CRONACHE DA 691 A 730

CRONACA 730

21.08 CONTROVERSIA SUL METODO IN ECONOMIA. [Appunto di appunti, oltretutto un po’ più lungo del solito] Sembra non esista disciplina della umana conoscenza maggiormente priva di auto-riflessione sul proprio metodo dell’economia. Non solo nell’ambito della scienze umane, ma anche in quelle naturali, per non parlare del ricco dibattito sul metodo in storia e tacendo l’abitudine naturale della filosofia ad auto-tormentarsi applicando il dubbio al dubbio stesso, ovunque si rinviene qualche forma di auto-riflessione. Addirittura i matematici dubitano e giungono ad autosospendere la propria illusione di auto-fondazione, ma non gli economisti. Due fatti potrebbero giustificare questo assetto.

Uno è facilmente intuibile, dal momento che il pensiero economico prende il ruolo di ordinatore dell’immagine di mondo, assume funzioni di paradigma ed i paradigmi, si sa, diventano postulati. Gli interessi materiali che fanno da contorno alla teoria economica, quelli propriamente economici, finanziari e politici (ma aggiungerei anche geopolitici e geo-culturali), il tessuto che regge le moderne società, certo aiutano ad ingessare l’arto che deve mantenersi al di sopra di ogni sospetto. Ma forse ce ne è anche un altro a cui accenneremo “brevemente”.

Nel 1871 e di nuovo in forme anche più polemicamente specifiche nel 1883, un economista austro-ungarico (della zona oggi al confine tra Polonia e Slovacchia) Carl Menger, al contempo, fonda la cosiddetta “Scuola Austriaca”, il marginalismo ed espelle dal pensiero economico la diversa impostazione storicista incarnata dalla scuola tedesca. L’intero complesso di teorie che fanno l’economia moderna, ciò che rinforza il dominio del liberalismo e del neo-liberalismo e ciò che potrebbe contribuire a spiegare l’assenza stessa di una epistemologia economica, nasce da questa questione, nota come “Methodenstreit” ovvero “controversia sul metodo”.

Poiché la questione verte intorno al ruolo della storia nel pensiero economico e visto che noi -rispetto alla questione- prenderemo -in parte- le parti dei poi sconfitti tedeschi che come vedremo sostenevano che il pensiero economico doveva esser dedotto dai fatti concreti ovvero storici, sarà bene dare un breve inquadramento storico. Nel 1866, i tedeschi (prussiani) inflissero una dura sconfitta a gli austro-ungarici, tra l’altro in una famosa battaglia (Sadowa, oggi Repubblica Ceca) tenutasi non lontano dal paese natale di Menger. Gli storici segnano questo punto come inizio dell’ascesa tedesca ed inizio del declino austro-ungarico. L’anno dopo si forma la Confederazione Tedesca del Nord (ove i prussiani diventano “tedeschi”) e proprio l’anno della pubblicazione del primo libro di Menger (Principi di economia), il 1871, nasce l’Impero tedesco. Da lì in poi è tutta preparazione alla Prima guerra mondiale che i tedeschi perderanno, ma che dissolverà per sempre anche l’Impero austriaco. Insomma, un austriaco, non poteva avere buoni sentimenti verso i tedeschi. Oltretutto, in seguito alla polemica, a gli austriaci venne interdetto l’insegnamento in Germania per molti decenni successivi ed infatti, non solo gli economisti, li ritroveremo poi quasi tutti a Londra o in USA. Una possibile lettura delle influenze geo-storiche nello sviluppo dei sistemi di pensiero era stata a suo tempo proposta da G. Deleuze, ma nessuno l’ha seguito.

La vittoria prussiana, rappresentò un vero e proprio choc per il pensiero liberale dell’epoca che, come oggi, pensava che la ricchezza delle nazioni, dipendesse dallo sviluppo di una economia e di un sistema politico liberali. Governo autoritario, economia protetta e mercantilista in salsa teutonica, invece, mostravano un risultato finale di potenza addirittura competitivo col modello inglese. I liberali tedeschi, sconfitti ideologicamente, in cambio della estromissione dalla gestione politica dell’Impero, otterranno però il pieno supporto per il loro sviluppo commerciale, industriale, bancario secondo un assetto che ritroveremo poi nel famoso e successivo ordo-liberalismo, nel nazismo e nella Germania post-bellica e contemporanea. Ma se i liberali tedeschi vennero normalizzati al conto in banca, non così avvenne per quelli austriaci che con i tedeschi avevano in ballo non solo la contrapposizione ideologica e culturale, ma anche quella nazionale.

Il nostro Menger sosteneva, contro la scuola di pensiero economico tedesca a sua volta fondata da quel Friederich List oggi molto in voga nel rinascente pensiero sovranista in politica ed anti-liberale in economia, che l’economia doveva diventare una scienza esatta strutturata in leggi universali nello spazio e nel tempo, qualcosa di simile alla fisica newtoniana come del resto la intendeva la tradizione dominante inglese. Il metodo Menger isola il fatto economico dalla contingenza storico-sociale, riduce il fatto sociale ad individuale, prepara il campo alla successiva eliminazione della desinenza “politica” che accompagnava il pensiero economico dalla sua nascita, in favore di quella “economics” che ne prederà il posto con la sequenza Stanley Jevons – Leon Walras ed infine Alfred Marshall e la svolta matematizzante. Nel 1883, il nostro che intanto aveva cominciato ad attirare quel Bohm-Bawerk e von Wieser a cui poi si aggiunsero i più noti von Mises e von Hayek, sferra un attacco violento proprio contro la scuola tedesca rappresentata da W. Roscher e K. Knies.

I due sostenevano che l’economia è un aspetto delle forme di vita associata che denotano i popoli, ognuno dei quali ha un suo “spirito” peculiare. Essa quindi va studiata dentro il contesto storico-sociale, ergo non se ne possono trarre leggi astratte come fa la fisica. La concezione romantico-hegeliana del popolo e della società come totalità, totalità in analogia biologica “organica”, portò Roscher ad anticipare quell’idea di ciclo di vita (sviluppo, maturità, morte, malattie) poi a base del pensiero di Spengler, ma in fondo anche di Schmitt. Non leggi economiche astratte quindi ma leggi empiriche dello sviluppo storico e sociale, sì.

La doppia sconfitta bellica tedesca e la vittoria prima franco-inglese poi americana, determinarono la finale eclisse dell’impostazione storicista tedesca e la definitiva affermazione dell’economics come scienza astratta. Le teorie economiche si verificano con le vittorie e si falsificano con le sconfitte militari, quindi politiche, in piena contraddizione con gli assunti anti-storicisti. La “ragione” si propone col nero dell’inchiostro ma infine si afferma col rosso del sangue.

Chiudiamo il già lungo meme, segnalando che Max Weber rilevò a suo tempo la cattedra di uno dei due tedeschi (Knies) e compì una doppia operazione epistemica interessante, sebbene inconclusa e poi seppellita dagli eventi storici. Per primo, contestò a Roscher e Knies la poca storicità del loro stesso preteso metodo storico. Se come anche egli riteneva, il fatto economico ha declinazione locale storico-sociale, non se ne possono trarre verità universali. Gli storicisti, infatti, al pari di Menger sebbene con diversa unità metodologica, traevano leggi universali della società come Hegel o poi Marx col materialismo storico, quando nessuna riduzione è possibile del complesso sociale, dalla storia si possono trarre al massimo regole relative, certo non leggi assolute. Di contro, altrettanto non si può pretendere di fare partendo oltretutto dall’astratto come faceva Menger e come fa ancora oggi l’economics dominante.

La faccenda a questo punto s’ingarbuglia in modo che non ci è qui permesso seguire nello sviluppo concettuale e segnalando che anche Weber poi cadrà nell’individualismo metodologico sviluppando in seguito la sua teoria sociologica. Andiamo però almeno ad una sintesi brutale: dall’osservazione storica, il pensiero economico può trarre “tipi ideali”, concetti come “capitalismo”, “libero mercato”, “mercantilismo”, “individualismo” da unire ai principi astratti del tipo ipotizzati da Menger ed oggi intelaiatura unica della disciplina. Questo per le costruzione teoriche. Queste però andrebbero unite alle teorie interpretative come ad esempio il materialismo storico, ovvero teorie che dipendono dal punto di vista o dal taglio arbitrario del complesso storico sociale. Dati empirici come ad esempio le quantificazioni statistiche, regole generali e non leggi, concetti teorici astratti o storicamente piantati in un preciso punto di vista, collezione di più punti di vista ed i più tagli dell’intero in analisi, condizioni di possibilità e di probabilità, declinazione fine a seconda dei contesti storici e geografici, dovrebbero andare a comporre una disciplina dotata di relatività intrinseca e molteplicità dei concetti e degli apporti metodologici, una disciplina “multipolare” per accordarci allo Zeitgeist o forse semplicemente più “complessa”.

CRONACA 729

19.08 PUNTI CIECHI E VISIONI DEL MONDO. Ho letto giusto ieri un bellissimo pezzo di Oliver Sacks, neurologo, psichiatra, medico, chimico e scrittore di indubbio talento, morto di cancro pochi anni fa. E’ forse l’ultimo suo scritto, incluso in una collezione che dà vita al suo ultimo libro (Il fiume della coscienza, Adelphi), pubblicato dopo la sua morte. Il pezzo si chiama: “Scotoma. Quando la scienza dimentica ed ignora”, ed è una riflessione su come funziona quello strano oggetto mentale che chiamiamo immagine di mondo o mentalità o ideologia o episteme, declinato nell’ambito scientifico anche se le considerazioni hanno valenza più generale.

Darwin riteneva che fare buone osservazioni di fatti, riesce meglio a chi ha già in mente una teoria, un sistema di idee. Mi veniva in mente una dichiarazione di Sidney Brenner, genetista Nobel per la medicina 2002: “La ricerca biologica è in crisi … stiamo affogando in un mare di dati e siamo ugualmente assetati di una struttura teorica con cui interpretarli”. La dichiarazione ha particolare attualità nell’epoca dei big data, del diluvio statistico e dell’indigestione informativa mentre, la negazione delle costruzioni di senso accusate di “ideologia” fa sì che il pane abbondi ma manchino denti che aiutino le facoltà digestive. Da cui l’insaziabile fame di senso.

Ma l’idea di Darwin ha anche il suo rovescio che è poi il tema del pezzo di Sacks. Il sistema di idee, è cieco davanti a fatti che non sono in teoria e quando nonostante tutto non li può negare, arriva a razionalizzarli in costruzione davvero assurde pur se formalmente accettate dal sistema di idee stesso. Sacks cita un certo Gosse, un naturalista di assoluto prestigio che, negli anni in cui infuriava il dibattito sull’evoluzione, pubblicò un libro in cui sosteneva che i fossili che s’andavano trovando, non corrispondevano ad alcun reale essere vivente. Erano stati messi lì a bella posta da Dio, per “castigare la nostra curiosità”. Tra l’altro, oltre che i naturalisti, fece infuriare anche i teologi perché la tesi portava a teorizzare un Dio maligno ed ingannatore. Mi veniva in mente un post di Andrea Zhok di ieri il quale, incuriosito di come suoi contatti di area PD commentassero gli applausi di Genova al “governo dei cialtroni” e soprattutto i fischi al “povero” Martina, ha trovato questo commento: “”se tanta gente odia il Pd non è per le politiche ‘liberiste’ ma perché lo individuano come una ulteriore incarnazione del comunismo.”. Naturalmente, il senso del ridicolo ci vien più facile quando parliamo degli altri, è quando dovremmo parlare di noi che la faccenda si fa difficile.

Gli esempi di negazionismo teorico del perché una teoria non venne accettata perché estranea al sistema di immagine di mondo, abbondano: dai jumping genes della McClintock, alla deriva dei continenti di Wegener, all’endosimbiosi della Margulis, al calcolo infinitesimale di Archimede e l’eliocentrismo di Aristarco di Samo congelati per secoli prima di esser reinventati quando il clima culturale lo permise ed anzi lo incentivò. E che dire del ribrezzo provato dagli stessi scopritori o partecipi di rivoluzioni scientifiche, delle loro stesse conclusioni come nei casi di Poincaré con i principi che poi porteranno alla teoria del caos o Planck con i quanti o Einstein con l’incompletezza della mq? E che dire invece di tutti coloro che rifiutano ostinatamente di aprire una breccia nei sistemi di idee ampiamente falsificati dalla storia nei saperi storico-sociali, sistemi che ne connotano la memoria esistenziale, l’identità ed a volte, il livello di prestigio intellettuale magari ratificato in una cattedra o in inviti televisivi a spiegare il mondo ed il suo strano tempo. Di nuovo, facciamo attenzione perché ci vien facile leggere tutto questo nelle teorie dominanti e nei loro portatori, ma siamo sicuri che quelle critiche che non riescono a sovvertire quel dominio eppure vengono ripetute e ripetute ad nauseam da decenni, immutate e religiosamente trattate come reliquie sacre della verità, non soffrano dello stesso problema?

Sacks, conclude ricorrendo all’analogia con le biologia molecolare, invitando a considerare l’innovazione concettuale a suo tempo introdotta da Eldredge-Gould, quegli “equilibri punteggiati” che segnano il corso evolutivo non come credevano i darwinisti conformisti in continuità, ma saltando, ad improvvise riconfigurazioni gestaltiche, a rivoluzioni in accordo con l’idea già espressa a suo tempo da Khun. Si sono poi trovati i corrispettivi genetici di queste modificazioni generali dei sistemi viventi, i geni Hox.

Sul piano dei sistemi di idee socio-storiche mi vien da pensare che siano ridefinizioni nell’ontologia e nell’epistemologia i corrispettivi che aiutino a formare nuove architetture nei sistemi di pensiero. Inoltre, gli ultimi decenni di ricerca in biologia, hanno progressivamente diminuito l’importanza data alla genetica, in favore dell’epigenetica. Il testo genetico varia la sua realizzazione a contatto dello sviluppo dell’intero sistema corporeo che, dopo la nascita, avviene in un determinato ambiente. Il che mi fa pensare a sistemi di pensiero rivisti a seguito di più ampie revisioni dell’ontologia e del’epistemologia, ma che più che la coerenza con l’Io e la sua storia e le tradizioni passate, cerchino la fitness nel contatto col mondo concreto. Viepiù quando i tempi mostrano profondo cambiamento di tutte le parti, le loro relazioni e tutto ciò che ne consegue in termini di complessità.

CRONACA 728

18.08  UNO SGUARDO DAL PONTE. La metà delle famiglie che ha avuto lutto nei fatti di Genova, ha rifiutato i funerali di stato. La giuria popolare ha già emesso la sentenza: i ponti non debbono crollare, per nessuno motivo, se lo stato vuole privatizzare le responsabilità di gestione dei suoi/nostri beni, allora noi privatizziamo il nostro lutto. La sfera pubblica, comunitaria, è definitivamente infranta, popolo e stato, popolo e politica sono su due monconi di territorio opposti, oggi divisi dal ponte spezzato.

La frattura sembra ripercuotersi a tutti i livelli, anche tra popolo e costruttori dell’opinione che si rivelano esser parte organica di un potere che ha fallito clamorosamente. Quando si arriva a fallire, non si può pretendere dal fallito quell’intelligenza la cui mancanza è proprio la causa del fallimento. Richiedere l’osservanza dei tempi del diritto costituito, invocare il “dramma” delle ripercussioni su i mercati ed il diritto l’impresa, invocare la responsabilità su i messaggi che s’inviano a gli ”investitori esteri”, indicare a giudizio l’impreparazione della nuova classe politica lì da poco più di due mesi, omettere informazioni che comunque tracimano dalle fonti alternative, sono tutte ennesime conferme delle ragioni che hanno portato la fallimento: la perdita di contatto col senso comune.

Sul piano formale, l’attuale governo sta certo dando l’impressione di non esser esperto e del resto se è “nuovo” davvero e non riciclato o lavato con Perlana, difficile possa esserlo. Ma nel gioco di chi butteresti dal pilone, il popolo non sceglie il non esperto in gestione del dramma del ponte spezzato, ma l’esperto che non ha evitato che il ponte si spezzasse, la sostanza prevale sulla forma, ovvio per il senso comune, meno ovvio per chi ha privatizzato anche il senso.

La drammaturgia metaforica a questo punto potrebbe invocare anche l’immagine del “Sipario strappato”, l’ennesimo brutto spettacolo di quel dietro le quinte in cui personaggi pubblici della politica, s’intrecciano col potere dei soldi che distorce l’interesse pubblico in favore dei loro diritti di élite autonominata ed autogiustificata. Cose che per altro si sanno e si sanno da secoli non da mesi o anni, ma cose che si tollerano sino a che viene garantito lo standard minimo delle strutture di convivenza. Far crollare un ponte rompe quel contratto di sopportazione.

