suo istituto per saperne di più. 216 paginette scorrevoli per un tempo di lettura di un giorno (ma ero in viaggio). Il vero fil rouge del discorso dell’americano -il rischio dei rischi- è l’imminente acuirsi degli effetti della rivoluzione digital-meccanica. Tali effetti, oltre a produrre cambiamenti epocali sul lavoro e quindi sulla società, spaccheranno oggettivamente ancora di più società internamente e nei loro rapporti reciproci. Se si continua a mantenere il meccanismo “Noi vs Loro” che tende già di suo ad auto-rinforzarsi, ci si va a schiantare ma urlando e picchiandosi di brutto. Da leggere? Non lo so, dipende dai vostri interessi, cmq sono 14 euro su carta e 11 e-book.
A chiudere, una sola considerazione: allego pagine wiki sul tipo. E’ sconfortante leggere cose abbastanza realistiche da uno così quando gli “intellettuali” che animano il pubblico dibattito da noi stanno ancor a rosso bruno! Razzista! Pauperista! Fascista! Liberista! Piddiota! Analfabeta funzionale! Zerbino! Continuiamo così, il futuro ci dirà cosa pensa di noi tutti …
CRONACA 740
11.09 CHI DECIDE? in filosofia, si dice che sta tutto nel farsi la domanda giusta. Molto di quello che diciamo, scriviamo, pensiamo, è risposta ad una domanda che “sentiamo” dentro ma raramente riusciamo ad oggettivare. Chiarire la domanda allora, ha il potere di sfrondare l’albero delle risposte che rischia di aggrovigliarsi su se stesso. L’aggrovigliamento dipende proprio dal fatto che le risposte che ognuno avanza, non è chiaro se rispondono alla stessa domanda o a domande diverse. Si finisce col discutere opponendo tesi in competizione che però non sono dentro il campo della stessa domanda ma di domande diverse. Dialogare partendo da due domande diverse non è vietato, basta sapere che in realtà non si sta discutendo di ipotesi di soluzioni diverse ma si sta discutendo implicitamente proprio di quale sia la domanda giusta, la prima, la più importante, quella che governa tutte le altre.
Politica, deriva come è noto da polis, forma di vita associata legata ad un territorio che si formalizza in uno Stato. Il territorio può avere estensione di città, di provincia, di regione (principato, regno, impero), di Stato-nazione o di Stato con più “nazioni”, sta di fatto che da quando si sono formate le società complesse, seimila anni fa, la costate è il potere espresso dalle forme di vita associata detta “Stato” e lo Stato ha il problema del definire la sua intenzionalità, ovvero rispondere alla domanda: chi decide?
La filosofia politica è partita dall’inquadrare implicitamente questa domanda, lo ha fatto nella Repubblica, Politico e poi Leggi di Platone, ma si è poi formalizzata proprio sulla domanda più che partire in quarta con le risposte come aveva fatto Platone, con Politica di Aristotele. Ricordo ai distratti che le risposte trovate sono tre, di cui il Greco dava versioni positive e versioni negative, degenerate e pare che, come in altri casi del pensiero del Greco, non faceva altro che un formalizzare e metter ordine ad una tradizione che lo precedeva. Infatti, in Erodoto, un secolo prima, c’era la stessa domanda e le stesse tre risposte. Le tre risposte sono: l’Uno, i Pochi, i Molti.
Questo fondamento, non dice nulla di cosa decideranno, se decideranno per una teocrazia, una forma militare come le orde mongoliche, una forma economica di mercato o pianificata centralmente, dice solo quali sono le tre risposte possibili alla domanda “chi decide”, sarà poi chi decide e decidere. A rigore, si può infatti decidere che la forma di vita associata sarà regolata da una credenza religiosa e ciononostante c’è ancora da decidere se l’intenzionalità sarà in capo ad un papa, ad una casta sacerdotale o all’assemblea permanente dei credenti che si auto-governano secondo alcuni principi che decideranno assieme come pare facessero gli Esseni. Poco noto, ad esempio, è che da un celebre passo dell’Iliade omerica, la forma militare ha spesso avuto soluzioni democratiche alla domanda (indiani americani, cosacchi, Guerra civile inglese del ‘600), non certo nell’azione militare che in atto è certo ordinata da una stretta gerarchia necessaria, ma prima, per decidere se e quale azione compiere. Insomma cosa fare non determina il come decidiamo il da farsi.
Da Aristotele, quella domanda governa ancora e governerà sempre le nostre intenzioni politiche. La risposta, darà forma a tutto ciò che consegue. Chi vuole pensare il politico, deve partire ineludibilmente da quella domanda, prima di esercitarsi sul libero disegno della forma di società che desidera sognare. Ha una sua utilità psichica ed una pari inutilità normativa e pratica disegnare singolarmente il mondo come lo vorremmo. E’ letteratura, spesso d’evasione, evasione dallo sgradevole compito di rispondere alla domanda. Pensare politico è in prima istanza, sottomettersi alla dura disciplina del metodo che impone, prima di ogni altra cosa, scegliere come rispondere alla domanda fondamentale.
E’ mia personale opinione che siamo in un tempo storico in cui evitare di rispondere a quella noiosa e fastidiosa domanda, pregiudicherà le possibilità stesse di trovare e poi mettere in atto le soluzioni necessarie ai tanti problemi che s’affollano nella nostra vita associata. Quindi la ripropongo in onore alla antica tradizione dei tafani socratici, visto che i filosofi contemporanei sembrano più attratti dall’ X Factor dell’umana vanità.