Forse solo la coincidenza con la festività ferragostana ha evitato di trovare tra le vittime anche il testimonial di un ultimo aspetto del dramma, la “Morte di un commesso viaggiatore”, quella figura che vive ai più bassi livelli della costruzione sociale intelaiata di scambi, scambi che presuppongono collegamenti e quindi ponti e sogni, sogno di poter scalare il telaio per darsi migliori condizioni di possibilità. Willy, il commesso viaggiatore anti-eroe del sogno americano tratteggiato nel dramma milleriano, scoperto di non poter più guidare la macchina per esercitare il suo lavoro e quindi privato dell’illusione di poter guidare il suo sogno, cerca un posto fisso ma non c’è nulla di fisso in quel sogno che diventa incubo. Quello che per lui diventa incubo è il sogno di qualcun altro che prospera proprio perché nel sistema non c’è nulla di fisso, tutto è flessibile meno il presupposto: qualcuno deve guadagnarci. Se non sei in grado di oscillare anche tu, i tuoi sogni e la tua famiglia, non servi, sei un servo che non serve. Willy quindi si suiciderà con la sua macchina per dare alla famiglia i proventi dell’assicurazione sulla sua vita che, svuotata del sogno, si affloscia su se stessa priva di senso.

Arriviamo così al ponte Morandi immortalato dalla copertina della Domenica del Corriere di fine anni ’60, alla rete autostradale e ferroviaria italiana che allora venne stesa per dar corpo al sogno del miracolo economico. Sogno, miracolo, costruzione sociale che ormai ha più di sessanta anni e sbiadisce nel ricordo, ricordo che svanisce con la morte stessa di coloro la cui anagrafe porta la data ultima a progressiva scadenza. L’Italia non ha un sogno, non spera più nei miracoli, non è in grado di fare progetti condivisi, litiga con se stessa, ha perso la sua consistenza comunitaria. L’onda lunga dei rancori verrà, nelle prossime settimane e mesi, alimentata da tutti coloro la cui vita dipende dalla circolazione in una città ed in un’area geografica che -privata della connessione- rallenterà, s’ingolferà, gripperà. Col ponte spezzato, si spezza il contratto silenzioso tra popolo ed élite, tra sogno e realtà, tra presente e futuro. E’ il momento di guardarci urgentemente negli occhi e trovare un nuovo tessuto il cui senso non potrà che esser condiviso da molti per reggere l’intera comunità, in tempi che si mostrano sempre più difficili.

[Immagine Pete Kreiner]

CRONACA 727

17.08  BRUTTO CLIMA. E così, dopo anni di ricerche e verifiche, il consesso mondiale degli scienziati geologici ovvero la Commissione internazionale per la stratigrafia, ha stabilito la tanto discussa tripartizione interna all’epoca dell’Olocene che iniziata 11.700 af, è poi quella in cui viviamo.

Le epoche geologiche sono divise in periodi e così l’Olocene è stato tripartito. L’ultimo periodo iniziato 4200 a.f. e quindi nel 2200 a.C., si chiamerebbe Meghalayano dal nome di uno stato indiano in cui all’interno di una grotta, si è trovata una stalagmite che esattamente in quel periodo mostra una drastica riduzione dei monsoni. Il periodo quindi nel quale viviamo sarebbe climaticamente connotato da siccità.

La faccenda non è priva di aspre polemiche poiché se la scienza non è democratica, lo è l’epistemologia ovvero la decisione ex ante il fatto scientifico di cosa cercare, come indagare, come giudicare. La scienza è uno strumento di conoscenza, cosa fare dello strumento ovviamente è decisione umana, quindi filosofica che nei sistemi sociali umani, diventa politica.

La polemica registra la sconfitta del gruppo dei geologi (e vari altri tipi di scienziati) che avevano proposto l’introduzione dell’innovativa etichetta di Antropocene (che gli ecologi marxisti avevano proposto di estremizzare ulteriormente poiché i marxisti sanno sempre più cose dei non marxisti, in Capitalocene). Ovviamente, l’ipotesi che i geologi denotassero una era geologica col termine capitalocene era valida solo per pubblicare libri -soprattutto “critici”- che è l’attività principali dei pensatori marxisti, ed oltretutto assai questionabile poiché se è vero che l’impatto umano su suolo e clima ha avuto certo un maggior intensità a partire dal’inizio della Rivoluzione industriale, le modifiche umane sono intervenute quantomeno a partire dall’agricoltura intenzionale, circa 11.000 a.f. .

Comunque, l’associazione dei geologi hanno ignorato l’intera faccenda radicalmente ed hanno optato per una più tradizionale registrazione di eventi naturali impersonali, com’è tradizione della disciplina. BBC News riporta gli echi del dibattito interno alla comunità scientifica, al professor Maslin fiero portabandiera dell’ipotesi antropocenica, risponde il professor Walker, così “”Queste suddivisioni dell’Olocene sono basate interamente su prove fisiche (climatiche / ambientali) mentre qualsiasi designazione dell’Antropocene come una nuova unità entro il tempo geologico si baserebbe interamente su prove di impatto umano”. La risposta è appunto faccenda epistemologica: stante la variazione climatico-ambientale registrata, qual è la differenza se la causa accertata è di tipo naturale o umana?

Non sono un geologo ma spero che per nominare un periodo geologico si siano affidati a qualcosa di più che non una carota di ghiaccio indiana i cui monsoni sono eventi di circolazione delle masse d’aria con logica tipicamente geo-localizzata. La questione, promette di avere strascichi perché la scienza in output è (più o meno) oggettiva ma in imput, no. Pur non essendo un gruppo facebook di troll pagati da potenze straniere, molti geologi scontenti, hanno addirittura ipotizzato una sudditanza epistemica al clima negazionista imposto da Trump in USA che è comunque l’ambiente di tutti gli ambienti, anche nella scienza che dipende dai finanziamenti che dipendono dai politici, ovviamente in maniera, come fieramente molti rivendicano ultimamente con urlato sprezzo del ridicolo, “non democratica”. Viepiù, laddove i finanziamenti vengono dal mercato ovvero da imprese normalmente ordinate dal profitto a breve termine, sopratutto se quotate in Borsa.

C’è però un secondo fatto da esaminare per dar conto del titolo del post. Prima di 4200 a.f, i geologi hanno individuato un periodo iniziato 8300 a.f, connotato da clima molto secco e freddo per via dello scioglimento dei ghiacci canadesi che alterarono le correnti oceaniche. Prima ancora, all’inizio del’Olocene ovvero 11.700 af., era iniziata la de-glaciazione con climi più favorevoli e grande abbondanza d’acqua dolce. In pratica, questo primo periodo fu in assoluto il più favorevole ed è poi quello registrato in molte mitologie con la nostalgia di una età paradisiaca in cui era tutto facile e semplice. Le società complesse e tutto ciò che ne conseguì in termini di gerarchia, guerre ed immagini di mondo, sorse per gestire il già avvenuto incremento demografico in condizioni che andavano restringendo le condizioni di possibilità. Il terzo periodo, il nostro, sarebbe conseguenza di questo ciclo.

Unitamente all’incremento climatico che è ormai fatto certo ed assodato, potremmo prevedere come seguito o una nuova glaciazione o una ripetizione del periodo freddo mediano detto Northgrippiano, nella nuova classificazione. Pare infatti che i ghiacci terrestri siano in via di scioglimento e quindi parrebbe prevedibile un nuovo disordine delle circolazioni correntizie con irrigidimento climatico conseguente (certo dopo un “grande caldo”). Ovviamente, tutta questa parte finale del post è altamente congetturale ed opinabile, ma qui su fb siamo appunto per discutere con leggerezza fatti molto più complessi, basta relativizzare le assunzioni ed ecco che l’esercizio, nella sua giusta dimensione, ha comunque un sua relativa utilità: democratizzare la conoscenza a più livelli (da precisare e confermare in successivi approfondimenti, si spera) .

In linea generale, ci si domanda: a prescindere dall’annosa e tortuosa discussione sulle cause di questo innalzamento climatico, antropico o naturale, le nostre società sono attrezzate per farvi fronte? Se no, come sembra, non sarebbe il caso di introdurre il dibattito su gli effetti in attesa ci si chiarisca le cause?

CRONACA 726

13.08 CONOSCI TE STESSO. L’antica sapienza greca, precedente l’inizio di quella che poi Platone chiamerà “filosofia”, giunse a distillare questo pensiero, poi attribuito a Socrate e dato come etichetta al dire dell’oracolo di Delfi. Si può ben dire che così, il pensiero antico, intuì l’essenza del pensiero umano: la riflessione.

Riflessione s’intende come un circolo in cui un soggetto si dà come oggetto a se stesso, il pensiero si pensa. “Pensiero che pensa se stesso” era proprio la definizione del divino che Aristotele dette alla fine della collezione di libri poi da altri disgraziatamente chiamati “Metafisica” e virgolettando un suo celebre passo, così Hegel terminò l’ultima pagina della sua Enciclopedia delle scienze filosofiche che è il blueprint dell’intero edificio concettuale del tedesco. Alcuni filosofi hanno seguito la prescrizione (meno del dovuto), riflettendo non su cose del mondo ma proprio sul come riflettiamo, sul come pensiamo le cose. Sembra però che questa antica intuizione non abbia ricevuto l’attenzione che sembrerebbe meritare anche perché molti hanno avuto interesse a distogliere l’attenzione dal compito.

E’ sintomatico che gli studi sul sottostante materiale del pensiero, il cervello, si siano sviluppati con molta difficoltà, solo da pochi decenni. Iniziati tardi e continuamente strattonati in interpretazione da chi vuole il cervello figlio della natura e chi lo vuole figlio della cultura, tra chi lo vuole razionale e chi lo vuole emotivo, tra chi lo vuole preciso e riducibile e chi lo vuole impreciso ed olistico, genetico o epigenetico, fisso o cangiante, in una vasca o embodied (incorporato, inserito in un corpo), tra chi l’ha incastonato nell’immagine di mondo dominante che ci vuole calcolatori razionali dell’utile egoistico e chi a fatica ha fatto presente che il cervello non è un computer, è al servizio di un corpo di animale sociale tanto emotivo che razionale e svolge come organo primario, la funzione adattativa a condizioni che cambiano continuamente, cambiando egli stesso topologia e funzionalità.

Per lo più, queste questioni che di loro sembrerebbero imporsi come primario interesse universale, sono state confinate negli angusti e difficilmente penetrabili ambiti della biologia molecolare e della scienze cognitive. La stessa psicologia che pure Freud poco prima di morire invitava ad evolversi seguendo i progressi delle scienze biologiche, nonché la filosofia rancorosamente chiusasi nel suo eremo di regina della conoscenza, decaduta e senza regno ormai balcanizzato in feudi disciplinari sempre più minuti, se ne tengono alla larga favorendo il monopolio non solo conoscitivo ma anche ermeneutico di personaggi imbarazzanti come i psicobiologi e gli ingegneri dell’AI e da ultimo i “tecnici” dei Big Data. Che poi, in tempi in cui si eleva a tiranna la competenza sarebbe come farsi operare al cuore da un idraulico, tanto -in fondo- è una pompa.

Uno dei più precoci studiosi del cervello, Ramòn y Cajal (1852-1934), riteneva che “ogni essere umano, se è incline a farlo, può essere scultore del proprio cervello”, l’organo centrale del nostro essere che, riflettendo su se stesso, può imparare a gestirsi e darsi forma e funzione non solo -come in genere accade- in forma irriflessa, ma seguendo la sua stessa intenzione. Se volessimo dare un po’ di numeri tanto per farci un’idea della quantità e qualità della complessità del sistema, potremmo dire che i neuroni sono approssimativamente 85 miliardi circa con circa più di 200 forme diverse ed altrettante o poco più le cellule gliali, 150 mila miliardi sono le connessioni (sinapsi) tra neuroni, il cervello intero può svolgere approssimativamente 38 milioni di miliardi di operazioni al secondo, gli assoni del vostro cervello cuciti assieme farebbero un filamento di circa 150.000 chilometri, la velocità dell’impulso elettrico che trasportano può toccare i 720 km/h, le onde sono di cinque diversi tipi di frequenza, i neurotrasmettitori sono più di cento tipi diversi, ma poi ci sono anche i neuro modulatori e gli ormoni. Ma le varietà contano poi anche le loro aggregazioni sistemiche, i tre cervelli evolutivi (rettile, limbico-mammifero, primate-corteccia ed in particolare, la corteccia umana) le sue varie parti più o meno “specializzate”, i due emisferi. Tante varietà, tante interrelazioni, per lo più non lineari, treni di feedback, logica adattativa tra cervello e corpo e tra corpo ed ambiente, il tempo che segna il come è fatto il cervello, nonché la variabilità temporale dell’ambiente in cui deve aiutare il suo corpo ad adattarsi, mantenere l’identità mentre si cambia, un timing biologico che porta all’inesorabile collasso finale di sistema, oltretutto essendone consapevole, ben si capirà come tutto ciò possa dirsi “la madre di tutte le complessità”.

La sovranità mentale è il presupposto di tutte le altre. Sappiate che non sono pochi coloro che si stanno affannando a conoscere voi stessi, ma nell’elenco mancate proprio voi. La scienza non è democratica, infatti, nelle sue intenzioni, essendo forma della polis come ogni altra forma umana, è o monarchica o oligarchica. Forse sarebbe il caso di riascoltare gli antichi sapienti greci? Ah già “i Greci”! quegli inguaribili pazzerelloni che per ultimi (il tempo non inizia coi Greci, gli antichi Greci furono gli ultimi dell’antichità profonda) praticarono l’antico istituto democratico …, quantomeno “inattuali”.

CRONACA 725

10.08 CATEGORIZZAZIONE. La categoria è un gruppo di cose o eventi non identici che trattiamo come equivalenti. La categorizzazione ci serve per risparmiare spazio ed energia mentale sempre soggetta al principio di scarsità sussumendo il tanto in poco e ci serve per ordinare la percezione del mondo poiché ogni categoria -nella nostra mente- è ben precisata nel giudizio essendo collegata ai centri del valore. Poiché esercita questa funzione di sintesi per l’archiviazione è soggetta al principio di generalizzazione che comprime i non uguali in simili.

Vari esprimenti nelle scienze cognitive, dicono congiuntamente che le nostre categorizzazioni sono molto approssimative. Non sono affatto rigorose, né logiche, né universali, sono probabilistiche, si ignorano per lo più i criteri di “necessario-sufficiente”, procedono per inquadramenti olistici. Naturalmente, la categorizzazione risponde solo a gli intenti propri della singola mente, le cose o gli eventi non si presentano a tutti con etichette visibili ed esplicite, pronti per esser archiviati. Ogni sistema di classificazione è quindi incastonato in una immagine di mondo.

Le immagini di mondo hanno varie versioni e distribuzioni ma le due principali versioni sono quella individuale privata e quella collettiva pubblica. Nel mezzo ci sono le versioni gruppali, quelle ordinate da una precisa credenza filosofica (anche quando non è esplicita), politica, religiosa o di altro tipo. I soggetti più sociali tendono ad assumere o quantomeno a registrare a grana fine la propria personale immagine di mondo privata con quella pubblica o di gruppo, tendono cioè a categorizzare secondo il come si categorizza pubblicamente, come fan tutti, là dove la generalizzazione, il probabilismo e l’olismo sono principi ancor più ordinativi. Anche la categorizzazione è soggetta a categorizzazione. Altresì, tendono ad importare non solo il giudizio categoriale ma anche quello di valore: ciò che è bene e ciò che è male, bello e brutto, giusto e sbagliato.

In periodi di profondo cambiamento come quelli in cui siamo capitati, si registrano diffusamente ansia e confusione categoriale. La confusione proviene dal fatto che le nuove cose ed i nuovi eventi provengono da una struttura di mondo che sta cambiando e quindi si presentano con una natura che pone continuamente il problema della categorizzazione: dove mai andrà archiviata e giudicata questa cosa? L’incertezza di archiviazione provoca l’ansia. L’ansia, come si sa, deve durare poco altrimenti paralizza la mente. Qui intervengono i gestori del discorso pubblico che aiutano a tirarsene fuori, forzando le generalizzazioni e ficcando a forza la cosa o il fatto in una pregressa categoria di cui è certo il giudizio di valore.