CRONACA 739
06.09 NAUFRAGIO IDEALISTA. L’immagine di mondo occidentale, quella europea nello specifico, è monopolizzata da una ispirazione dell’Idea. Nulla in contrario ovviamente a trovare ispirazione nelle idee ma ciò che sembra connotare i tempi, è lo spazio sempre più limitato e condizionante la libera espressione delle Idee. Mi riferisco alle condizioni di possibilità, all’attrito realista degli spazi, dei popoli, della geografia, della storia, dell’economia, degli stessi sistemi di pensiero, della demografia, della geopolitica, tutti fatti che pure l’idealista potrebbe contemplare visto che non gli stiamo chiedendo di riferirsi ai “volgari” atomi, molecole, entità biologiche materiali. Eppure, niente, l’idealista pensa di aver la lavagna sgombra e traccia libere traiettorie di valori, contro questo e per quello, non di qua ma di là, non così ma cosà. Sì, va bene ma da tutto ciò che piano strategico e tattico può discendere? Nessuno, e così l’idealista continua a portare acqua al mulino nichilista.
Cacciari sarebbe un filosofo, lo sarebbe anche Marramao ed anche Berti, il più grande aristotelico italiano. Anche alcuni altri hanno competenze di pensiero non secondarie, come Biagio de Giovanni che pure ha pubblicato nel 2015 un Elogio della sovranità politica, (Editoriale scientifica), e chissà come fa, in base a ciò, a firmare un appello che pur moderatamente critico verso gli esiti burocratici dell’UE, non affronta davvero di petto il problema del non-Stato europeo, quindi della sovranità di cui pure lui scrive gli elogi. Son per lo più orfani del sogno PD, ex PCI ed antichi glossatori di Marx. Ci si domanda: come fa Cacciari ad immaginare un fronte da Macron a Tsipras? Per fare cosa? Come fa a parlare di federalismo? Il federalismo è una forma di organizzazione dello stato, pensa quindi l’UE debba diventare uno stato? Con chi e con chi no, con quali fini e processi costitutivi ed istituzioni, per fare cosa oltre a fermare la marea nazional-sovranista che forse non è neanche il principale problema del’adattamento degli europei al mondo complesso? Vuole fare uno stato il cui parlamento avrà una stabile maggioranza latino-mediterrenea che metterà sistematicamente in minoranza i tedeschi? E’ sicuro che i tedeschi aderiranno?
E’ ormai quasi un secolo, da PanEuropa di Kalergi (1923, e che comunque è l’unico ad aver scritto un piano di una certa concretezza ancorché datato) che a tratti, si sveglia qualcuno immaginando una virtuosa unione del continente più frazionato e bellicoso del mondo e della storia umana. Io non dico male o bene di ciò, dico solo che se uno vuole perseguire un piano così ambizioso e difficile dovrebbe arrischiare qualcosa sul piano del realismo. Parlo di analisi, di fattibilità, di processi, di tempi, di valori fondativi, di resa dei conti tra le tante diversità europee da sublimare in ricchezza varietale quando storicamente sono state base di entropia con attrito. Magari alzare il telefono e chiamare qualche collega francese o tedesco o spagnolo, parlate almeno come europei, siate prefigurazione di ciò che vorreste essere. Non so, l’unione degli europei mi pare un tema morale, una sorta di “vogliamoci bene” non meno populista del suo contrario nazionalista, una vaghezza insostenibile, uno sventolio di valori-idee da contrapporre ad altri valori-idee degli avversari indigeni ma senza tener conto che il problema oggi è “fuori”, nel mondo grande e terribile. Un voler far finta di parlare del “fuori” quando i fini sono di bassa politica nazionale per non dire interna ad un partito per altro moribondo.
Il problema non è la marea asiatico-cinese, o gli ordinatori islamici, il problema non è l’irreversibile declino americano ed anglosassone, il problema non è l’oblio della specificità continentale, il problema non è il fallimento di quel fake nominale che chiamiamo democrazia, il problema non è la nostra demografia, il problema non sono i raggiunti limiti di riproduzione del capitale che in Occidente non può più riprodursi a profitto sfornando materie lavorate di cui siamo imbottiti oltre il possibile per cui ormai si è trasformato in capitale finanziario dedito alla riproduzione globale o la questione ambientale, il problema non è la incipiente fine del lavoro divorato dalle macchine e dall’automazione, quindi il problema non è ripensare il contratto sociale teorizzato da Hobbes, sognato da Rousseau e definitivamente scritto nel cap. IV della Ricchezza delle nazioni da Smith. Il problema è Orban.
Diceva Otto Neurath (anche se con altra intenzione) che “” siamo come marinai che devono ristrutturare la loro nave in mare aperto e che non sono in grado perciò di ricominciare da capo”, cambiare la nostra immagine di mondo, lavoro da filosofi, obbliga a questo. Ma la nave serve a navigare in mari procellosi non è un esercizio di stile, un contest di design, una libera interpretazione dei possibili e degli auspicabili. Così alla nave e coloro che la abitano, rimane solo un destino: naufragare in un mare di chiacchiere stanche. Che incredibilmente triste spettacolo …
CRONACA 738
ATTENTI AI COREANI. L’articolo segnala il nuovo incontro tra delegazioni del Sud e del Nord ed un nuovo incontro baci&abbracci tra KJ-un e MJ-in, il terzo in pochi mesi, tra un paio di settimane. Tutto l’articolo, ed in genere l’interesse che suscitano le Coree in occidente, è letto in termini militari. Certo, il prossimo passo formale nelle relazioni tra le due Coree sarà sancire ufficialmente la pace ed è ovvio che la faccenda coinvolga anche gli USA e quindi gli aspetti geo-politici. Ma se si riduce la faccenda coreana ai missili nucleari, temo non si comprenda bene quale sarà lo sviluppo della faccenda.
I coreani sono un’unica etnia ed entrambi i paesi son straordinariamente omogenei al loro interno per identità etnica. Uno, la Corea del Sud ha l’11° Pil al mondo per 50 milioni di abitanti. Sono quindi appena sotto di noi che siamo noni, ma in termini di Pil PPP sono superiori a noi. Ora, la CdS è afflitta da uno degli indici di riproduzione più bassi al mondo con una densità abitativa tra le più alte, comincia a mancare manodopera stante che tra Samsung, LG e Hyundai, KIA e la locale telecom SK vanno alla grandissima avendo sviluppato specialità costruttive, elettroniche e in produzione di veicoli vari, prima primato indiscusso giapponese. Di contro, la CdN non ha alcun problema riproduttivo, ha 25 milioni di abitanti e recentemente ha sviluppato una costante sebbene certo moderata crescita economica. Sono cento le imprese sud-coreane già presenti nelle zone speciali del Nord, un modello -tratto dall’esperienza delle prime aperture al mercato cinesi- destinato ad ampliarsi. La CdN ha un bisogno basilare di infrastrutture e di contro è tra i primi dieci produttori di frutta fresca, è piena di minerali, può sviluppare turismo data l’alta naturalità del territorio ed ha anche petrolio. Dati gli ottimi rapporto coi russi coi quali confinano, potrebbero ricevere un terminale di gas poi da far continuare al Sud. La CdS è una delle tigri asiatiche, e tenderebbe naturalmente ad allacciarsi al nuovo sistema BRI cinese. Entrambi odiano visceralmente i giapponesi, come del resto i cinesi.
La questione militare quindi è importante come precondizione ma la vera posta in gioco è creare un sistema economico di co-sviluppo in cui i sud-coreani vanno ad aprire fabbriche sfruttando il basso costo di manodopera del Nord. Nel tempo, l’importazione di ricchezza e l’acquisizione di know how, permetterebbe al Nord di reggersi maggiormente sulle proprie gambe. Questo darebbe al Sud Corea almeno altri venti anni di forte sviluppo e permetterebbe a KJ-u di istituire un “regime socialista con caratteristiche coreane” non poi tanto dissimile da quella cinese.
Cinesi e russi benedicono, i giapponesi rosicano, gli americani penso abbiano data per persa la partita. L’affare ha senso, il matrimonio si farà.
CRONACA 737
03.09 CIAO, AU REVOIR, AUF WIEDERSEHEN, BYE BYE. Dopo appena tre anni, la Cina mette sul piano delle relazioni con l’Africa, un nuovo mega investimento. Mentre i due baldi euro-mediterranei fanno il tifo per le fazioni avversarie del processo di auto-digestione di quella che una volta era la Libia per poi impossessarsi del cadavere, mentre la UE stanziò nel 2015 la bellezza di 2,85 mld di euro nella speranza che i singoli Paesi ne aggiungessero altrettanti nell’ Africa Trust Fund (ne hanno invece messi ben 202 milioni di cui 82 noi e 51 i tedeschi), mentre gli americani largheggiavano nel 2015 con 8,8 miliardi di aiuti per i 54 paesi africani(ben 3 mld in più di quanto davano al solo Afghanistan. Cmq, Trump ha già fatto sapere che sono troppi e vanno tagliati…), i cinesi si presentano per la seconda volta consecutiva con 60-diconsi-60 miliardi di dollari tra aiuti, linee di credito,prestiti a tasso 0 et varia. Grazie a dio il commento è superfluo, quindi il post è breve.
Nella foto, l’esatto momento in cui hanno comunicato ai 53 rappresentanti africani ospiti a Pechino di Xi, che gli europei denunciavano le subdole manovre dei cinesi come “neocolonialismo”.
CRONACA 736
01.09: CHE RAZZA DI PASTICCIO! Della serie “post repellenti”, oggi mi occupo del grande ritorno del problema della “razza”. Sappiamo che la definizione di razza è un insieme dai contorno vaghi, vatte-la-pesca come definirla. Eppure se dico che gli americani di origine tedesca sono il 12.2% del totale, anche se a sua volta non è certissimo come definire “tedeschi”, più o meno ci siamo capiti di cosa parliamo e parliamo di in insieme che -per quanto vago- ha una sua consistenza di carattere esclusivo e distinguente, un misto bio-culturale che una volta chiamavamo razza ed oggi etnia.
L’articolo allegato racconta di una serie di strane verifiche che sta conducendo addirittura una banca americana, per esser certi della natività indigena dei suoi correntisti. A gli incerti viene addirittura bloccato il conto in attesa di verifiche, una bella scocciatura, per volare bassi. Ma fonti americane affidabili, mi dicono che il problema non si ferma a quello dei migranti. Si verificano casi di americani lì nati e così registrati ovunque, che avendo origini ispaniche, recatisi fuori degli USA per qualche motivo, hanno poi difficoltà a rientrare per “verifiche” da effettuare sulla loro situazione di stato civile. Insomma, tira aria per cui non solo c’è il ben noto problema dei migranti soprattutto ispanici, ma è come se si volesse lanciare un messaggio generale per cui se sei ispanico, non importa se nativo o importato, non sei proprio gradito. Del resto, gli ispanici sono già un 18% ma si riproducono di più e soprattutto c’è un intero continente di ispanici sotto il bordo meridionale degli States.
Quindi, sgraditi a chi? Riporto una parte della pagina Wiki.org dedicata alle etnie americane: “Gli americani di origine europea (ma anche araba e turca) non ispanica, ovvero i bianchi non ispanici costituivano all’incirca il 61% della popolazione nel 2012, considerevolmente calati e in continuo calo, sia in percentuale sia in numero assoluto, rispetto all’89% del 1960 (ometto le note che contengono le fonti, a chi interessa le trova nella pagina citata). Siamo a meno un quarto in cinquanta anni ma in moto accelerato! Gli WASP (White-Anglo-Saxons-Protestant) propriamente detti, dal 2000 non erano più maggioranza sebbene fosse ancora il gruppo etnico che detiene tutte le leve del potere. Gli WASP hanno -in parte- allargato il loro raggio di inclusione ad italiani, scandinavi ed europei dell’est (i di origine ebraica sono sempre benvenuti ma son meno del 2%), proprio per bilanciare la doppia minaccia ispanica e nera.