Ai gestori del discorso pubblico non interessano più di tanto le categorie in sé ma i giudizi di valore. I gestori del discorso pubblico assumono la funzione dell’Inquisizione e va ricordato che sebbene essa sia stata istituita già nel 1184, le sue più rilevanti tracce storiche sono quelle della versione spagnola 1478 e portoghese 1536 poi estese al Sud America, nonché quella anti-protestante romana del 1542. L’Inquisizione cioè è un fenomeno soprattutto del periodo in cui la Chiesa stava perdendo inesorabilmente il potere ordinativo, nei sistemi, gli irrigidimenti avvengono sempre poco prima di morire. Il nuovo produce cose e fatti, il vecchio li violenta negandogli il potere sovversivo di riformulare l’apparato categoriale, gli individui collaborano perché così sedano l’ansia. Il tutto dura in certo tempo, poi -in genere-, il nuovo prende forma compiuta nel reale ed allora qualcuno comincia a proporre nuove categorie di cui si discuterà il giudizio di valore, creando nuovi archivi e soprattutto nuove immagini di mondo. Noi siamo solo a gli inizi di quel tempo.

Godiamoci quindi la meravigliosa ironia di J. L. Borges sulla categorizzazione nel racconto “Il linguaggio analitico di John Wilkins” contenuto nella raccolta <Altre inquisizioni>: “Codeste ambiguità, ridondanze e deficienze ricordano quelle che il dottor Franz Kuhn attribuisce a un’enciclopedia cinese che si intitola Emporio Celeste di Conoscimenti Benevoli. Nelle sue remote pagine è scritto che gli animali si dividono in a) appartenenti all’imperatore, b) imbalsamati, c) addomesticati, d) lattonzoli, e) sirene, f) favolosi, g) cani randagi, h) inclusi in questa classificazione, i) che s’agitano come pazzi, j) innumerevoli, k) disegnati con un pennello finissimo di pelo di cammello, l) eccetera, m) che hanno rotto il vaso, n) che da lontano sembrano mosche”.

La mia preferita è “innumerevoli”.

CRONACA 724

05.08  EQUILIBRI TRA LE PARTI DEI SISTEMI. Dalla sua istituzione avvenuta nel 1969, il Premio della Banca di Svezia per idee sull’economia, detto impropriamente “Nobel per l’economia”, ha premiato circa 80 economisti di cui addirittura una donna.

La signora di origini norvegesi, Elinor Ostrom, intervistata a suo tempo ebbe a dire: «All’inizio della mia carriera in economia dominava l’idea che “avido è bello”. Siamo tutti Homo oeconomicus, si sosteneva, atomi che devono pensare solo al proprio tornaconto personale, e la mano invisibile del mercato farà sì che, come per magia, ciò porti al bene comune. Ma più studiavo e più mi accorgevo che era una tesi del tutto infondata, ammantata di un’aura di autorevolezza dalle equazioni matematiche».

Miss Ostrom infatti, ricevette il falso Nobel, per le idee espresse in Governare i beni collettivi, (Marsilio, Venezia, 2006) detti anche “beni comuni”. La Ostrom voleva dare diverso esito ad un dilemma esposto a suo tempo da un ecologo, tale Garrett Hardin che aveva pubblicato un influente articolo subito diventato luogo comune “The Tragedy of the Commons” (1968). Hardin sosteneva che nel caso di beni di nessuno ovvero collettivi (da cui si evince la convinzione che il gruppo non sia un soggetto), l’egoismo individuale avrebbe portato ad un sovra sfruttamento delle risorse con definitivo collasso del sistema, da cui la tragedia evocata nel titolo. Gli economisti che a questo punto è inutile qualificare in qualche modo visto che erano tutti d’accordo, arguirono in maggioranza che l’unica via era privatizzarlo, per una minoranza doveva invece diventare dello stato, così diventava di qualcuno e non di nessuno.

Ostrom dimostrò con casi storici, concreti e ragionati che una precisa organizzazione funzionale basata su una sintesi in otto punti permetteva benissimo al collettivo di funzionare come un individuo ed auto-regolarsi. Naturalmente l’organizzazione funzionale descritta deve esser coscientemente scelta, approvata e praticata dai convenuti. In pratica, occorre una auto-regolazione democratica che è l’unica alterativa al più stato meno mercato vs più mercato meno stato.

E’ l’unico caso io conosca di pensiero sulle forme economiche democratiche, quella democrazia con cui i più si sciacquano la bocca senza saper bene di cosa stanno parlando. Inclusi beni comunisti purtroppo i quali vedono con appetito il bene comune come alternativa al bene privato, confondendolo però un po’ tropo spesso col bene pubblico. Sia chiaro, io non ho nulla in contrario e per principio, né contro i beni privati, né contro i beni pubblici e non penso che tutto debba esser bene comune. Penso solo che se abbandonassimo la pretesa di organizzare i fatti economici in base a teologie dogmatiche discese dal postulato unico che è sempre premesso ma mai giustificato e ci aprissimo al pluralismo di fatto, per il quale fenomeni complessi si organizzano in svariati modi e mai solo in uno, ne guadagneremmo in benessere sociale e politico.

Se poi non per legge ma creando condizioni di possibilità, favorissimo l’affluenza di maggior pensiero femminile, forse anche qui, in termini di pluralismo oltretutto rappresentativo visto che condividiamo a metà il condominio planetario, in economia e non solo, ne guadagneremmo di nuovo. Chiarisco che con “pensiero femminile” s’intende pensiero scaturito da una mente di donna ma non di quelle che fanno finta di esser uomini, di donna-femmina (non necessariamente eterosessuale), stante che donne e uomini hanno una diversa biologia che certo si riflette nel centro di comando generale che abbiamo in testa, detto cervello.

Sarà un caso se su 80 economisti, l’unico premio per idee di economia basata sulla cooperazione informale sia stato dato ad una donna e 79 volte a variazioni su temi oscillanti intorno al paradigma di competizione? Chissà, ci sarebbe da far tentativo per vedere se c’è errore.

CRONACA 723

TAGLIARE – CUCIRE. “La natura non stabilisce dei fatti: questi appaiono solo nelle frasi ideate dagli esseri umani per riferire su quella ragnatela continua e senza giunture che costituisce il mondo reale che li circonda”, così Walter J. Ong, il gesuita americano il cui “Oralità e scrittura”, ha segnato profondamente gli studi linguistico-culturali. La realtà è un indistinto complesso che noi tagliamo in pezzi a piacere per poi ricucirli in qualche modo, sempre a piacere sebbene i gradi libertà di questo vago “a piacere” siano poi condizionati dal fine ultimo della cosa che si vuole fare.

Stamane, appena aperta la pagina on line di Repubblica, ho letto il titolo di un pezzo di M. Cacciari e son sobbalzato “Prepariamoci alle Europe” in cui l’occhiello continua con “Serve una nuova strategia per l’Unione … “. Il mio inconscio mi ha fatto leggere nel titolo “Europe”, che subito ho confermato a me stesso pensando a “Geo-filosofia dell’Europa” ed a “L’Arcipelago” del filosofo veneziano. Ecco, ho pensato, finalmente gli è venuto a mente che l’arcipelago è plurale e plurale è la geografia che fa da base alle diverse storie e finalmente ne ha dedotto che se Europa è singolare come lo è Asia o Africa o America, questo certo non dice come ritagliarla e ricucirla politicamente.

Già nell’originario arcipelago greco da cui traeva ispirazione il Cacciari le circa 1500 poleis si univano in più unioni (che si chiamavano anfizionie, ad esempio quella di Delfi con Sparta e quella Delio-Attica con Atene). La natura plurale della geo-storia europea, la sua natura di arcipelago di isole non isolate, non può portare ad Europa, almeno in prima istanza, ma ad Europe! Purtroppo era tutta farina del mio inconscio, il titolo reale, riletto era un ben più deludente “Prepariamoci alle Europee” cioè alle prossime elezioni primaverili.

Chi ha approcciato per primo il problema Europa nel dopoguerra lo ha fatto non pensando ad una unione politica ma economica. Ora, una unione economica ha una sua natura ampia poiché più sono i soggetti che mettono assieme i loro mercati, meglio è per tutti. Quando poi pensi di trasformare una unione economica in politica ti trovi nei guai. Non ricordo dove ho letto di una gentildonna che per le sue cene conviviali invitava sempre e solo sei persone. La signora aveva scoperto che per sviluppare reciproca conoscenza attraverso un discorso collettivo, sei era il limite massimo oltre al quale la compagnia si divideva in sottogruppi, coppie, triplette che se ne andavano ognuno per propri conto. Cena non più di sei ed evidentemente con qualche tratto in comune perché se metti a tavola un fissato di calcio ed uno di geopolitica è difficile troveranno modo di tagliare e ricucire lo stesso argomento comune, con la stessa logica. Una unione economica è più simile ad un party, una unione politica è più simile ad una cena seduti e conversanti per un certo tempo, e sono due logiche diverse, in tutta evidenza. Quelli che inviti ad un party non sono quelli che inviteresti ad una cena che non sono quelli con cui andresti in vacanza.

Dal fatto che Europa si è tagliata e ricucita come sistema economico che domina il politico e data l’evidente impossibilità di trasformare un consesso economico in politico poiché questi hanno presupposti, convenzioni e sopratutto fini del tutto diversi, come li hanno una cena ed un party, è nata la reazione del ritorno alle nazioni con pieno recupero della natura decisionale del politico: la sovranità. Ma, come appare evidente, questa idea nasce in risposta all’altra. L’altra però non nasceva solo da questioni di libera volontà di tagliare e cucire lo spazio in un certo modo, nasceva anche in risposta al problema di come permettere ai frazionatissimi stati europei, di usufruire di un “totale maggiore della somma delle parti”, visto che il mondo non era più “europeo” ma planetario.

La logica che ha formato lo stato-nazione europeo risale al XVI secolo ma a quei tempi eravamo tutti presi solo dal problema della nostra convivenza reciproca. Nel XX e viepiù XXI secolo, i problemi di convivenza reciproca prendono un aspetto secondario rispetto ai problemi di convivenza, competizione e cooperazione planetaria. Se dunque il ritorno alla nazione ben risponde al problema del ripristino dell’ordinatore politico rispetto al party economico dell’Unione, non risponde affatto al problema della convivenza nel più ampio scenario mondiale, problema a cui non risponde neanche l’attuale Unione poiché il problema della convivenza mondiale è politico mentre l’Unione è un soggetto economico o forse più un oggetto che un soggetto, non essendo dotato di intenzionalità che non sia l’astratto richiamo al libero commercio globale.

Va bene, prepariamoci alle “europee”. Io lo farò continuando a sostenere progetti a guida politica e non economica, progetti plurali e non singolari (Europe vs Europa), geo-storici e non metafisici o economico-finanziari-valutari, cene permanenti e non party occasionali tenendo bene a mente la complessità di soddisfare al contempo molte variabili: la sovranità politica che certo non annulla i problemi di dimensione economica e non solo economica, la democrazia delle decisioni sulla politica della comunità, la convivenza interna all’Europa, ma sopratutto quello che oggi s’impone come il fine ultimo ovvero la convivenza planetaria con altri soggetti politici massivi che hanno loro altri disegni su come tagliare e cucire il mondo e con i quali ci sarà -quantomeno- da discutere, forse animatamente.

Insomma, voterò per chi propone più Europe.

CRONACA 722

01.08 L’INCUBO SOVRANO. Al G7 canadese, Conte si presentò sulla scorta di dichiarazioni del nuovo governo in favore di una revisione delle sanzioni alla Russia. Pochi notarono che Trump disse che –nel fronte occidentale- nessuno era autorizzato a fughe in avanti, il pallino delle relazioni con la Russia era in mani americane. Trump non voleva dire che la Russia andava ostracizzata a priori, come poi ha dimostrato ad Helsinki, ha detto che decide lui cosa fare, quando fare e come fare, cosa dare per cosa ottenere. Il rimbrotto sul gas alla Germania, andava anche in questo senso.

Nel suo viaggio americano, Conte ha dovuto ribadire che le sanzioni restano convintamente e l’Italia altrettanto convintamente porterà avanti il progetto TAP, ovvero fornitura di gas da quello che non altrimenti si può definire uno stato canaglia: l’Azerbaijan. Ricordo ai più distratti che abbiamo incontrato l’ Azerbajan come “official carrier” del vasto traffico d’armi all’ombra della NATO e degli USA, che triangolava con Malta, Medio Oriente, Arabia Saudita (Isis&friends), le produzione euro-americane, usando anche aeroporti italiani. TAP ha preso il posto del precedente South stream, ovvero il gemello sud del North stream russo-tedesco. Noi lo abbiamo dovuto cancellare, i tedeschi l’hanno raddoppiato. Il South stream venne impedito dalla commissione europea su pressioni americane. L’ineffabile Zakharova, portavoce russa degli esteri, ha dichiarato che se l’Italia non cancella le sanzioni, vuol dire che le appoggia, lapalissiana ma a volte serve anche l’ovvio.

Michele Geraci, sottosegretario allo sviluppo e noto sponsor delle relazioni italo-euro-cinesi, continua a lanciare interessanti ed innovative idee e segnali per tessere queste nuove relazioni che sarebbero davvero importanti per noi. Ma Bloomberg ci fa sapere che Trump starebbe per portare i dazi verso la Cina dal 10% al 25%. Difficile quindi che il prode Geraci ed il suo governo potranno fare alcunché in senso contrario a questa linea che è la linea-palinsesto della politica estera americana: ostracizzare la Cina, isolarla, contenerla, metterla in difficoltà.

In tale contesto, certo non sarà autonomia dell’Italia gestire una qualche relazione critica nei confronti di Israele o Arabia Saudita o portare avanti qualche legittimo interesse con l’Iran, la politica estera italiana può solo scegliere se esser appaltata all’UE o a gli USA, una politica estera autonoma non si può fare perché l’autonomia dipende dalla forza e forza, l’Italia non ne ha. Al massimo si può portare il grande e grosso amico americano al campetto per non farsi bullizzare da Macron in Libia e magari ottenere un po’ di protezione nei mercati finanziari quando in autunno ricomincerà a ballare lo spread. Poi tra i riequilibri della bilancia commerciale, contributi NATO ed il nuovo trattato di liberissimo scambio EU-USA, ben peggiore del Ttip, verso il quale si stanno opponendo i soli francesi, bisogna vedere quanto costerà il servizio di protezione.

Si tenga poi conto degli equilibri politici interni. La Libia serve al’ENI e soprattutto a Salvini per il problema dei migranti, se dovesse esser pagata con il nuovo Ttip, non so come il M5S potrebbe giustificarlo ai suoi elettori.

Intendiamoci, io sono un realista e quindi apprezzo ogni minima variazione della politica estera, ogni per quanto misero tentativo di usare nuovi amici contro vecchi nemici, subordinare alcuni interessi ad altri, quindi non scrivo per cavalcare opinioni critiche verso questo governo anche se, tantomeno, questa nota è elogiativa nei suoi confronti. Il problema non è il governo ma il popolo, la distanza tra i suoi bisogni, le sue aspettative ed i mezzi e la strategia per collimarli.

La nota è semplicemente rivolta a coloro che passano il tempo a sospirare sulla sovranità ed a disegnare libere opinioni qui o in articoli di geopolitica, nei quali la Sanbenedettese, dovrebbe comprare Ronaldo, farsi allenare da Guardiola e puntare al triplete senza se e senza ma, domani, anzi, ieri! Il problema è la forza, hai forza? non hai forza? quanta forza hai? su quante cose devi subire per salvare il tuo interesse su una o una e mezzo e come scegli quell’uno o uno e mezzo?

Soprattutto chi scrive e tenta il ragionamento, dovrebbe a mio avviso svolgere almeno la funzione di far ragionare, aiutare il ragionamento collettivo. Lasciamo la tattica contingente ai politici ed ai giornalisti, cerchiamo di riflettere per i prossimi 10-30 anni. Dove credibilmente possiamo andare per come siamo messi? Cosa altrimenti fare per non trovarci sempre a dover e poter scegliere solo se prenderlo nell’orifizio alto o quello basso, davanti o di dietro?

So che è meno divertente che tifare Putin o Vie della seta o Macron il liberale nazionalista o Trump l’anti-Clinton, ma se quelli che applicano il cervello alla politica estera passano il tempo solo a scrivere favole, non ci troveremo in una favola ma in un incubo.

CRONACA 721

29.07 FALSIFICAZIONI. Dal primo capitolo del nuovo libro su cui ho da poco cominciato a lavorare: “Quello che l’archeologia e la paleoantropologia ormai stabilizzata ci dicono è che l’agricoltura era nota e praticata in forma selvatica almeno quattromila anni prima dell’avvento di quella antropica. Questa seconda inizia come integratore della dieta e non cambia le forme plurali della sussistenza almeno per altri quattromila anni. Né la stanzialità origina dal modo di produzione agricolo, né èlite e le forme gerarchiche ne sono il portato, né la complessità delle immagini di mondo e probabilmente dei loro amministratori, né opere monumentali con coinvolgimenti di molti lavoratori specializzati ne sono condizionate (Gobekli tepe). Addirittura marcatori più significativi di distinzione sociale sembrano appartenere proprio alle società di cacciatori di decine di migliaia di anni fa (30.000 af ad esempio Sungir, Russia) mentre società già agricole sembrano rimanere fondamentalmente egalitarie e senza un centro rituale o politico per quello che dice l’urbanistica dei siti scavati a Çatalhöyük o nelle Valle dell’Indo, per migliaia di anni.”