Pare quindi esserci non solo il problema dei migranti ma anche il problema dell’etnia maggioritaria di lungo corso ma potenzialmente minoritaria in prospettiva. Sappiamo della nuova costituzione israeliana che fa coincidere la cittadinanza con l’etnia ebraica nonostante, non quelli che chiamiamo palestinesi, ma gli arabi israeliani che sono come gli indiani americani quelli che stavano lì prima che … . Sappiamo dei dolori svedesi, società prima modello di integrazione e di quelli tedeschi il cui caso più clamoroso è stato il giocatore della nazionale Mesut Ozil, tedesco di Gelsenkirchen che ha poi scelto di rinunciare alla nazionalità in quanto ha percepito di non esser gradito, per cui vestirà la maglia della nazionale turca. I non germanici puri sono stati accusati a gli ultimi mondiali, di non “sentire” l’orgoglio nazionale fino in fondo e non essersi impegnati a dovere, insomma non vibravano cantando “Uber alles” . Resistono gli inglesi che hanno il sindaco della capitale, londinese-pakistano ma non ci giurerei che dopo la fine del processo di Brexit, marzo dell’anno prossimo, non ci sarà una revisione di atteggiamento. Problema che già angustia i francesi e che diede il destro al loro scrittore polemista Houellebecq, per quel romanzo “Sottomissione” per lui fortunatamente uscito il giorno dell’attentato a Charlie Hebdo, in cui prefigurava una Francia araba e musulmana, quindi sottomessa (gioco di significati perché “sottomesso” -a Dio- è propriamente la traduzione di islam).
Ripeto, non è solo il problema migratorio è anche il problema dei differenziali di riproduzione e non è solo un problema formale genetico, è un problema eminentemente culturale perché le immagini di mondo non si fondono facilmente in una mista di ordine superiore. C’è ad esempio il problema dell’ordinatore che è un “o-o”, ad esempio “o laico e secolarizzato o religioso”, non c’è nel mondo dei concetti sempre l’opportunità della sintesi, soprattutto se non siamo in un libro sulla dialettica hegeliana ma nella realtà concreta. Stati Uniti d’America a maggioranza protestante o cattolica fa una bella differenza, come la feceva nel Seicento al tempo della Guerra dei Trent’anni, ne sa qualcosa Bergoglio.
In breve, tre i problemi principali di questa storia: 1) la sottovalutazione del’importanza delle immagini di mondo, delle tradizioni culturali, della resistenza a sciogliere le identità comunitarie in un indistinto privo di valori che non “qui si fanno i soldi, tutto il resto non conta e contempliamo la qualunque con grande liberalità ed indifferenza”; 2) la debolezza di quel principio che prometteva superamento delle vecchie tribù etniche, si rivela clamorosa proprio ora che in Occidente, mediamente, i soldi non si fanno più facili come una volta; 3) le etnie prima dominanti tendono al suicidio demografico per una serie di ragioni che non possiamo qui indagare ma sulle quali ritorneremo in seguito.
Cos’altro ci manca per chiuder l’equazione che non ha l’aria di volersi chiudere da sola?
[Prima di lasciar traccia di militanza come pasdaran della fazione pro o di quella contro i migranti, assicurarsi di aver capito bene il senso del post che non è strettamente sul problema dei migranti.]
CRONACA 735
31.08: CONOSCI COME CONOSCI. A parte una sortita sulle questioni inerenti il tema “sesso e Chiesa” che ha generato qualche irritazione, da due/tre settimane, nell’ambito delle mie ricerche sull’immagine di mondo (idm), sono andato a far una delle mie periodiche visite ai fisici, macro (astrofisici) e micro (delle particelle).
Come pensano i fisici è solo una declinazione di come pensano i meta-fisici, poiché entrambi esseri umani, quindi soggetti alla comunione della stessa forma cerebrale e mentale che ha forme biologiche e forme storico-socio-culturali, del tutto comuni. i fisici si dividono in teorici e sperimentali e questi secondi sono ciò che differenzia la declinazione dell’idm fisica rispetto a quella metafisica. C’è cioè qualcuno che va a “verificare” se le cose stanno come sono state pensate. A grana fine c’è anche chi pensa dopo che sono stati registrati fatti ma lo fa sempre all’interno di una più generale costruzione di pensiero che è l’idm dominante.
Ora, l’idm dominante il pensiero della fisica principale, sia nel micro che nel macro, è data da due costruzioni che stanno compiendo proprio di questi tempi il secolo: la meccanica quantistica e la relatività. Già qui s’ingenera un primo potenziale problema. Mq e relatività, furono le ultime due teorie generali pensate in maniera diciamo “artigianale”. Einstein era solo ed oltre carta e penna non necessitava d’altro. La sue teoria generale venne verificata da uno sperimentale che andò in Africa lui ed un assistente con una tenda ed un cannocchiale portatile. Planck, che diede avvio alla mq, partì dal proporre una soluzione teorica ad una evidenza sperimentale ma di un esperimento che lui stesso aveva fatto in solitaria autonomia. Per più di trenta anni, De Broglie, Dirac, Bohr, Heisenberg, Born, Schrodinger, Compton, Lorentz, Curie, Pauli, oltre a Planck ed Einstein ed altri, operavano con mente-carta e penna e piccoli esprimenti fatti nei loro semplici laboratori. Poi, sponsorizzati da un signore che aveva avuto la fortuna di aver inventato il bicarbonato di sodio, si incontravano a Bruxelles ogni tre anni e si scambiavano informazioni e punti di vista, a formare quella gigantesca teoria che ancora oggi domina la fisica del micro.
Così come il cuore di ogni fenomeno complesso è dato dal mettere in interrelazione varietà, così come era già avvenuto ad Atene del V secolo a.C., o nella Firenze del XV-XVI secolo, così come avvenne ripetutamente a Londra o Parigi tra XVII – XIX secolo (ma a Parigi anche nel XIII con la scolastica), o nella Vienna di inizio secolo, o a New York nel dopoguerra o nella Germania dell’Idealismo e del Romanticismo, o nella Mosca rivoluzionaria, una meta-mente collettiva, produce idm vaste e complesse che hanno poi vigenza per decenni se non per secoli. Ma né i quantistici che erano tanti, né Einstein che era uno, avevano l’ossessione di dover produrre risultati, ciò che stavano pensando e facendo era grandemente ignorato, quasi nulla di ciò di cui si occupavano dipendeva da costosi strumenti. Questa -indipendenza dallo strumento- fu clamorosa nel caso dell’astrofisico osservativo che confermò la relatività poiché era un britannico che confermava l’idea (ai tempi assai bizzarra e il cui effetto era di retrocedere un inglese -Newton- di qualche gradino dall’empireo della conoscenza dello spazio) di un tedesco, stante che era appena finita la Prima guerra mondiale (1919) e tra le due accademie vigeva grande freddezza per non dire di peggio. Erano cioè “relativamente” liberi.
Oggi, lo sperimentale e l’osservativo non sono più liberi. Dal CERN ai turni di ricerca nei grandi osservatori, per non dire di Hubble o del prossimo Webb ad infrarossi, strumenti di un costo enorme, proprietà di comunità scientifiche governate da stati, il consensus scientifico del momento decide l’ammissibilità dell’esperimento o dell’osservazione. Intanto, il diametro ideale della sfera delle cose da conoscere, si è di molto allargato e la risoluzione necessaria a stabilire la grana fine dei fenomeni micro, si è di molto precisata. A dire che i fatti fuori teoria, che pure bisogna andare a cercare in maniera molto dispendiosa e che -in genere- compaiono non aspettati e per caso, non sembrano aver la forza di forzare la vigenza della teoria quadro.
Nel macro, in cosmologia ad esempio, trovate scienziati che vi dicono affascinati che loro hanno: a) un set di teorie che ritengono accertate ed universali; b) una verifica nei fatti che trova “solo” il 5% di ciò che ci dovrebbe esserci in base a quella teoria fatta di teorie. Tutti gli sforzi sono diretti a scalare del 95% di inconosciuto (che simpaticamente chiamano “oscuro”) com’è comprensibile. Nessuno però pare porsi il compito sgradevole, ma necessario, di provare in alternativa a cambiare la teoria generale. Qualcuno invero ci prova, ma l’inerzia e la dominanza della teoria madre, nonché l’intero sistema del “publish o perish” (pubblica un articolo che fa curriculum o muori), nonché l’accesso alle possibili verifiche, pone una resistenza formidabile.
Non va meglio nel micro dove ogni volta che si spinge il pulsante che mette in moto l’anello di 27 km del CERN, se ne partono 28 milioni di euro. In più, è proprio l’aver raggiunto da tempo il limite del “facile” ad imporre per le verifiche macchine che sprigionano energie immense, quindi molto costose. Ma addirittura c’è il caso della ricerca degli eventuali componenti delle particelle elementari, che ha una teoria (le stringhe che è una meta-teoria con un centinaio e più di versioni interne) che al momento delle nostre attuali facoltà sperimentali, è del tutto inverificabile.
In queste condizioni strutturali, il fatidico “cambio di paradigma”, il principio primo e generale di una costruzione di senso complessiva, rischia di diventare strutturalmente impossibile.
Così, mi piaceva mettervi al corrente di questa fotografia a parole, messa sopra questa altra fatta di pixel (28 maschi, una femmina, di cui diciassette premi Nobel), per riflettere sul problema della forma della conoscenza contemporanea, qui al primo livello della materia ma con influenze anche per i livelli successivi che arrivano fino all’economia, alla politica e perché no, anche alla filosofia che non ha il problema dello sperimentale e dell’osservativo ma non meno vincoli immaginari ed effettivi di vario tipo. Abbiamo disperato bisogno di nuove forme di conoscenza, abbiamo finito la conoscenza facile, c’è il rischio che la struttura con cui consociamo le cose impedisca la nascita di nuovi paradigmi se non cambiamo la struttura dell’impresa conoscitiva. Questa ultima affermazione è una invocazione al cambio di paradigma ma dentro un discorso che pensa sia diventato quasi impossibile farlo.
CRONACA 734
27.08: DA GALILEO A YOUPORN. La faccenda pedofiliaca che sta scuotendo la Chiesa romana e ruolo e responsabilità del Pontefice, ha i suoi ovvi aspetti politici interni all’istituzione. Altri vi argomenteranno, a noi interessa un altro aspetto.
Ci interessa ultimamente molto quel sistema fatto di idee, logiche e giudizi che chiamiamo immagine di mondo. Come ogni forma storica, la Chiesa romana ha la sua immagine di mondo. Questa immagine di mondo, leggendone le traversie ed imprese, a volte ci sembra molto poco dinamica. Rifiutò ed ostracizzò i principi che dettero il via alla rivoluzione scientifica e molto di ciò che poi diede vita al moderno, così ha rifiutato e pervicacemente rifiuta di prender ovvia considerazione del fatto di essere una ingiustificabile istituzione mono-a-sessuale che è cosa contraria a buona parte dell’espressione naturale del mondo vegetale, animale ed umano. Non così hanno scelto ad esempio i protestanti o gli ortodossi o gli imam che propriamente non sono neanche membri di una “ecclesia” che rimangono per lo più maschi ma con diritto di matrimonio almeno eterosessuale (non so se i protestanti accettano anche le unioni omosessuali). La segregazione dei giovani ordinandi in gruppi umani maschili come si continua a fare nelle carceri ed in parte negli eserciti (con nuovi tentativi di apertura all’equilibrio per quanto non senza problemi), forse aumenta la propensione naturale all’omosessualità, ma in alcuni casi, aumenta o forse induce i casi di desiderio sessuale di adulti verso non adulti e purtroppo stiamo scoprendo, non solo il desiderio ma anche il comportamento.