[commento del post] “Rivoluzione neolitica” concetto introdotto dal marxista Vere Gordon Childe ed a lungo dominante la nostra visione dei tempi antichi, nonché ovviamente l’Engels di: “Origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato”, non sono attinenti a i fatti reali. La gerarchia sociale non origina dai modi di produzione, si limita a rifletterne le relazioni interne. Quanto interviene questo sulla solidità di concezioni della storia basate sull’osservazione del sistema capitalistico europeo del XIX secolo e prorogate poi ancora nel XX e universalizzate nello spazio e nel tempo, indebitamente? Se non è questo il motore del cambiamento sociale passivo, quale mai sarà quello del cambiamento sociale attivo ed intenzionale?

CRONACA 720

29.07 AUTO-NOMIA. Letteralmente “darsi la legge da sé”. Il processo di emancipazione umana dalla gerarchia che ordina qualsivoglia società sin dalla nascita delle cosiddette società complesse, orsono più di cinquemila anni fa, è la storia del fallimento storico della nostra capacità di darci la legge da noi. Ciò non dice che sia impossibile, dice solo che è stato fino ad oggi molto difficile. Per legge s’intende poi il sistema giuridico, ma prima l’ordinatore sociale, il cosa facciamo, quanto e chi fa cosa, come si distribuiscono potere, flussi, vantaggi e svantaggi sociali, rispetto a chi e cosa, quali i costi ed i profitti.

Siamo oggi, qui da noi in Italia, in uno degli ennesimi passaggi di consegne tra poteri. Il potere che ha fallito è quello che più in generale chiamiamo liberale. Con ciò s’intende una concezione cosmetica della democrazia, in realtà beauty contest delle oligarchie. Oligarchie varie tra loro solidali e connesse a sistema fatte da accumulatori di ricchezze per lo più di origine finanziaria e sempre meno specificatamente produttiva, che finanziano i loro politici e di loro intellettuali, contornate da trader e banchieri ed uno sciame di beneficiati delle briciole che cadono dal tavolo del banchetto detto “classe medio-superiore”. La classe medio-superiore non è sempre ben illuminata, in realtà è invece importante perché è quella che dà corpo, cioè i numeri (sempre minoritari ma di una consistenza certo maggiore di quella delle semplici élite) al gruppo dominante che è fatto di più classi.

Queste élite sono cadute nel periodico errore (in cui cadono storicamente tutte le élite) dell’over-stretching, hanno cioè esteso oltre il dovuto la validità di certi paradigmi: il globale sul locale, il finanziario sul produttivo, le libertà civili su quelle sociali. Ma soprattutto hanno fratturato la società oltre il sostenibile. E’ un fatto strutturale non d’opinione, le società possono esser dominate ma al contempo, debbono esser mantenute ad un regime di loro minima funzionalità organica. Le fotografie delle diseguaglianze, che siano definite economicamente, o socialmente, o culturalmente o in base alle condizioni di opportunità, la speranza che allarga il raggio di vigenza di un ordine sociale oltre la sua effettiva estensione dando l’impressione che “ok, va bene così, giochiamo questo gioco e speriamo di vincere la lotteria”, tutto ciò è andato fuori registro, non si tiene più assieme, è dis-organico, quindi dis-organizzato, l’equivalente del cancro per le società umane.

S’avanza quindi l’alternativa. Una alternativa tagliata sull’opposizione alla forma dominante. Ma l’opposizione simmetrica alla forma dominante è davvero una alternativa? Le forme, non dovrebbero rispondere alla necessità adattive della relazione tra società e contesto? Cosa guadagniamo in autonomia passando dall’Unione europea allo stato-nazione? Molto se B è parametrato ad A ma la forme politiche non esauriscono la comparazione nella reciproca opposizione, vanno comparate al contesto del XXI secolo, le società si debbono adattare al contesto, non solo competere tra loro. E cosa guadagniamo da amici di Obama, Merkel e Macron ad amici di Putin o Orban o Le Pen? Cambiando amicizie otteniamo più autonomia? Guadagniamo in autonomia opponendo ai gay pride, i crocefissi? Se sostituiamo i “venghino signori venghino” dell’open society con i punteruoli che bucano i canotti? Otteniamo più autonomia se invece di denunciare il lungo e vasto, scientifico processo di ignorantizzazione di massa e quindi spenderci per più cultura, formazione, informazione, pluralità e sperimentazione diffusa, ci avventuriamo lungo i crinali della democrazia censitaria o del voto ponderato o della democrazia elettronica o dell’estrazione a sorte? E che ne è del problema delle neoplasie sociali, cioè delle diseguaglianze? Qualcuno ha idee su come ridurre le diseguaglianze o stiamo giocando ad opporre ad una agenda sempre più scombinata, un’altra che sembra opposta ma rimane scombinata essa stessa visto che è modellata sulla scombinatezza dell’altra?

Auto-nomia. Mi sa che in effetti dell’autonomia non frega niente a nessuno. Quello che ci piace per rivendicare la nostra sovranità presunta è scegliere a quale servitù aderire volontariamente.

Autonomia: [sost. fem. sing.]: nella teoria dei sistemi un sistema è dotato di autonomia se le relazioni e interazioni che lo definiscono nel suo complesso sono determinate solamente dal sistema stesso.

CRONACA 719

GOVERNARE LA COMPLESSITA’ (1). Affrontiamo l’impegnativo tema con tre post in sequenza. Il primo, questo, parte dall’ultima fatica di Ian Bremmer, scienziato (?) politico, imprenditore, scrittore e giornalista, docente universitario, presidente di Eurasia Group, forse il maggior think tank globalista del mondo. Bremmer si distingue per capacità comunicativa inventando quelli che sembrano concetti, racchiusi in una definizione memorabile, incuriosente, sintetica.

Ad esempio la J Curve, una sorta di sbaffo alla Nike in cui nel lato minore ci sono società chiuse ma stabili, in basso società mezzo e mezzo massimamente instabili, sul braccio che si apre voluttuoso a salire e sale di più in stabilità rispetto alle società chiuse, le società aperte. Oppure il mondo G-zero ovvero il mondo in cui gli USA e l’Occidente non hanno più facoltà ordinative ma nessuno altro sembra in grado di sostituirle, da cui una certa confusione. A ciò consegue anche il concetto di Stato-Pivot, hub di relazioni di cui lo “stato x” è il centro così che tutti gli altri ne siano dipendenti. Ad un certo punto ha introdotto anche la “Weaponization of finance”, la grande finanza usata come arma nelle relazioni internazionali. Insomma se il mondo oggi è complesso, Bremmer ne è sicuramente uno dei più informati osservatori interessati, interessato anche perché vende i servizi di consulenza geopolitica e geoeconomico-finanziaria del suo Eurasia Group (New York, Londra, Tokyo, San Paolo, Singapore).

Bremmer ha rilasciato da poco l’edizione italiana per Egea (la versione editoriale della Bocconi) del suo “Noi contro Loro. Il fallimento del globalismo” (qui). Siamo nel filone del ripensamento globalista dei globalisti, una forma auto-coscienziale dei più intelligenti, laddove i più stupidi che sono di gran lunga di più sono immersi nella fase negazionista (il futuro sarà meraviglioso, non c’è nessun problema) seguiti dagli inconsapevoli quelli che proprio non sanno di cosa stanno parlando, purtroppo la massa critica.

Bremmer va giù di catastrofismo pare, “pare” perché il libro non l’ho letto anche se penso che mi toccherà leggerlo e vi dirò meglio. In breve, il mondo è sempre più tendenzialmente unificato ma composto di differenze, queste differenze invece di diventare varietà creativa, stanno diventando divisioni. “Noi” e “Loro” sono le partizioni dialettiche di altrettante contrapposizioni (una volta si sarebbe detto “di classe”, etniche, religiose, integrati vs precari, paesi dominanti-emersi-emergenti etc.), muri, insulti, incomprensioni, odi, frizioni e potenziali conflitti. Il tutto, immerso in un bagno di ansia che prelude a vere e proprie forme di paura conclamata, paura del futuro, dell’instabilità, dell’occlusione delle possibilità, dell’esclusione, dell’eccessivo stress. Dall’ansia alla paura ed a seguire la rabbia, la grande esplosione di rabbia è quello che ci dobbiamo aspettare.

La diagnosi finale pare disperata: la situazione è solo all’inizio e può solo peggiorare e peggiorerà. Infatti, all’orizzonte, si staglia minacciosa l’ondata di sostituzione del lavoro umano da parte del digitale e dell’automazione, la rottura -l’ennesima- del contratto sociale moderno (vendo il mio tempo, ottengo denaro, compro cose). Nel menù già tremebondo, pare manchino le note tragiche ambientaliste ma geopolitica, econo-finanza, sociologia, demografia ci sono tutte e già bastano.

Sarei curioso di sbirciare le ultime tre paginette quelle che di solito questi format dedicano alla prognosi, i buoni consigli che tanto non servono a niente e rimangono inascoltati. Cercando nelle recensioni non ne ho trovati menzione il che sarebbe curioso se fosse confermato, vorrebbe quasi dire che il dottore è davvero allarmato, figuriamoci i pazienti!

[Qui WSJ che non la prende bene: https://www.wsj.com/…/us-vs-them-review-the-haves-and-have-…]

CRONACA 718

20.07  IT’S THE POWER, STUPID! Sulla Terra siamo 7,5 miliardi e se vivessimo ancora come cacciatori e raccoglitori, il nostro fabbisogno energetico sarebbe di soli 100 watt ovvero circa 2000 calorie al giorno per persona. Ma mediamente, oggi, i 7,5 miliardi, consumano pro-capite 3000 watt giorno ovvero quello che avrebbero consumato 200 miliardi di cacciatori raccoglitori. In più, sembra che tutti vogliano migliorare le proprie condizioni di vita, personali e sistemiche, avendo grossomodo come modello, la vita media americana. Negli USA, ogni americano, consuma 100 volte il fabbisogno energetico di un cacciatore raccoglitore ovvero 11.000 watt che corrispondono al fabbisogno calorico del più grande animale del pianeta, la balenottera azzurra, quasi quattro volte la media mondiale.

Naturalmente, si potrebbe e si dovrebbe considerare l’alternativa delle energie rinnovabili per prender questa energia dello sviluppo e della crescita ma motivi di inerzia del sistema economico cosiddetto capitalistico intrecciato al sistema geopolitico, non permettono una presa di posizione politica forte in tale direzione. In pratica, stante che l’Europa non è un soggetto ma la somma raffazzonata di soggetti più piccoli e molto poco autonomi (autonomi in senso di piena sovranità politica delle scelte), la sola Cina avrebbe interesse in questo cambio di paradigma, al limite assieme all’India.

Il complesso USA – ARABIA SAUDITA – PETROMONARCHIE da una parte e RUSSIA – IRAN – VENEZUELA dall’altra con una corona di altri produttori che vanno dai brasiliani, ai norvegesi, a gli egiziani, a molti stati africani e le repubbliche centro-asiatiche, stanno tutti dalla parte del solido dominio delle energie fossili. Potenza politica ed interessi economici sia dei consumatori (aziende produttrici che non vogliono pagare incentivi alla trasformazione del paradigma), sia ovviamente dei potenti produttori, congiurano oggettivamente (cioè convergono anche senza fisicamente mettersi d’accordo) affinché l’energia di cui il mondo ha bisogno per vivere, riprodursi e crescere, rimanga quella di origine fossile.

Nel mio libro “Verso un mondo multipolare”, segnalavo che era del tutto evidente e financo esplicito che dietro l’eccentrico candidato Trump ci fosse l’industria petrolifera americana e quando una volta eletto Trump fece inaspettatamente Segretario di stato, Rex Tillerson ovvero l’ex CEO di ExxonMobil, la pistola fumò per chi aveva occhi per vedere. Poiché nel sistema “cane non mangia cane” o meglio non ci si mangia apertamente l’un l’altro davanti a gli occhi dell’opinione pubblica (sia mai che capisca come funzionano i giochi veri), nessuno segnalò il fatto, ma il fatto era lampante. Per quale altra ragione secondo voi un presidente andava a prendere un petroliere e non un diplomatico, un politico di lungo corso, un geopolitico o stratega delle relazioni internazionali, un funzionario del Dipartimento di stato? Proprio quel Tillerson che aveva comandato una joint venture russo-americana per l’estrazione di gas e petrolio nella penisola di Sakhalin, già firmatario di accordi Exxon-Putin e da sempre ed a nome della categoria, contrario alle sanzioni alla Russia?

La lotta interna a gli Stati Uniti (qui) non è solo quella tra Trump ed i liberali associati ai neocon, tra la tradizione nazionalista con disimpegno dai compiti imperiali ed i globalisti interventisti, è soprattutto quella tra l’economia delle cose e quella finanziaria, è quella tra coloro che prosperano sul capitale e basta e quelli che prosperano sul capitale che proviene e continuerà a provenire nella misura in cui gli Stati Uniti controllano direttamente o indirettamente l’energia che fa vivere e crescere il mondo, oggi e nei prossimi trenta anni ancora. It’s the power, stupid!

[Le cifre del primo paragrafo sono prese da “E’ tutta energia stupido!” nel quinto capitolo del libro di G. West, Scale, Mondadori, 2018]

CRONACA 717

20.07 IL LIBERALE TOTALITARIO: Ho finalmente capito quale perturbazione mentale hanno i liberali degli ultimi tempi, silenziano i neuroni specchio. i neuroni specchio sono quelle strutture cerebrali che si sono evolute per farci entrare in empatia con l’altro. Per questo andiamo al cinema e piangiamo per storie (inventate) di gente (che non conosciamo e probabilmente neanche esiste).

Qui VICE su piattaforma HBO, intervista i poveri Cohen e Mearsheimer, gli ultimi due eroici rappresentanti in America dell’impostazione a lungo tempo dominante nelle Relazioni Internazionali americane e mondiali: il realismo. Il realismo ha tradizione in Tucidide, Machiavelli, Hobbes, Napoleone, Lenin, Kissinger e molti altri, praticamente non c’è stato alcun altro standard nel campo che non fosse attenersi onestamente alla realtà. Poi ognuno, su quella realtà si faceva il suo disegno. Ma negli anni ’80, poi nei ’90 ecco spuntare fuori i liberali per i quali la realtà non è uno scenario comune nel quale competere o configgere col nemico, la realtà è la loro visione del mondo, mondo e visione del mondo diventano la stessa cosa.

Ad un certo punto, il giovane intervistatore s’indigna per il fatto per lui incredibile che alcuni paesi limitrofi alla Russia non possano chiedere di entrare nella NATO. E’ incredibile, ma perché “non possono”, dove nasce questa limitazione della libertà? Nella reciprocità nasce e la reciprocità è riconosciuta in tutto il mondo come l’unica norma etica universale, essendo regola aurea di ogni relazione umana.

Se il Messico fa un accordo militare con la Cina, questo è considerata (giustamente) un presupposto di aggressione dagli USA. Nel 1962, con analoga questione relativamente alla crisi dei missili di Cuba, si sfiorò la terza guerra mondiale. Un presidente americano rese noto al mondo nel 1823 che chiunque avesse avuto intenzione di venir a far casino non negli Stati Uniti ma nel continente americano, era come se attaccasse gli Stati Uniti stessi. E’ una delle più famose dottrine delle Relazioni Internazionali, la Dottrina Monroe.

I liberali non si mettono nei panni altrui, esistono solo loro e la loro libertà insindacabile, illimitabile, indiscutibile. Dato che non riconoscono l’altro, la sua specificità e punto di vista, sono esattamente il prototipo del loro presunto nemico concettuale: il totalitario. Il liberale ultima serie è un totalitario che ce l’ha fatta, ma non per molto ancora, spero. In genere, quando ti metti contro un dispositivo che è stato premiato dall’evoluzione, ti metti contro la vita e lì son cartacce.

CRONACA 716

20.07 SOLO NIXON POTEVA ANDARE IN CINA? Spock cita la frase senza punto interrogativo in Star Trek VI, come “vecchio proverbio vulcaniano” rivolgendosi a capitan Kirk per incentivarlo a promuovere un viaggio del cancelliere della Terra presso i Klingon, per avviare relazioni diplomatiche stabili ed in prospettiva, negoziati di pace.