Nei Tre saggi sulla teoria sessuale, S. Freud sosteneva che la pulsione sessuale è un tratto psichico (quindi neuro-elettro-chimico) che non ha l’oggetto al suo interno, l’oggetto glielo darebbe un altro sistema mentale, in parte biologicamente, in parte epigeneticamente, in pare culturalmente determinato. La “non” teoria gender (non esiste una “teoria” ma una critica) pesa molto l’influenza culturale ad esempio. La pulsione si è evoluta con la nostra biologia animale (ma ci sono tracce dello stesso sistema sebbene a volte diversamente organizzato anche nei vegetali) ed uno può anche decidere di far di tutto per ignorarne le disposizioni ma deve anche sapere che la pagherà cara.
Come e quanto “cara” non si può dire, si può però ipotizzare che comportamenti atipici diffusi come i ben trecento preti cattolici della Pennsylvania recentemente finiti in giudizio per pedofilia, ne siano un possibile esito. Che poi uno, in base alla numerica dei casi, si potrebbe anche domandare: uomini con vocazione allo Spirito diventano preti sessualmente bizzarri e poi diventano pedofili o pedofili diventano preti per vocazione sessuale?
Ripeto, non voglio addentrami al lato politico della faccenda che comunque c’è. E’ noto che esiste ad esempio un problema di aspra concorrenza tra cattolici e protestanti e tra la mentalità di questo papa e la mentalità media della Chiesa ma anche tra questo papa ed il modello americano in generale, questioni che diventano addirittura geopolitiche. A noi interessano due altre cose.
Primo che tipo di ministero può svolgere un perturbato mentale che non ha naturalità nell’espressione sessuale e quindi che tipo di idee e di azioni svolgono molti preti e prelati rispetto al mondo civile che pure del loro ruolo etico-normativo è effettato?
Secondo qual è l’equilibrio tra la bassa dinamicità della immagine di mondo che diventa conservativa dei propri presupposti,tradizioni e dogmi, e che però proprio da questa quasi-fissità trae la propria inusuale longevità? Cioè, cambiare tutto, sempre e quasi in permanenza allo sviluppo storico-sociale e culturale è molto adattativo ma usura molto velocemente, una collosa resistenza a cambiare, preserva. Almeno fino a quando è necessario un ri-orientamento gestaltico. Sarà questo il caso? Improbabile secondo me.
E cosa comporta per la società laica avere una Chiesa come quella cattolica, così aliena dal comune essere e sentire? Forse la progressiva perdita di consonanza tra società e Chiesa? E questo, in mancanza di altri depositari dell’etica, è solo un bene o anche un male? La mancanza di eticità delle società occidentali di origine cattolica (quelle protestanti hanno una etica, ma diversa, com’è noto molto consonante ad esempio allo spirito del capitalismo) è tutto demerito del “capitalismo” o anche del fallimento di credibilità di una istituzione che impiega secoli a rendersi conto di aver bisogno di un cambiamento? E come giudicare quella collosità che preserva l’istituzione ma condanna le società che accettano quella istituzione a pagarne le disfunzioni?
Domande, quelle cose col punto interrogativo che i pieni di certezze tendono a non frequentare.
CRONACA 733
PROTEZIONE E PERVERSIONE. I periodi di cambiamento, portano timori e speranze. I primi sono coltivati da chi teme di perder condizioni di possibilità, le seconde son coltivate da chi ne ha poche e spera di averne di più. Oggi ci occupiamo dei primi e specificatamente di un settore: il petrolifero.
Il petrolifero o in genere il comparto delle energie fossili, è il centro esatto di una forma economica detta capitalismo termo-industriale. Abbiamo poi scoperto che il capitalismo che nacque, si pensava ma molti ne sono ancora convinti, in coincidenza con la rivoluzione industriale, non è per forza legato alla trasformazione di materia con un misto di energia, capitali ed idee, esso può replicarsi anche in forme meno materiali. Del resto il capitalismo nacque commerciale, ma questo a gli appassionati del XIX secolo non piace notarlo.
Però, l’output sociale e politico, culturale, economico, finanziario e geopolitico del capitalismo termo-industriale è ben diverso da quello del capitalismo che ha rapporti deboli con le cose materiali, i due non sono equivalenti (come il commerciale non lo era con l termo-industriale), non si può pensar privo di effetti il poter sostituire il primo col secondo.
Nella patria del capitalismo occidentale, gli Stati Uniti d’America, la faccenda si è manifestata con il recente, improvviso ed inaspettato tracollo dei democratici post-materialisti in favore di un repubblicano (?) atipico, Trump, alfiere del capitalismo termo-industriale. Sarebbe forse più giusto dire che il capitalismo termo-industriale, ha scelto il suo cover-boy per tentar di invertire la deriva post-materialistica, giocando tra l’altro su vari problemi concreti che la superficiale credenza di poter sostituire l’uno con l’altro aveva sottovalutato. Innanzitutto il problema occupazionale e quindi la distribuzione di ricchezza, quindi la necessità di proteggere l’industria nazionale, quindi di proteggere e potenziare la propria autonomia energetica, quindi di slegarsi da dipendenze esterne (materie prime, forniture di semi-lavorati, produzione disperse in più paesi) che condizionano fortemente l’atteggiamento e la strategia geopolitica.
Insomma è la lotta titanica di un modello contro un altro, entrambi capitalistici, entrambi con le loro élite, interessi, centri di potere ed influenza. Il primo, che era dato prematuramente per morto, ha lasciato fare il secondo fino a che si sono rese manifeste le sue debolezze strutturali ed ha contrattaccato. Ma se il secondo modello ha mostrato di esser stato mal pensato e valutato, il primo ora in ritorno di potenza, mostra le ragioni per le quali stava declinando naturalmente. In effetti non sono le due varianti “materiale-post materiale” il centro della questione, è proprio l’idea di continuare ad ordinare le società occidentali con il fatto economico e per di più “capitalista” il problema ma piuttosto che sprofondare nel dramma ontologico, si preferisce inscenare questa tenzone tra versioni, entrambe insostenibili.
Ecco un veloce elenco degli effetti disfunzionali del primo modello, quello tradizionale. La notizia del giorno (qui) è questa simpatica pretesa del petrolifero americano che invoca la protezione pubblica contro i cambiamenti climatici. La notizia è deliziosa nella sua perversa surrealtà. Insomma il più classico -Più Stato per il Mercato-, lo stesso del secondo modello che poiché non tutti hanno un reddito col digitale (anzi sempre meno) allora Reddito di Cittadinanza. Tanto loro non partecipano alla raccolta di finanza pubblica visto che sono off-shore.
Poi ci sono le questioni della vendita di vari tipi di combustibile americano in Europa (tra cui l’Italia) sebbene costi di più di quello reperibile nelle vicinanze. Poi c’è la protezione offerta da Trump a Conte sulla Libia che è giacimento concorrente (gli italiani controllano la Libia, gli americani controllano gli italiani). Poi c’è l’imposizione di Trump a Conte di rispettare i piani del TAP azero in cambio di un non meglio precisato aiuto in termini di debito pubblico, pare. Poi c’è il tentativo di riaprire la partita coi russi che ha scatenato i capitalisti post-materialisti americani (Bezos cioè Amazon, è proprietario del Washington Times) poiché la Big Oil vorrebbe far comunella nel grande paradiso del fossile che è la Russia. Poi c’è l’ostracismo all’Iran che è energeticamente concorrente (Venezuela a seguire ed il Brasile a bagnomaria). Poi c’è il North Stream un pessimo segnale di alternativa di fornitura che praticano gli indisciplinati tedeschi. Poi ci sono i dazi sulle auto europee e giappo-coreane perché l’auto è il primo terminale del complesso termo-industriale materiale. Poi ci sono tutti i finanziamenti a quei disperati che cercano di invalidare le evidenze su gli studi degli impatti ambientali del termo-fossile. Poi ci sono i nuovi warning sul Peak Oil, 2040 per International Energy Agency , 2030 per British Petroleum. Poi c’è la bilancia perversa ovvero se diminuisci l’estrazione per aumentare il prezzo (Arabia Saudita e Russia), allora torna competitiva la produzione americo-canadese.
Ma il peggio è la lentezza esasperante con cui cresce la domanda generale e le incertezze di redditività del business, tant’è che i sauditi hanno ritirato (momentaneamente, dicono) la vendita del pacchetto azionario di Aramco. Infine, c’è il temuto Minsky moment che sta portando tutte le centrali finanziarie mondiali a riposizionarsi uscendo dal petrolifero di cui si teme un prossimo crollo di valore. Sono 2.500 mld di US$ anno (più di tutto il “metallico”) più 20.000 mld di US$ di derivati oil-linked.
Insomma, per dirla con Gramsci il vecchio modo sta morendo ed il nuovo stenta a nascere, in mezzo i fenomeni più perversi.
CRONACA 732
COMPLESSITA’ E DEMOCRAZIA. Un articolo del NYT (qui), ripreso da un blog di scienza critica col titolo: Dobbiamo aver paura di comunicare la complessità e l’incertezza? (qui), affronta un questione delicata da provare ad illuminare ulteriormente.
Si parte dal fatto che le certezze scientifiche hanno bordi sfumati, ai bordi, le certezze possono sfumare in incertezze. Tradotto e semplificato, ci sono sempre margini di miglioramento e precisazione e ce ne rendiamo conto quando pur dando per acquisita la molta certezza, ci spingiamo lì ai bordi dove iniziano i problemi, i casi fuori teoria. La faccenda è letta rispetto al problema dei vaccini.
Ho scritto un post sulla faccenda dei vaccini (in cui si citavano gli studi del maggior esperto mondiale di malattie rare, un inno all’importanza dell’epigenetica che dice -in sostanza- che per avere certezze di assenza di effetti collaterali nell’assunzione di chimica sintetica, l’unico modo è lo screening genico, soluzione evidentemente poco pratica ma il cui “limite” può servire a relativizzare molte certezze apodittiche) ma non l’ho mai pubblicato perché il calor bianco della polemica specifica ne avrebbe travisato il fine che poi era proprio proporre questa riflessione che non è una riflessione su i vaccini ma su come gestiamo i rapporti tra certezze ed incertezze nel dibattito pubblico.
In breve, le questioni si stanno sempre più complessificando in accordo alla complessificazione generale del mondo umano. Di contro, l’opinione pubblica resta ferma poiché pur immersa nel diluvio informativo, non ha tempo e modo mentale di acquisire maggiori conoscenze che strutturino l’apparato mentale che processa le informazioni. L’inflazione espansiva dei fatti e delle loro complessità, rispetto alla fissità dei punti di vista, aumenta la distanza tra fatti ed opinioni. Nel vuoto di questa crescente distanza, si infilano interessi politici, economici, culturali, la cui tattica mostra una pronunciata attitudine ad usare la dicotomia come strumento di ordine “o di qua o di là” è l’invocazione che sempre più sentiamo brandire con rulli di tamburi e bandiere che garriscono, tribalizzando l’opinione pubblica. In pratica si vuole evitare di frequentare il bordo della questioni, lì dove diventano incerte, segnando un immaginario ed arbitrario confine semplificato in cui c’è o la certezza razionale o la sua negazione che per simmetria diventa irrazionale, il bene ed il male, il bello ed il brutto, il giusto e l’ingiusto. Una operazione tipica della logica a grana grossa mentre la logica a grana fine, non sequenzia blocchi ma continui. Non è che la logica a grana grossa sia sbagliata o lo sia quella a grana fine, per ogni cosa possiamo dar giudizi ora nell’un modo ora nell’altro, il problema -di nuovo- non è far configgere i due modi ma alternarli e contemplarli come complementari. Ma la ginnastica dei punti di vista è poco incentivata ed ancor meno praticata.