L’espressione, che in America fa parte della cultura popolare, venne coniata dal leader dei democratici del Congresso, in una intervista, prima dell’inaspettato viaggio in Cina di Nixon del 1972. H. Kissinger, dicono carte oggi desecretate, pare cominciò a lavorare su segreti contatti con corrispondenti cinesi, già nel 1969, appena eletto consigliere alla sicurezza. Ci furono una serie di viaggi segreti, scappatelle al riparo degli occhi indiscreti del suo seguito durante dei viaggi ufficiali in Pakistan.

Seguì, a sorpresa, il contro segnale di Mao Zedong che colse al volo una storiella di primo contatto umano tra giocatori di ping pong cinesi ed americani nell’autobus che li trasportava per le rispettive partite ai mondiali che si tenevano in Giappone, invitando la squadra americana. Erano i primi americani, dopo le pantere nere, a metter piede in Cina dopo 22 anni di gelo assoluto. Seguì l’inaspettato viaggio di Nixon.

Appena atterrato a Pechino, Mao -pur malato- lo convocò per un breve incontro di un’ora. Nixon si fece accompagnare dal consigliere per la sicurezza (Kissinger) ma non dal Segretario di Stato a cui venne ordinato di rimanere in albergo. Ne seguì la normalizzazione della questione di Taiwan, il riconoscimento del primato militare navale degli americani nel Pacifico in chiave anti-sovietica, l’apertura di canali commerciali. Più in generale, l’evento è riportato negli annali della politica estera come capolavoro assoluto di diplomazia e strategia, incunearsi nelle storica diffidenza sino-russa che erano pur sempre gli unici due grandi paesi del mondo in cui vigeva il comunismo. Tutta la stampa americana seguì l’evento con stupefatto entusiasmo, i sondaggi d’opinione dettero un incredibile 56% di indice di approvazione ad un presidente per altro molto poco amato. L’anno dopo, Henry Kissinger ricevette il Nobel per la Pace.

A fatica ho trovato questa immagine ironica che sembra far paio con altre che oggi imperversano a commento e sbeffeggio della “new special relation” tra Trump e Putin, ma si tratta evidentemente di una ironia innocua e senza malizia.

Nixon non era Trump, gli anni ’70 del Novecento non erano i nostri tempi, Kissinger oggi ha più di novanta anni. Ma da Mackinder a Spykman, da Brzezinski a Kissinger, ogni geopolitico anglosassone o americano e non sa che l’asse sino-russo non deve saldarsi, altrimenti l’Europa segue in conseguenza e formatosi il blocco continentale del cuore della Terra, gli anglosassoni diventano periferia.

Ma la vera differenza tra i tempi di Nixon ed oggi è proprio che la politica estera americana non è fatta più dai presidenti coadiuvati degli strateghi geopolitici ma da un coacervo pulsionale di interessi egoisti di piccole parti tra loro saldate nel famoso “stato profondo” americano. Coacervo a sua volta centro di una sistema occidentale che giunge fino in Europa. Ogni forma di sistema di fenomeni del mondo ha la sua disciplina ed ogni disciplina ha la sua intelligenza, quella geopolitica è fortemente condizionata dalla geografia che com’è noto, non cambia nel tempo, per cui alcuni assunti generali come quello che va dai primi del ‘900 al suo ultimo rappresentante in vita per quanto assai vicino a morire, rimangono costanti. Von Clausewitz, pur essendo un militare, ammonì che la guerra altro non era che una appendice della politica, la guerra e più in generale il fatto militare, era strumento troppo delicato e complesso per esser lasciato nelle mani dei generali o delle banche d’affari o dei fondi d’investimento o dei giornalisti.

Ma noi non viviamo un’epoca intelligente, viviamo l’epoca in cui l’acqua dello stagno evapora ed ogni pesce cerca di ammazzare pubblicamente l’altro per accaparrarsi la sua quota di ossigeno. Oggi la geopolitica la fa il New York Times, l’economia la fa Wall Street, la cultura la fa 60 minutes e la torma di replicanti acefali che rilancia le vignette ironiche su Putin e Trump sul web. La storia, quindi, la fanno le varie mani invisibili che si strattonano le une con le altre mentre noi applaudiamo senza capire alcunché del gioco che davvero si sta giocando e del quale noi siamo la posta in gioco.

CRONACA 715

18.07  IL PROCESSO DEL LUNEDI’. Storica trasmissione televisiva eponima del calcio parlato rispetto a quello giocato. Così abbiamo avuto una partita a porte chiuse e che nessuno ha visto che si è tenuta ad Helsinki tra Trump e Putin ovvero le due squadre che rappresentano (Putin la Russia, Trump solo una parte degli Stati Uniti d’America) e l’indomani una pioggia di commenti, a gamma ampia tra l’entusiasmo, il contenuto, il deluso, l’arrabbiato, ma di cosa? Ovviamente il commento deriva dall’immagine di mondo del commentatore, il suo schieramento nella battaglia degli ordini interpretativi, il suo metodo d’analisi.

Quello che stupisce o forse non stupisce più, è che in sé il fatto diceva una semplice ed unica cosa: noi possiamo anche parlarci. Cito spesso Kissinger quando parlo di Trump perché non ci sono solo piste investigative del chi ha visto chi parlando di cosa, basta prendere quello che ha detto o diceva Kissinger, metterci accanto il comportamento di Trump e derivarne parallelismi o meno, io ne traggo spesso addirittura coincidenze. Kissinger perora da tempo (da molto tempo prima di Trump) un “ritorno della diplomazia”, ci ha scritto sopra anche libri per celebrarne il ruolo. La diplomazia è solo una condizione di possibilità, non dice chi cede cosa a chi, quando e perché, è solo strumento e stile di relazione internazionale.

In USA, il Deep State è talmente terrorizzato che la politica estera la faccia il presidente di turno (non importa quale), che ha spinto, spinge e continuerà a spingere affinché non ci sia alcuna trattativa, solo rapporti di forza. I rapporti di forza possono esser ben gestiti e sono pure convenienti in termini di potere e soldi per la struttura profonda, la diplomazia certo che no, non vanno mica quelli del Deep State a gli incontri. Non hanno mica potere di decidere alcunché, poi magari si ritrovano con qualche vantaggio economico che a loro non riguarda pagato con qualche concessione militare che invece loro riguarda e che fai?

Tra le cose ridicole che si possono leggere oggi un po’ qui ed un po’ là, c’è anche la sorpresa per il fatto che non si è saputo nulla della lunga lista di dossier connessi alle relazioni russo-americane: NATO, Baltico, Ucraina, Siria, Iran, vie della seta, gasdotti, politiche dell’energia, arsenale atomico, sanzioni etc.. Non so, cosa s’immaginavano che i due si incontrassero e dopo due orette avessero risolto l’universo mondo dei problemi?

Mah, certo che se fosse esistito il circo mediatico a Vestfalia (il racconto che fa Kissinger della lunga trattativa del tempo con corrieri a cavallo che ci mettevano giorni a collegare ambasciatori e cancellerie e quando tornavano a base la trattativa era tutta cambiata nei termini, è gustosissimo), era probabile che il vociare dei commentatori avrebbe pure fatto fallire i vari vertici, creando scompiglio nelle rispettive pubbliche opinioni e da lì nell’intera storia.

Come altresì avevamo annunciato, il comunicato finale era redatto e convenuto da giorni e dice solo una cosa: noi possiamo parlarci e ci parleremo. Tutto il resto è processo del lunedì.

CRONACA 714

17.07  PITE NATUFIANE. [QUI] Pita: uso del frumento ma anche altre farinacei e non, per fare pani bassi e non lievitati come si mangia in larga parte del Mediterraneo, a partire dalla Grecia.

Natufiani: tra 12.500 e 14.400 a.C. Ergo, cacciatori, raccoglitori e paninari, mica male come varietà di dieta. Usavano granoturco selvatico, lo curavano, questa è la prima forma, l’agricoltura antropizzata viene dopo. Molte analisi degli scheletri lungo il periodo che va da lì a 4000 e passa anni dopo quanto si introdusse l’agricoltura intenzionale, rivela un tracollo della varietà alimentare e conseguente abbassamento dell’altezza e fragilizzazione delle ossa. Non fu affatto una causa, fu una conseguenza.

E’ giorno particolarmente felice per chi, come me, pur non essendo -di questo come in nessuna altro- “-del ramo”, ha già scritto di questo da anni. I natufiani che si fanno pita e capretto, magari un po’ di cipolla, cetrioli e chissà cos’altro dei ricchi orti che avevano, quattordicimila anni fa (7 volte la storia “dopo Cristo” ma prima) mi riempiono di gioia immensa. Siamo sempre più antichi di quanto credessimo. Penso sia una golden rule, fin’ora ho ricevuto solo conferme.

Il problema era la demografia non l’innovazione del modo di produzione. Engels, che certo al suo tempo non poteva contare sul repertorio di scoperta con criteri scientifici che abbiamo oggi, la interpretò come la conferma della natura rivoluzionaria inconsapevole dei cambiamenti dei modi di produzione in seguito a “scoperte”. In effetti era quello il sistema ai tempi di Engels e reggeva ancora quando lo rilanciò Gordon Childe che lo immortalò nel concetto di “rivoluzione agricola”. Non ci fu alcuna invenzione ma solo il triste adattamento a quella, che la crescita della popolazione precedentemente e da altro causata, aveva fatto diventare un gruppo che per sostenersi di caccia e raccolta doveva proporzionatamente allargare il raggio del proprio territorio. Lì nasce la geopolitica ed, ahinoi, l’economia, lo scambio, la gerarchia, la politica e la cultura pubblica. I numeri contano.

CRONACA 713

17.07 L’ORDINE NUOVO. In geopolitica, l’ordine è la geometria delle relazioni, chi sta con chi in favore di cosa e contro cosa, quindi chi.

Dopo il summit di Helsinki ed il tour a tre tappe di Trump, il mainstream celebra non senza preoccupazione la fine dell’ordine post bellico, la fine di una fase di settanta anni. Il solo fatto sia durato settanta anni è di per sé eccezionale ed il fatto abbia resistito negli ultimi trenta, assai sintomatico. Sintomatico del fatto che i vincitori, gli Stati Uniti, abbiano a lungo recalcitrato a prender atto che quell’ordine rispondeva a tempi che non solo non erano più, ma andavano ad esser rimpiazzati da altri del tutto diversi.

Questo ordine si basava sulla preminenza del sistema occidentale, ordinato dagli Stati Uniti, contro prima l’URSS e poi la Russia perché l’ideologia c’entrava in parte e dopo il dissolvimento dei principi e delle idee (sistema sovietico e comunista) rimaneva pur sempre la geografia (sistema russo). L’assetto, prevedeva altresì l’amicizia tra Occidente ed Asia, non solo Giappone cooptato come la Germania già nel ’45, ma anche la Corea del Sud per la quale si fece comunque una guerra, le Filippine per le quali s’era fatta una guerra ai primi del Novecento, l’Indonesia di cui si condizionò a lungo la politica interna coi soliti metodi dell’ingerenza organizzata. Tralasciamo altri quadranti come il centro Asia, Medio Oriente ed Africa per ragioni di sintesi. Questo era l’ordine bipolare imperfetto.

Questo ordine crolla per molti versi spontaneamente trenta anni fa, per collasso del perno negativo, quello contro il quale, qualcuno in favore del quale, si erano tutti organizzati, l’Unione sovietica e con lei il perno ideologico che incarnava: l’anti-capitalismo. Il modo economico capitalista diventava allora un universale, sebbene con ruolo diverso paese per paese. Ordinatore primo per l’Occidente e gli USA, modo economico più o meno subalterno al politico per Russia e Cina ed a seguire con variazioni, per altri. In America, fanno fatica a capire che liberalismo economico e politico sono due cose distinte e si può avere moderatamente il primo senza avere per niente il secondo, per loro i due sono un sistema binario, gravitano naturalmente l’uno sull’altro, così è per loro e travisando il relativo con l’assoluto, così pensano sia in natura e quindi per tutti.

Nel 2001, gli USA e l’Occidente scoprono l’islam e incautamente incorporano la Cina nel WTO. Troppo complicata la faccenda islamica per trattarla qui. La cooptazione della Cina, invece, va spiegata non certo come una decisione geopolitica ma economica. Essendo ordinati dal principio economico, gli USA non s’avvedono del fatto che stavano portandosi in casa l’elefante, del resto gli economisti sono più idraulici che ingegneri, più bottegai che strateghi mentre imprenditori e rentier sono automi unidirezionati a far profitto, non importa come, con chi, a quale prezzo. Altresì, convinti di far simmenthal dei russi, incappano nella resistenza dell’apparato che imploso come una stella a neutroni, si compatta comunque intorno la propria geostoria: la russità.

Gli USA vanno d’inerzia spinti dalle forze dominanti i loro ultimi decenni di storia, ma a ben vedere anche i decenni -se non secoli- precedenti: conato semi-imperiale allacciato al liberalismo politico ed economico. Non s’avvedono però che il mondo è cambiato e che per paradosso, loro stessi l’hanno aiutato a cambiare.

Saltiamo all’oggi. Trump è il curatore fallimentare di questa non strategia, incarna in qualche “strano” modo la presa di coscienza che il mondo è prima politico, poi economico. Ridefinisce il nemico che diventa la Cina, nemico commerciale più che militare. Prova e proverà a ridefinire le alleanze che a questo punto invertono nel ruolo di alleato tattico la Cina di Nixon con la Russia di Putin, allentano i legami di solidarietà occidentale in quanto gli amici costano e sul piano economico più che amici diventano nemici e sottopone il suo Paese da un dura riformattazione economica, quindi sociale e politica al contempo.
La faccenda meriterebbe un articolo, spazio che qui non abbiamo.

Concludiamo con la fotografia attuale, un quadro che non ha più l’ordine conosciuto e si mette in cerca del nuovo. L’UE dopo il Canada, sta per firmare un nuovo trattato libero scambista col Giappone, mentre si è rimessa al tavolo per discutere di norme di scambio con la Cina, ripromettendosi addirittura di riscrivere le regole del WTO assieme. Degli asiatici che vanno verso una loro area sistemica detta RCEP abbiamo detto i giorni scorsi e così dei “pacifici” con il CP-TPP. Anche gli africani stanno provando a mettere in piedi una loro area interna e così Etiopia ed Eritrea trovano pure la forza di far pace dopo tanto sangue versato. I britannici travagliano tra hard e soft brexit ma brexit comunque sarà alla fine e da quel punto in poi (marzo anno prossimo), vedremo un nuovo attore assai birichino com’è loro tradizione. La Russia è oggi tutta sbilanciata verso Est ma è da vedere cosa succederà nei prossimi tempi quando Trump farà offerte per riportarla un po’ più verso Ovest o almeno in posizione terza. Certo è piena di gas e di terra, corteggiata di qui e di là, male non sta. Capitolo USA troppo complicato per scriverne qui, dipende molto anche dalle elezioni del prossimo novembre Per il momento l’America first, si sta tramutando nella solitudine dei numeri primi, ma è presto per dire come finirà.

Una cosa sembra certa, il secondo principio della termodinamica: una volta uscito dal tubetto, il dentifricio non può esser rimesso dentro se non utilizzando una sproporzionata quantità di energia che oggi nessuno ha. Ad ogni ordine finito, subentra un ordine nuovo e sul tipo di questo nuovo ordine abbiamo una sola certezza: sarà complesso.

CRONACA 712

16.07 DILEMMI CHE PORTANO DAL SONNELLINO AL COMA. Eugeny Morozov (qui) sferza le leadership europee dedite a “sonnellini pomeridiani lubrificati” (forse si riferisce a i portatori di sciatica?), domandandosi quale siano in prospettiva le chances europee nel campo delle nuove tecnologie. Tra USA e Cina, l’Europa è semplicemente tra i non pervenuti quanto ad investimenti significativi di ricerca e venture capitalism, su i nuovi settori avanzati. A tale proposito, si consideri un fatto. Noi parliamo di Europa, ma Europa è un aggregato statistico. Gli investimenti e le start up sono e rimangono nazionali poiché i brevetti sono nazionali o se hanno valenza int’le sono comunque sfruttati da questa o quella azienda nazionale. Immaginiamo un fondo italo-franco-tedesco che investe e produce un brevetto. E se lo sfruttamento di quel brevetto interessa o finanziariamente è possibile solo per i tedeschi cosa diranno francesi ed italiani che hanno finanziato un successo estero? Come la si gira torniamo sempre a bomba. O si fa uno Stato o si fa un mercato ma il mercato non ha né l’intelligenza, né la potenza di fuoco, né la definizione giuridica di uno Stato. Ma uno Stato europeo non si può fare. Tanto meno si può ipotizzare di esser competitivi contro USA e CIna partendo dalla dimensione nazionale. Quindi?

CRONACA 711

14.07  GEOMETRIE DI POTERE. Di sotto, l’immagine comparata del modello a rete (1) e quello “hub & spoke” (2). Quest’ultimo nasce in aeronautica civile moderna e stabilisce il “mozzo” come centrale di gran parte delle rotte di una area ed al contempo, base e sede dei servizi della compagnia aerea dominante.

In geopolitica, il modello “hub and spoke” (mozzo e raggi) è da lungo tempo bandiera di H. Kissinger ed è il non citato presupposto della strategia a cui si riferisce Trump. Ne consegue l’allergia per ogni formazione reticolare (o multilaterale) che non solo va rifiutata ma va proprio combattuta in quanto occorre creare il presupposto di quella dispersione per la quale gli USA ovvero l’HUB si pone al centro di relazioni variabili, ovvero i vari SPOKE, in cui ovviamente il soggetto più potente regola la relazione a piacimento, mette in competizione i vari soggetti subalterni, muove l’intera dinamica in maniera flessibile a suoi insindacabili fini.

La Cina, altresì, sta invece andando verso il primo modello, quello a rete. Che sia AIIB, SCO, RCEP, BeltRoadInitiative BRI, la Cina s’inscrive dentro reti.

C’è una preminenza astratta dell’un modello teorico sull’altro? No. E’ che gli USA sono il 4,5% della popolazione mondiale che fa ancora il 25% del Pil mondiale e quindi deve mantenere molto alta la sproporzione tra la relazioni che in via teorica dovrebbero esser orizzontali e reciproche. I costi delle reti multilateriali, (o meglio, alti costi per bassi rendimenti) sono oggi insostenibili nel nuovo ambiente competitivo, in più -caso Germania- rischiano di diventare incubatori di nuovi sfidanti o meglio, agenti del nuovo ordine a più poli.

La Cina, invece, col 17,5% della popolazione mondiale, fa ancora solo il 15% del Pil mondiale, ed ha tutto l’interesse a relazioni di condivisione. Ma la vera differenza è nel contesto. Gli USA sono molto sproporzionati sia considerati nel loro ambiente geografico naturale, sia ambientati nel sistema occidentale, sia ambientati in quello mondiale. I cinesi non solo sono e saranno ancora a lungo proporzionati, ma sono iscritti di natura in un ambiente geo-storico, l’Asia, nel quale c’è pluralità naturale, relativa distanza tra i più potenti ed i meno, percorsi più o meno sincronici di crescita di economia tradizionale (produzione e scambio).

La strategia USA come va valutata? Non la strategia ma la posizione USA ha due problemi strutturali irrisolvibili, non sempre nelle congiunture storiche i problemi sono risolvibili, ci sono presupposti insostenibili a volte (vedi Impero romano). I due presupposti insostenibili sono collegati e sono: 1) mantenere quella scandalosa sproporzione (di cui si noti poi la insostenibile distribuzione interna. Gli USA non solo sono scandalosamente ricchi e potenti ma altresì scandalosamente ineguali nella distribuzione interna di quella potenza e di quella ricchezza) tra la sua dimensione demografica e la sua dimensione economica e di potere generale sul resto del mondo; 2) solo i francobolli geopolitici baratterebbero autonomia con rendimenti residuali dati dalla posizione protetta dal gigante di cui si è satelliti. Nessuna tra le medie potenze nel mondo accetterebbe il modello “hub and spoke” quando ha la possibilità di partecipare ad un gioco collettivo reticolare che offre maggiori opportunità e minori vincoli.

Quindi gli Stati Uniti sono destinati a perdere potenza. In quale quantità, in quanto tempo, dipenderà dallo svolgimento del gioco. La Cina farà di tutto affinché gli USA perdano poco alla volta e per un tempo lungo, adattandosi goccia a goccia al suo -inevitabile- sgocciolamento di potenza. Se invece di uno sgocciolamento ci fosse un crollo della diga, potrebbe scoppiare una guerra.

Sarebbe anche interessante far considerazioni su un aspetto del “potere” che poco tempo fa era ritenuto, nelle mentalità liberali, assai importante, il soft power, versione americana dell’egemonia gramsciana. Si noti l’antipatia generale, diffusa e sempre più irritata che promanano le entità occidentali. Da gli USA/Trump, alla Germania ed alla Francia in ambito europeo. La Cina non sta affatto simpatica a nessuno e neanche sembra preoccuparsene più di tanto. Alla Cina basta offrire opportunità commerciali e di investimento, l’interesse concreto e pur limitatamente la fiducia reciproca, fanno miracoli. Sun Tzu invitava a valutare come prima variabile il contesto del conflitto, il contesto attuale è per lo più in favore dei cinesi.

Naturalmente, questo è la fotografia attuale. Quando tra trenta anni la Cina sarà super-massiva, la geometria potrebbe invertire le posizioni e le strategie. Ne riparleremo in seguito.

CRONACA 710

13.07 IL SOVRANISTA AD UNA DIMENSIONE: IL CASO “NATO”. La NATO nasce improvvisamente (dai francesi in giù nessuno ne sapeva niente a parte i britannici ed ovviamente gli americani) nel 1949. Solo nel 1955, i sovietici si decidono ad opporgli il Patto di Varsavia. Poi l’URSS collassa tra l’89 ed il ’91 e la NATO si espande ad est, cooptando i Paesi prima di area russa. Oggi colleziona 29 membri di cui 26 europei, due americani (USA e Canada) e -per il momento- i turchi. Quale interesse militare hanno in comune questi associati a quasi settanta anni dalla fondazione del patto? In effetti nessuno. A cosa serve l’imponente macchina con sede a Bruxelles se USA e Russia sono allacciate e rispettivamente bloccate dalla dottrina della Mutual Assured Distruction nucleare dagli anni’60? A nulla, se non a spendere soldi inutilmente.

Torna in ballo la più basica delle regole geopolitiche: la geografia. Davvero il Portogallo, la Spagna, la Francia e l’Italia debbono temere una invasione russa che non siano i suoi turisti? O la Grecia che è ortodossa come lo è la chiesa russa schierata a supporto di Putin? O forse questi Paesi farebbero meglio a farsi una forza navale per presidiare il loro mare (in cui si stanno scoprendo giacimenti di gas sempre più grandi) lanciandoci sopra la più naturale delle dottrine Monroe? O non converrebbe a questi euro-mediterranei ed a gli europei del nord, una bella iniziativa comune di cyber attacco più sterilizzazione finanziaria e contro spionaggio anti islamisti in vena di jihad? Ed anche infiltrarsi nel profondo del continente africano ad intercettare le reti di sostegno alle migrazioni forzate verso di noi che tanta confusione ci stanno creando? E non ci converrebbe davvero evitare di finanziare il già pingue complesso militare industriale statunitense e magari finanziarne uno nostro che si fa anche occupazione e si sviluppa magari anche un po’ di tecno-scienza dai positivi fall-out commerciali?

Ventotto paesi NATO contribuiscono esattamente per il 28% del suo budget complessivo, gli USA da soli per il 72%, dislocando qui armi, arsenali nucleari, aerei, navi e soldati che costituiscono il necessario esito della loro ipertrofia militare imperiale. Praticamente paghiamo una tassa imperiale senza averne alcun tornaconto visto che è sì un impero, ma informale. E i sovranisti dell’ultima ora non hanno nulla da dire a riguardo? Vale solo l’euro come impedimento all’esercizio del pieno potere politico territoriale? Un veloce ripassino di storia per rammentarsi che la sovranità nasce con l’imposizione di tasse per finanziare la forza armata che difende i confini del sistema, no?

Mi sa che noi la sovranità non siamo proprio in grado di pensarla. Carcerati nelle divisioni disciplinari, vediamo sempre e solo una dimensione per volta. Chissà, magari è proprio quello che vogliono gli americani, farci scappare dalla gabbia dell’euro per correre come topini nella gabbia del loro grande abbraccio. Felici magari di aver ritrovato la lira per poi convertirla in dollari per pagargli lo shale al +20% rispetto la gas russo, visto che avendoci protetto nella difficile guerra di indipendenza delle valute, certo dobbiamo restituire il favore diventando loro clientes. E che bello sarà poi vedere i loro F35 decollare dalle nostre terre per andare a bombardare l’Iran con cui invece potremmo fare affari e così ritrovarci il costo dell’energia raddoppiato visto che ci sarà uno shock nel mercato energetico, no? O magari a quel punto comprare il petrolio dai sauditi che sono poi proprio coloro che finanziano jihadisti e buona parte delle reti occulte di migrazione dall’Africa in cui stanno combattendo la loro lotta per l’espansione egemonica finanziando le guerre locali?

La prima sovranità è quella mentale dalla quale siamo per lo più, quasi tutti, drammaticamente lontani. Tra Merkel-Macron ed Orban-Salvini forse di dovremmo dare un terzo. Forse in tema di piani B sarebbe il caso di lasciar perdere il professor Savona e dare un occhio a quello di Mélenchon.

La sovranità si applica a cose che hanno più dimensioni, anche se nella nostra testa ce ne entra solo una alla volta.

CRONACA 709

12.07  LIBERALI AL TRAMONTO. Timothy Garton Ash, può annoverarsi nel gotha del pensiero liberale contemporaneo. Storico e giornalista, atlantista, globalista, europeista, cosmopolita, difensore di Soros, ovviamente anti-brexiters, Putin, Trump etc. Insomma è un tipo paradigmatico. Esce oggi su Rep: a pagamento un suo articolo che in realtà traduce questo del the Guardian (qui) che ha il vantaggio di esser gratis e facilmente reversibile in italica lingua con Google traduttore.

Lascerei perdere la sua impostazione in vista delle prossime elezioni europee di un fronte Merkel-Macron (Merkron) vs Orban-Salvini (Orbvini) ed analisi correlata. Trovo più interessante un altro aspetto. Repubblica, sintetizza il pezzo col titolo “L’Europa liberale da salvare” e l’occhiello che recita:
“I governi diano risposte a ineguaglianze insicurezza e bisogno di identità”.

La tesi è che il liberalismo ha vinto ma ora paga il prezzo delle sue vittorie, liberalizzazioni, europeizzazione e globalizzazione non sono pasti gratis ed ora si va all’incasso dei dividendi negativi. Sono un po’ le tesi del nostrano Calenda, non sono tutte rose e fiori, tocca gestire il genio della lampada prima che faccia altri guai. Secondo TGA, il problema migratorio in effetti non è tale ma ammette che sintomatologicamente, intacca problemi di identità nazionale che non si superano facilmente come nota guardando il fenomeno del tifo del campionato mondiale. Non si può certo affidarsi ad identità deboli di tipo transnazionale o sovranazionale, tocca rispolverare un forte senso di patriottismo civico (?). Peggio ancora il problema della sicurezza del lavoro visto ciò che già sappiamo della rutilante rivoluzione informatico digitale mangia-occupazione e quindi reddito, che vien dopo il tifone globalista. E questo poi a somma del’attuale conclamata irrefrenabile diseguaglianza che ormai è tema sdoganato perfino alle preoccupate assise del World Economic Forum e dei report FMI. Insomma, per questo figlio dell’élite britannica, si rischia “la strana morte dell’Inghilterra liberale di inizi ‘900” dopo il dominio post Rivoluzione industriale, anche lì i liberali vennero spazzati via dalla storia senza neanche un gemito di rimpianto.

Noterei due cose a commento. La prima è che la lista dei problemi non accenna se non in maniera molto liberale quindi leggera ed impalpabile, alle possibili soluzioni. A mio avviso, rimanendo in una mentalità liberale, quell’elenco di problemi pur onestamente esposti, è irrisolvibile. La seconda è il gioco in difesa. Non siamo nell’arena italica in cui prevale la criminalizzazione dell’avversario, il suo dileggio e pubblico ludibrio, nonché negazione assoluta dei suoi temi. I temi si comprendono, naturalmente per Ash le soluzioni populiste, nazionaliste ed insopportabilmente irrazionali non vanno bene, ma secondo Ash grave sarebbe per i liberali sottostimare i problemi dai quali nascono.

Così, nonostante l’insopportabile arroganza dei liberali nostrani che in effetti non avendo tradizione nazionale sono abbastanza patetici come tutti coloro che non nascono dentro un tronco culturale ricco e variegato ma ne prendono solo il fenomeno esteriore facendolo diventare cialtronaggine, è da notare questo clima da “qui butta male” ammesso da uno dei più illustri pasdaran dell’ideologia che ha dominato i nostri ultimi decenni. Schadenfreude? Non solo …

CRONACA 708

GEO-ECONOMIA PERCHE’ L’OMOGENEITA’ CONTA. Continua il processo di regionalizzazione rinforzata che seguirà la globalizzazione ingenua di prima fase. Siamo al nuovo meeting del Partenariato Economico Globale Regionale (RCEP) di cui alla cartina, che si è da poco tenuto a Tokyo. Siamo con metà della popolazione mondiale, un terzo di Pil mondiale (RCEP 31%, EU 21%), 16 paesi per altro già allacciati in altri accordi regionali, alcuni nel nuovo CP-TPP (ex TPP voluto da Obama da cui si è poi sfilato Trump), o nell’ ASEAN nei vari formati Plus Three, Plus Six. Insomma, in pratica il gigante cinese, indiano e giapponese con i vivaci satelliti coreano, vietnamita, indonesiano e l’inedita partecipazione degli anglosassoni australiani e neo zelandesi in attesa Londra termini le procedure di Brexit e si presenti per il ruolo banco-finanziario assieme a Singapore. Intanto, i russi guardano interessati per portargli energia. E’ l’area di indubbio maggior successo economico e prospettiva futura. Stanno trattando a tappe forzate per addivenire entro fine anno ad un accordo ampio, rinforzato e pienamente operativo. E’ lì il motore del mondo nuovo, un mondo “pacifico”?

CRONACA 707

11.07 TRUMP ON TOUR. Inizia il fantastico trittico del tour europeo di Donald Trump, NATO, UK, Putin. Commenteremo a seguire stante che su Putin non si saprà nulla della sostanza (colloqui privati, pare senza traduttore americano e quindi affidandosi a quello russo e pare pre-concordato comunicato pubblico che i due hanno già stabilito scambiandosi versioni diverse già i giorni scorsi), l’UK è in travaglio da Brexit soft-hard (eppure già si ventila un accordo di libero scambio a due) e la questione NATO che sappiamo già su cosa verterà e quindi aspettiamo più che altro di valutare la parte folkloristica dei tweet, delle faccette e dei toni di voce con cui verranno accompagnate le dichiarazioni tonanti. Tutto ciò salvo sorprese che il nostro è uso non far mancare mai per ribadire il suo punto di forza che oltre al possedere vari tipi di forze, si basa sull’imprevedibilità del come le userà.

Detto ciò, sarà bene ricordare alcune cose.

Trump sa che gli USA rimangono il soggetto geopolitico più forte, ma sa che più il tempo passa e meno questo vantaggio resisterà all’assalto. Una cosa non conviene a gli USA: mantenere la strategia multilaterale in cui gli USA si presentano come capobranco dell’aggregato occidentale. Tale aggregato porta vincoli, costi e limitazioni tattiche alla libera interpretazione dei giochi. In più, quanto a Germania ed euro, i partner occidentali sono più parassiti che partner. Quindi “rompete le righe”, ognun per sé, conoscenti sì ma amici proprio no. Quindi “divide et impera” con tre finalità precise: 1) sabotare l’UE che tanto si sabota già di suo; 2) presi uno per uno, gli europei sono pesi mosca e si possono strappare ottime condizioni sia di relazione commerciale, sia di protettorato militare (vedi pellegrinaggio di Conte e fine luglio); c) un mondo senza euro è un mondo con un 30% di spazio in più per il dollaro.

Trump vede una strategia bipolare a guerra fredda elevando la Cina a nuovo nemico principale da contenere con attriti vari in Asia, Sud America, Africa ed Europa, finanza etc.. Se Kissinger portò Nixon a Pechino dividendo l’asse comunista, Trump vuole fare esattamente lo stesso al contrario. Frenate le pulsioni drammaturgiche per cui i buoni non si divideranno mai contro il grande cattivo, il gioco non prevede affatto le categorie “buoni e cattivi” così come “amici-nemici”, è puro interesse nazionale. Eleggendo la Russia a mio amico contro il mio nemico, è solo una questione di contropartite e tempi. Entrambe le questioni non si giocano con immediatezza, sarà questione dei prossimi anni, non mesi. Poiché Putin è il socio debole dell’asse con la Cina ha tutto l’interesse a far sembrare di esser irresistibilmente corteggiato da un’amante. Detto ciò è tutto da vedere se e quanto cederà alle “scandalose offerte” che prima o poi gli arriveranno sul tavolo, probabilmente no ma mai dire mai.