L’opinione pubblica è bambina e come tale va trattata. I polemici (da polemos = guerra, conflitto) dibattiti tra sovranismo vs cosmopolitismo, mercato vs stato, occidente vs oriente, multiculturalismo vs razzismo, scienza vs superstizione, moderno vs medioevo e la lista potrete estenderla a piacimento, riflettono questo tentativo di riempire il vuoto tra ignoranza e complessità con divieti che ordinano di stare al di qua o al di là.
Fino a qui siamo nel banale. Quello che però mi sembra meno banale chiedersi è: perché a fronte dell’oggettiva fotografia che mostra cose sempre più complesse ed ignoranze sempre più diffuse, non si invoca una rivoluzione culturale? Perché anche a partire dagli intellettuali, non si colgono questi continui fallimenti culturali per invocare la centralità del problema culturale, del sapere, del dare strumenti diffusi per partecipare della complessità delle questioni? Perché si sta accettando il formarsi di posizioni come quelle che invocano i “competenti”, rinunciando per principio alla condivisione democratica se non dell’intera profondità delle questioni almeno di quel tanto che serve anche a scegliere a quale “competente” credere?
Per me, leggere di “restrizione del suffragio universale”, invocazioni alla dittatura degli esperti, replicazione su fb di post astiosi che censurano intolleranti ogni tipo di dubbio come medioevale, irrazionale, proto-fascista, equivale al turbamento profondo che altri provano nel vedere manifestazioni di ri-organizzazioni del partito nazista. Il veleno preso a gocce immunizza le reazioni. Tra inflazione di complessità e ritardo dell’opinione pubblica s’infila una nuova espressione di totalitarismo che si alimenta del disordine. Quanta più confusione ci sarà, quanto più forte e vasto sarà il richiamo a ripristinare l’ordine delle cose. Così è sempre stato (questa è la dinamica propria del concetto di “totalitario”, al di là delle sue incarnazioni storiche: imporre -ma per certi versi “chiedere” s’imponga- ordine al crescere del disordine che segue ogni transizione come quella nella quale ci troviamo) e spero che così non sarà di nuovo.
Ma se almeno i maggiormente dotati di comprendonio non si svegliano invocando l’urgenza del “più cultura per tutti”, finendo anche loro -solo- per iscriversi con foga al di qua o al di là (in un rinnovato “tradimento dei chierici”), temo che la speranza rimarrà vana e l’evitabile catastrofe che s’annuncia, diverrà inevitabile.
CRONACA 731
LINEE ONDULATE. Una linea collega un punto ad un altro punto. La linea dirigente i rapporti tra USA ed Europa ai tempi dell’amministrazione Trump è chiara: riequilibrare il saldo complessivo degli scambi. Se questo è il suo significato economico e finanziario, quello politico è simile ma in parte diverso.
Se infatti –complessivamente- la bilancia commerciale USA-UE è in favore di quest’ultima, con costante incremento dal 2008, la bilancia politica è ampiamente in favore degli USA, da sempre. Si potrebbe dire che, dal punto di vista USA, la storica perdita nella prima bilancia era necessaria per compensare -in parte- lo strapotere sulla seconda. Quindi, riequilibrare la prima, significa inevitabilmente peggiorare lo sbilancio della seconda.
Tale linea dirigente non è retta. Si alternano momenti di pressione a momenti di parziale rilascio com’è ormai chiaro nella filosofia esasperatamente commercial-negoziale del presidente americano, il volume degli annunci è sempre maggiore di quello dei fatti (qui). Ma se l’andamento è ondulatorio a visione ravvicinata, a visione allontanata la direzione è chiara: o l’Europa si sottomette a maggior grado diminuendo il prezzo della sua alleanza strutturale o tale alleanza si rompe. La linea ha un appuntamento, le prossime elezioni di novembre a cui mancano tre mesi scarsi. C’è quindi da immaginare una intensificazione dell’azione dirigente su questa linea con Trump che vuole presentarsi all’appuntamento elettorale vantando risultati vistosi e concreti. Di contro, viepiù le dirigenze europee subiranno o concederanno, tanto meno avranno -a loro volta- da esibire risultati per il loro censimento elettorale alle europee di maggio prossimo, otto mesi abbondanti.
Poiché la linea Trump non ha solo significato economico e finanziario ma anche e forse soprattutto geopolitico, c’è da immaginare che a prescindere dal suo appuntamento di novembre, la pressione rimarrà e forse si intensificherà proprio tra novembre 2018 e maggio 2019. La linea Trump ha due esiti possibili: a) riequilibrare a suo favore i rapporti con UE, b) sfasciare l’UE come sistema integrato a guida tedesca, polverizzandola in un nugolo di staterelli ansiosi di protezione per poter sopravvivere nel nuovo mondo grande e terribile, in una gara penosa a chi chiede di meno ed offre di più.
La linea UE non c’è, c’è una linea tedesca che cautamente sembra voglia contro-assicurarsi con Cina e Russia, una linea francese che dopo un certo clamore pubblicitario dell’intrepido Macron ora è caduta in una silenziosa assenza, la linea italiana che oscilla tra viaggi in Cina, invocazioni di protezione russa e baci ed abbracci tra Conte e Trump. Sembra quindi che l’Europa abbia già scelto il polverizziamoci così senza rancore o forse si aspetta novembre per vedere se e quanto il grande orco cattivo avrà in termini di maggior o minor potere. Vedremo …