Il nazionalismo commerciale di Trump viene da alcuni scambiato per tendenziale isolazionismo autarchico. Trump non è neo-liberista è iper-liberista. Purtroppo il iberismo ha il fatidico “fifty shades of grey” e molti fanno fatica a stare appresso alle sue variazioni. Trump è per un libero mercato completamente de-regolamentato e darwiniano, avendo il soggetto più grosso e potente, è per il kick-boxing in cui vale tutto ed il suo contrario, lì dove è in posizione di forza. Di contro, dove non è in posizione di forza come con la Cina, vale l’esatto contrario ovvero dazi, blocchi, muri e conflitto multilivello a media intensità passibile di oscillazione verso la bassa e l’alta a seconda delle convenienze e delle possibilità del momento e dell’argomento.

La grand strategy (militare) di Trump, prevedeva disimpegno dall’impegno di terra e nei vari micro-conflitti, fatto salvo l’investimento navale, atomico e nel nuovo livello elettronico. Se vuoi la pace prepara la guerra quindi, ma anche se prepari la guerra prima o poi è proprio ciò che otterrai (J.F.Maurice 1919). Una volta che gli USA saranno slegati dalle maggiori interdipendenze (non si può far guerra la proprio banchiere come diceva la Clinton, riferendosi alla Cina), non è detto che faranno guerra alla Cina ma a quel punto nulla lo impedirà.

Il nuovo ordine mondiale passa inevitabilmente per la distruzione del precedente, quindi se crollano i mercati perché volano dazi pesanti di qui e di là, se il petrolio s’impenna temendo la rissa nel Medio Oriente, se l’euro traballa lasciando sgomenti i banchieri centrali e non solo, tutto di guadagnato.

Il nemico (Trump) del mio nemico (Germania) è mio amico di regola, ma ricordatevi che tutto ha un costo, a breve, a medio, a lungo termine e senza potenza, in quanto servi, potrete solo scegliervi il padrone da servire, alle sue condizioni s’intende. Ed ora, godiamoci lo spettacolo.

CRONACA 706

FAGAN IN GRECO. Ringrazio moltissimo la mia traduttrice greca Ava Bulubassi per l’ingrato compito di rendere nella sua splendida lingua, un mio articolo per la rivista e-dromos, dall’immancabile titolo “Mondo multipolare. Geopolitica ed Europa”. La rivista la cui testata completa si traduce in -La strada della sinistra- colleziona “informazioni alternative e forum per il dialogo sui movimenti sociali e l’azione politica collettiva.” La filosofia della testata, è spiegata qui se il vostro traduttore automatico riesce a stare nei limiti del comprensibile …
https://www.e-dromos.gr/oi-katey8ynseis-kai-h-8ematologia-…/

CRONACA 705

07.07 PRIGIONIERI DELLA STORIA UNICA. Leggendo un saggio sul teorico e co-fondatore della disciplina delle Relazioni Internazionali Hans Morghentau (L. Zambernardi, I limiti della potenza, Il Mulino/Ricerca, 2010), padre del realismo moderno, rimasi colpito dal fatto che lo studioso italiano che si era letto anche la sua corrispondenza e non ricordo se anche i diari o insomma articoli vari ed ad ampio spettro dell’autore americano di origine tedesca, oltreché l’intera opera, sosteneva che a HM, delle relazioni internazionali, in realtà, non fregava poi così tanto.

Egli si riteneva invece un epistemologo (studioso della logica e dei metodi della conoscenza, per lo più scientifica ma è una faccenda complicata entrare nella definizione precisa) che si batteva contro quello che chiamava “il metodo della causa unica”. Contrario all’equivalenza tra scienze naturali e sociali, censore dell’oltretutto assai arretrata idea di metodo e verità scientifica legata alla scienza meccanica del XVIII secolo (quindi prima della rivoluzione mq e relatività), violentemente anti-scientista, inorridito dal comportamentismo americano, anti-riduzionista viscerale, precoce adepto dell’approccio complesso ossia a molte variabili intrecciate e non sempre tra loro in relazione di causa lineare, era che proprio nelle Relazioni Internazionali ovvero nell’oggetto della disciplina quindi la politica tra nazioni nel mondo, tutti questi temi metodologici prendevano una chiara configurazione in favore della sua critica.

Ma non volevo farvi due palle con questa questione. Era solo per introdurre il video della giovane e simpatica scrittrice Chimamanda Ngozi Adichie, che ci parla di come veniamo imprigionati nella storia unica. Causa unica, storia unica, e state tranquilli che la realtà rimarrà ben lontana da ciò che pensate e dite. Buona visione.

[Se non parte di default, terzo bottone da destra in basso per attivare la tradizione simultanea in ITA]

CRONACA 704

HAI PAGATO LA QUOTA? Della serie piccole idee da segnare per un piano di rilancio della nostra esausta democrazia, mi sono sempre domandato perché non ritirare i diritti di cittadinanza (civili e politici) a chi non contribuisce al sistema comune, evadendo il pagamento degli oneri sociali.

In fondo una società, tra le tante cose, è anche quello che dice il termine ovvero l’unione a sistema del socius (compagno, amico, alleato), l’istituzione ha i suoi costi, tutti debbono contribuire oppure escono dall’associazione. Diritto di espatrio, diritto di voto, limitazione di alcuni diritti giudici, bisognerebbe parlarne coi giuristi.

Dispiace notare che ci sono arrivati gli americani, quanto di meno comunitario si rinviene nell’area occidentale (qui). Naturalmente, la pena andrebbe in relazione all’infrazione e quindi dovrebbe pienamente scattare da un certo livello in su. Anche perché, è facile che chi non paga tasse di un certo livello abbia un certo reddito e quindi abbia uno stile di vita che, come dire, si avvicina molto ad un certo cosmopolitismo. Questi cosmopoliti amano andare di qui e di là, per interessi e per diletto, salvo poi tornare a casa perché tutti abbiamo una casa culturale a cui tornare, il vero apolide -il privo di polis-, non è mai stato un individuo felice. Costringerli a far le vacanze ad Alassio o la settimana bianca al Terminillo, non sarebbe male, che ci fai di tutti quei soldi se non te li puoi godere? Noi poi, in quanto italiani, pur essendo popolo di navigatori, migranti ed esploratori, risentiamo più di altri della nostalgia della lontananza dal luogo di origine perché indubbiamente è uno dei migliori al mondo, almeno sul piano naturale.

Ovviamente si tratta di poco più che un principio, il mondo moderno offre troppe occasioni di evasione fiscale semi-legale e noi italiani non brilliamo per precisione ed inflessibilità nella raccolta fiscale viepiù ci si alza nella scala sociale. Secondo stime della Ca’ Foscari sono circa 40 miliardi l’anno di mancato introito, altro che reddito di cittadinanza. Ma secondo il Tax Research di Londra sarebbero anche quattro volte di più (evasione ed elusione) e secondo Eurispes ed Istat, includendo l’economia criminale, si arriverebbe anche a sette volte di più, addirittura 270 mld, cifre la cui metà all’incasso ci porterebbe subito ad un Paese che riprende corposi investimenti pubblici, istruzione e ricerca, migliorando l’output di servizio pubblico e si mette pure a ricomprare un po’ di debito pubblico estero.

Dispiace che nel mondo delle immagini di mondo si preferisca dilettarsi in massimi sistemi che quasi mai giungono ad effetti pratici e si ignori la base del contratto sociale democratico che nell’Antica Grecia, giungeva all’ostracismo per chi violava il contratto di cittadinanza.

Da noi la situazione è sempre grave ma non seria, quando comincerò a leggere contributi pubblici che vanno in questa direzione, riprenderò la speranza che in fondo ce la possiamo fare. Nel frattempo, continuiamo a dilettarci sul sovranismo, il monetarismo, l’uscita dal capitalismo, l’edificazione del mondo dei giusti, il buon sammaritano, l’aggiungi un posto a tavola che c’è un amico in più e il non c’è più destra, né sinistra. L’importante non è cambiare il mondo ma chiacchierarlo.

CRONACA 703

06.07 STANZA CINESE. Famoso argomento di un filosofo scettico (J.Searle) sulle potenzialità dell’AI. Si tratta della differenza tra sintassi e semantica, grammatica e significato. Mentre la prima è algoritmizzabile, il secondo è ancora un mistero sul come emerga dalla mente. Essendo ancora un mistero si dubita possa esser riprodotto visto che non si sa come funziona. L’argomento è del 1980, ha cioè trentotto anni, quasi quattro decenni in cui siamo stati bombardati da quanto sempre più intelligente è la “mente” artificiale. Non importa che fb manchi di intelligenza di contesto e rilevi dell’hate speech nella Dichiarazione d’Indipendenza americana censurandola (qui). Non importa cioè che
la macchina parli cinese ma non capisca ciò che dice. L’importante è continuare a ripeterci che l’intelligenza artificiale è intelligente anche quando questa è una dichiarazione artificiale. Capita quando il dogma è che il pensiero è informazione e l’informazione è calcolo.

CRONACA 702

05.07 AFFARI DEL SECOLO. Perdere italiani giovani (e non solo) magari diplomati e laureati (valore d’investimento pubblico di 90.000 euro nel primo caso tra 150 e 170.000 euro nel secondo, quello famigliare è inquantificabile) ed importare manovali esteri per lavoretti massacranti, precari e sottopagati. Astuta strategia del nostro “Sistema Paese”, espressione in voga qualche decennio fa oggi in disuso visto che qualsiasi riferimento sistemico al Paese è tacciato di sovranismo, nazionalismo, razzismo. Società aperta non importa quanto, dove, come ed a chi, non vorrete mica esser voi a determinare il sistema in cui vivete, no? Giù le mani dal vostro mondo, tuonava Agostino d’Ippona, ci pensa Dio! Questo milleseicento anni fa, oggi ci pensa la mano invisibile, perdio!

CRONACA 701

01.07  DO UT DES. Si sta chiarendo la composizione del pacchetto-dono con cui Trump si presenterà all’incontro di Helsinki con Putin il prossimo 16 Luglio (qui). Il vertice sarà anticipato dalla preparazione che ne faranno Pompeo e Lavrov, sarà il primo dopo lungo tempo, dovrà affrontare molte e spinose questioni quindi non ci può aspettare che in qualche ora si risolva tutto lo spettro di questioni sul tappeto. Altresì, come tutti i vertici, avrà la versione pubblica e quella privata. Quella pubblica dirà qualcosa a cui tengono i russi e qualcos’altro a cui tengono gli americani tipo le presunte interferenze russe sull’opinione pubblica americana, su quella privata che stenderà le linee di assetto del nuovo rapporto russo-americano, quindi la più succosa, ne sapremo poco.

Detto ciò, il pacchetto o parte del pacchetto dono con cui Trump si presenterà dal russo, sembra prevederà alcune cose precise. L’ipotesi di riammissione al G7/8 è poco probabile, sia per la reazione europea e britannica nello specifico, sia perché Putin non vuol mostrare internamente e soprattutto ai suoi nuovi partner cinesi, BRICS, SCO etc. di bramare una riammissione al tavolo occidentale foriero di un disimpegno su quello orientale. Potrebbe però spuntare dal cappello qualche coniglio tipo un G2 periodico istituzionalizzato.

Il congelamento delle esercitazioni militari congiunte NATO nel Baltico e nell’Europa dell’est invece sembra possibile. Nulla gira come info sul Donbass mentre il riconoscimento di fatto della Crimea russa è stato prima twittato, poi come la solito negato ufficialmente da Washington. Per altro, i russi, hanno fatto sapere che per loro questa non è una questione ma un fatto ormai archiviato e quindi non sia aspettano alcuna “approvazione” perché si sono già approvati da soli. Però, la faccenda è parte del contenzioso di cui alla sanzioni, sanzioni di cui si è prima promessa l’estensione per un nuovo anno, per poi confermarle solo per sei mesi. La questione attiene anche alle trattative tra UK-Europa ed USA, quindi forse non ci saranno novità ufficiali il 16, ma la tendenza sembra esser quella a risolvere il contenzioso di modo da riprendere gli scambi commerciali con la Russia.

Infine, sembra avviata la chiusura del dossier siriano (articolo al link), con i russi garanti degli equilibri tra Assad, Iran ed Israele, i jihadisti ormai alla frutta e l’YPG che rientra nella sovranità siriana, probabilmente con un futuro trattamento “federale”.

Seguiremo per nuovi particolari e soprattutto per scrutare l’ “ut des” russo che chi scrive, pensa non verrà annunciato pubblicamente ma praticato nei mesi successivi sotto forma di grande ondata di joint-venture tra le rispettive imprese petrolifere.

CRONACA 700

02.07 VARIABILI PICCANTI. Messico, con 117 milioni di abitanti (poco meno della somma di Italia e Francia) che saliranno a 130 milioni al 2050, il Paese è il secondo più popoloso dell’America latina, dopo il Brasile. 15° per Pil, è però 11° (giusto dietro l’Italia) per Pil procapite a parità di potere d’acquisto (PPP). Secondo PWC 2050 The Long View, il Messico sarà per PPP addirittura il 7° Paese al mondo, sopra Giappone, Germania, Gran Bretagna. Stiamo dunque parlando di un potenziale nuovo attore massivo del nuovo mondo multipolare.

A.M.L.Obrador, notizia del giorno, ha stravinto le elezioni presidenziali come previsto. Da vedere solo se avrà anche la maggioranza a Camera e Senato, ma ha comunque possibilità di formare una solida maggioranza. Ha iniziato la carriera politica nello stato messicano del Tabasco, salsa di media piccantezza, da cui il titolo del post. Carriera di questo popolare e pare assai bravo politico di razza che vuole stroncare corruzione endemica e potere dei narcos per liberare le energie sociali del suo Paese, li leggerete su i vari articoli che seguiranno sulla stampa, speriamo. Noi qui ci occupiamo di politica estera e quindi diamo alcuni cenni in merito.

Poiché però vedo già che l’italica stampa mainstream si occupa di politica estera come io mi occupo di ricette di cucina, diamo una prima breve miglior inquadrata politica. Obrador è notoriamente di sinistra, ma di che sinistra? Populista? Populista è una categoria dell’analisi politica giunta qui da noi in ritardo ed in senso spregiativo, ma origina da fine XIX secolo con due partiti-movimenti, uno russo e l’altro statunitense. La sua maggior incarnazione però è stata sud americana, dire populista e dire sud americano è omologo. Troverete dunque scritto sulla stampa master chef che il tipo è un derivato del populismo trumpiano (ma insomma, almeno cinque minuti su Wikipedia spendeteli prima di scrivere idiozie, a meno che non vi paghino proprio per scrivere idiozie), ed è una specie di Chavez o Fidel Castro. Sbagliato. Obrador ha rapporti con Mèlenchon e soprattutto con Corbyn, di cui dicono sia l’omologo messicano. Troverete anche la schifata definizione di “nazionalista”, ma se non sei un liberal-globalista la definizione è più un dato di default che propriamente una definizione. E veniamo alla probabile politica estera orientandoci geo-politicamente.

Ovest: il supposto Ministro degli Esteri del nuovo governo è un diplomatico di lungo corso che è stato a lungo in Europa, oggi ambasciatore in Danimarca. Intellettuale umanista e musicista, studioso di Oxford e Cambridge, con onorificenze spagnole, polacche, italiane e danesi. Unitamente ai contatti politici di Obrador, si può pensare ad un rapporto molto aperto e cordiale nei confronti dell’Europa.

Sud: Obrador spezza l’ondata di riflusso destrorso-neo liberista che ha investito l’America latina dopo i fallimenti di varia natura e ragione, dei governi della precedente ondata di sinistra. Vedremo se sarà in grado di costituire un nuovo modello di riferimento per l’area. Obrador ha un curriculum tecnico-politico di invidiabile spessore, è un signore di sessantacinque anni che ha amministrato a lungo una città di nove milioni di abitanti (praticamente la Svezia) e più che chiacchierare, fa cose. Ma non è il Sud America il primo target geopolitico di Obrador, è il Centro America che complessivamente è in termini di popolazione il 30% di quella messicana.

Est: il Messico fa parte del nuovo TPP da cui si sono sfilati gli Stati Uniti. Ma c’è un personaggio, Jesus Seade Kuri (uno dei principali economisti messicani), che occorre meglio inquadrare. Seade è il capo-delegazione che sta trattando la revisione del NAFTA. Ma Seade è anche legato a tripla mandata con il modo asiatico, cinese in particolare. Se ne traggano le dovute conseguenze …

Nord: e veniamo al problemone principale, i rapporti con gli USA e Trump. Impredicibile, al momento, capire come evolveranno. Obrador chiese una consulenza a Rudy Giuliani su come stroncare la malavita di Città del Messico, il tipo è pragmatico, almeno quanto il suo collega americano. Di contro, ha annunciato di voler trasformare i suoi 50 consolati in USA, in altrettanti centri di consulenza legale per tutelare i diritti dei suoi cittadini espatriati colà. Attenzione alla signora Alexandria Ocasio-Cortez, la giovane ed assai vivace ispanica del Bronx che ha maciullato un membro delle élite democratiche alle primarie di New York e che quasi sicuramente vincerà il seggio parlamentare a novembre. Non solo è un membro della fazione DSA (Democrats Socialist of America, Internazionale socialista), ma potrebbe diventare il riferimento per il sesto della popolazione americana di origini ispanico-latine, nonché di molti giovani, donne e sandersiani. Sempre a nord, si tenga conto della possibile naturale alleanza col Canada (naturale per via geo-politica, ovvero dove la geografia condiziona la politica).

Quindi, a chiudere, sono da seguire due cose: 1) quanto Obrador riuscirà internamente a portare avanti i suo programmi su cui ha ricevuto ampio mandato popolare e su cui quindi avrà la solita sporca, brutta e cattiva opposizione delle élite che a quelle latitudini sono abbastanza poco politically correct; 2) come riuscirà a gestire i rapporti con l’ingombrante vicino giocando ad ovest, sud ed est, per divincolarsi dai rapporti di forza con Trump a cui potrebbe far male e da cui potrebbe ricevere ancorpiù male.

CRONACA 699

01.07 GINEPRAIO. Folto gruppo di ginepri oppure in senso figurato “situazione confusa ed intricata”. Esempio: migranti e migrazioni.

1) I migranti (tutti i provenienti da Paesi extra-UE) sono troppi: FALSO. Pare siano in tutto un 5% della totale popolazione UE ma dal 1990 al 2017, il che per un sub-continente in stagnazione ed alcuni casi (Italia, Germania) in declino demografico, non è poi neanche un male.

2) I migranti vengono tutti da culture arretrate il che li fa sembrare più problematici del loro numero: FALSO. Quelli afro-asiatici-sud americani sono solo il 35% di quel 5% fatto 100 Sono cioè qualcosa come 325.000 l’anno (media dei diciassette anni) su un totale popolazione di 500 milioni, quindi lo 0,06 di nuova popolazione in più all’anno, l’1,6% circa nel totale periodo.

3) I migranti africani -quindi- non sono un problema per l’Italia: FALSO. Intorno al 70% dello specifico flusso che proviene dall’Africa è concentrato sull’Italia. Questo crea tre problemi: 1) Una questione di giustizia distributiva rispetto a gli altri Paesi europei; 2) Costi e problematica logistica di ricezione, gestione, inserimento in un Paese che non vive una felice stagione espansiva; 3) Questioni di specifico impatto culturale, soprattutto per i residuali che non vengono regolarizzati e ciononostante rimangono come popolazione ombra nella società.

4) Il fenomeno della migrazione africana è spontaneo, no è indotto: VERO E FALSO. Il fenomeno è in parte spontaneo per ragioni di esuberanza demografica, scarse opportunità locali (quando non conflitti o disgrazie ambientali se non procurate direttamente, quasi sempre create indirettamente da Paesi europei tra cui Francia, Belgio, Gran Bretagna o extra europei ma alleati del’Europa come USA e Paesi del Golfo), anagrafe molto giovane energetica ed intraprendente, fascinazione del modello occidentale. Impossibile pensare non si sia formata nel tempo una logistica di supporto al flusso fatta di piccoli interventi locali e qualche sostanzioso intervento esterno (ONG dal dubbio ruolo, grandi manipolatori geopolitici e geoeconomici). Lo spontaneo quindi è un “in potenza” che qualcuno e più d’uno aiuta a far diventare “in atto”. Per distrarci dagli “africani”, sarebbe interessante fare una inchiesta giornalistica su come fanno gli abitanti del Bangladesh (prendere cartina geografica e guardare dove si trova il Bangladesh) ad arrivare qui da noi, con telefonino e pronti subito a farsi imprenditori di frutta e verdura aperti h24.

5) Prima di tutto è un problema umanitario: FALSO. I problemi con umani dentro, sono tutti problemi umanitari, ma sono anche problemi economici, culturali, politici, geopolitici, sociali. Anche lasciare un anziano a vivere con 480 euro di pensione mese è un problema, ma non viene rubricato come problema umanitario. Certo, non è in gioco la vita o la morte (a volte sì, in termini di assistenza medica o cure), ma la dignità sì.

6) L’Italia è diventato un Paese odioso, inumano, razzista: FALSO. L’Italia è di gran lunga il primo contribuente assoluto del fondo europeo che investe in Africa per agire sulle cause profonde delle migrazioni e -come detto-, ha assorbito sino ad oggi, la gran parte di questo specifico flusso dell’Out of Africa. Un giro nelle banlieue o tendopoli come quella che si era formata a Calais in Francia o le tendopoli parigine ruspate non con baldanzose parole populiste ma con concreti caterpillar , consiglierebbero più prudenza nei giudizi.

7) I migranti potrebbero esser una risorsa invece di un problema: VERO. Ma con i vincoli di bilancio, le scarse risorse, la scarsa pianificazione ed organizzazione, la mancanza di conoscenza dei nostri specifici problemi demografici, contributivi, rapporti Centro-Enti locali, l’opportunità non può esser colta e si trasforma in problema.

… e si potrebbe continuare con l’esercito capitalistico di riserva, l’opportunità di integrare anche noi un Mbappé, l’insostenibile leggerezza delle teorie multiculturali, i contributi INPS e lo sbilancio dei prossimi anni, la gente che parla del fenomeno ma non ha mai preso l’autobus di una grande città avendone cioè percezione intellettuale e non sensibile, la differenza socio-culturale tra grande e piccola città, tra regioni industriali e regioni sottosviluppate, i costi della manodopera agricola, il protezionismo agricolo europeo, diamanti ed uranio oppure petrolio e armi, la tratta delle nigeriane, la mafia della chincaglieria cinese venduta da legioni di operatori commerciali di colore fuori legge, Conte sbeffeggiato a lettere cubitali e poi un trafiletto che dice che Merkel ha detto bugie su accordi che non aveva con cechi ed ungheresi solo per far star buono Seehofer, il mitico Macron, la società aperta e quella corta e molto altro.

Come più volte detto, il problema nella dimensione attuale è ridicolo se comparato con le dimensioni che prenderà nei prossimi anni, semplici osservazioni demografiche e politiche danno certezza che il fenomeno crescerà di intensità. Il paesaggio politico italiano ma ancorpiù europeo che dovrebbe fra fronte a questo fenomeno, i cui lati di opportunità e problematica sono intrecciati, è sconfortante. In settanta anni abbiamo costruito a malapena un mercato commerciale comune e negli ultimi meno di venti, una moneta con regolamento comune che non funziona, nonché una legge che ci permette di non mostrare i passaporti ma le carte d’identità alle frontiere, più qualche scambio di studenti universitari per sei mesi o nove. Dai migranti alla geopolitica, dalle politiche di Difesa e quelle fiscali, dalla democrazia alla cultura, rimaniamo 27 nazioni in potenziale conflitto più una che ha già abbandonato la finzione comunitaria. Intorno a questo dis-aggregato ruotano famelici gli USA, la Russia, la Cina, il Sud Est asiatico, le petromonarchie. I decisori politici hanno la loro nazione di appartenenza, hanno la loro ideologia e lobby di sostegno, rispondono ad elettorati che nulla hanno capito della complessa fase storica in cui sono capitati, strattonati da neo-nazisti, xenofobi, conservatori tradizionalisti, liberali dal “che problema c’è?”, anime belle perse in bolle valoriali assolute rigidamente separate dalla rugosità della realtà maleodorante, preti in cerca di nuovi adepti per infoltire le schiera combattenti delle fedi in eterna competizione, intellettuali che cercano il proprio quarto d’ora di gloria, giornalisti che percepiscono reddito a seconda della storiella che scrivono in favore o sfavore di questo o di quello.

Poi apri il giornale e scopri che la nuova corrida del giorno tra odiatori di migranti ed odiatori di odiatori di migranti è lo scontro Pearl Jan vs Rita Pavone e capisci che l’unica cosa che può salvarti dal ginepraio è la sua bacca, quel “botanical” che macerato dà il profumo all’incolore ed insapore distillato di orzo e frumento detto “gin”. Alla vostra salute!

[Prego gli eventuali commentatori di rimanere sul generale, affermazioni lapidarie come VERO o FALSO sono sempre relative, i dati riferiti li ho presi da fonte abbastanza credibile, ma la numerica precisa lasci il posto alla visione generale. Il senso della nota è “come stiamo affrontando un problema complesso?”]

CRONACA 698

LA DOTTRINA TRUMP (Con importanti novità su WTO e NATO). Come ho già avuto modo di raccontare, mi trovai all’indomani degli inaspettati risultati elettorali delle presidenziali USA del novembre 2016, a dover inserire velocemente una analisi su Trump nel mio libro che stava andando in stampa.

La visione di politica estera di Trump, era quasi tutta in una sola intervista al NYT, corroborata da qualche dichiarazione accessoria e da un minimo di ricerca sulla commissione esteri del suo staff di campagna, Bannon, e poco altro. Il problema di quella dottrina non era capirla, era accettarla (accettarla a livello di comprensione, facciamo gli analisti mica i tifosi) e giustificarla. In tutto questo tempo, permangono due ostacoli a questa giustificazione ed accettazione.

Il primo è la rimozione ampiamente condivisa da tutto l’Occidente di una realistica analisi dello scenario mondiale dal punto di vista USA, ad oggi ed in immediata prospettiva, diciamo 5-10 anni massimo.

La seconda è la battaglia politica che sembra coinvolgere ogni analista come recluta di un esercito o dell’altro, sospendendo la terzietà che dovrebbe segnare la posizione dello studioso.

Nell’allegato A) articolo di The Atlantic, una rivista seria, si leggono ancora delle incomprensibili ingenuità come il domandarsi se l’individuo semi-instabile e compulsivo che è alla Casa Bianca, è capace di riflessione e pensiero strategico, come se un Presidente fosse al contempo la sua lobby di sostegno, il suo staff, la sua area culturale di riferimento, il suo strategist ed il suo network di think tank ed anche il cover boy di se stesso. Questa personalizzazione della politica è un fenomeno che forse risale a quella storiografia anglosassone à la Burke, per la quale s’immagina che fenomeni ed eventi complessi, siano provocati, diretti e risolti da qualche “grande uomo del destino”. La dottrina Obama conosciuta come “Pivot to Asia”, risultava essere assunta e riassunta in una articolo di Foreign Policy di almeno tre anni prima che venisse pronunciata e quell’articolo non era di Obama, ma di Hillary Clinton. A sua volta, non si può certo immaginare la signora Clinton lì alla scrivania a scrivere e limare il testo dell’impegnativa strategia, ci sarà pur stato qualcuno, diciamo più d’uno, che ha elaborato quel testo, certo condividendolo con la presunta Autrice. Sembra vi siano ostacoli insormontabili a prender sul serio il come funziona il vertice politico di una iperpotenza come gli USA, il che non aiuta affatto a capire cosa farà, come e perché che poi dovrebbe essere il ruolo dell’analista. Forse rimpolpare le redazioni con qualche stratega in più e qualche esperto di psico-costume in meno, aiuterebbe. Ma non sia mai, poi magari finisce che ti devi privare del piacere di dar del cretino al lettore ricordandogli che lui è un analfabeta funzionale e che della “grandi cose” lui non capisce niente.

Tutto ciò detto e premesso, abbiamo due notizie. La prima B) è che col modello “faccio uscire uno spiffero-poi lo nego-vedo un po’ come butta-e poi lo faccio davvero”, è appunto uscito uno spiffero privato del Presidente che avrebbe annunciato ai suoi la volontà di ritirare gli USA, niente-po’-po’-di-meno-che dal WTO. Possibile?

La seconda (ringrazio Lorenzo Gio delle segnalazioni) è una lettera inviata da Trump al Primo ministro norvegese C) e D) che poi l’ha girata alla stampa e di cui -quindi- abbiamo contezza. Quasi sicuramente il norvegese non è stato l’unico a leggere nero su bianco che gli USA stanno per fare la voce grossa e qualcosa più che la sola voce, al vertice NATO del prossimo 11-12 luglio. Il tema è il famoso 2% di spesa contributiva al bilancio NATO che alcuni danno, altri si son ripromessi di raggiungere entro il 2024, altri ancora nicchiano, tra cui la Germania. Sembra anche, come qui già detto tempo fa, che anche questo fatidico 2% cominci ad esser ritenuto “il minimo” e non è detto venga rivisto al rialzo.

Cosa vuole raggiungere Trump? 1) T. vuole solo risparmiare su i costi NATO e farsi un tesoretto da investire nell’annunciato piano infrastrutturale interno che rilanci occupazione soprattutto in vista delle elezioni mid-term? 2) T. vuole usare la faccenda del 2% per punire con ulteriori sanzioni commerciali selettive alcuni tipo la Germania? 3) T. non sarà mai contento neanche del 2% perché in realtà vuole di più per vendere qualche arma in più ai partner? 4) O in prospettiva T vuole smantellare la NATO per come la conosciamo e riformularne assetti e missioni magari mettendosi a vendere “servizi di protezione” a singoli Paesi e poi “vendere” la novità a Putin aggiungendovi il riconoscimento della Crimea, qualche soluzione condivisa per il Donbass e la Siria ed ottenere in cambio una primo raffreddamento dell’asse Mosca-Pechino che è un punto decisivo della sua già annunciata dottrina, nonché corpose joint venture negli idrocarburi siberiani?

Chissà, vedremo. Tornando a The Atlantic, l’analista riferisce le risposte anonime di membri dello staff presidenziale ricevute a domande su quale fosse in sintesi lo slogan della presunta dottrina Trump. Mette così in classifica: 1) “We are America, Bitch!”; 2) La destabilizzazione permanente crea un vantaggio per gli USA; 3) “No Friends, No Enemies”. Due anni fa io scrissi la seconda e la terza ma con ordine invertito, la prima è puro folklore narrativo sul luogo comune trumpiano, buono per i lettori degli eventi come fossero un fumetto Marvel comics.

La dottrina Trump ha un nemico, la Cina. Rallentare lo sviluppo, l’egemonia e la crescita cinese, l’unico obiettivo sensato per chi deve fare una strategia a 10-20 anni per gli Stati Uniti d’America. Da ciò consegue il cercare di staccare il più possibile la Russia dalla Cina. Da ciò e non solo da ciò consegue far dell’Europa una marmellata con cui far colazione la mattina.

Secondo me quindi, alla fine si ritirerà dal WTO e modificherà in profondo l’assetto della NATO. Niente amici permanenti e niente nemici permanenti, solo alleati tattici come il prof. Conte che verrà lanciato in mondovisione con baci ed abbracci il prossimo 30 luglio. “Verso un mondo multipolare” s’intitolava il libro, non era una speranza io non faccio l’opinionista, era una fotografia.

A)https://www.theatlantic.com/…/a-senior-white-house-…/562511/

B)http://www.ansa.it/…/axios-trump-vuole-ritirarsi-dal-wto_15…

C)http://www.ilgiornale.it/…/vertice-nato-trump-invia-lettera…

D)https://www.axios.com/donald-trump-foreign-policy-europe-na…

CRONACA 697

FILOSOFI AL CAPEZZALE DELLA SINISTRA 1 e 2.

1) Michael Walzer è uno dei più famosi, sebbene un po’ eccentrico rispetto a gli ambienti mainstream, filosofi politici americani. Avvicinato non senza problemi di effettiva coincidenza con la sfera “comunitaria” dei MacIntyre e Sandel, professore a Princeton, per quaranta anni direttore della rivista trimestrale di teoria politica Dissent (di origine socialista democratica, ospita contributi di marxisti umanisti ed eterodossi, femministe radicali, democratici radicali oltre ai socialdemocratici propriamente detti come Walzer e Rorty) è particolarmente noto per lavori sulla “guerra giusta” e sul concetto di uguaglianza nella giustizia (Sfere di giustizia, Laterza 2008) o “uguaglianza complessa”.

Qui viene intervistato (da la Stampa) a proposito dell’uscita del suo nuovo libro “A Foreign Policy for the Left” (Yale UP, 2018), in cui sembra denunciare proprio nella mancanza di una visione di politica estera o mondiale, la mancanza di logica e presenza di una immagine di mondo di sinistra (… la sinistra non ha riflettuto seriamente sull’ uso della forza all’ estero, i rifugiati e le migrazioni: ha infilato una lunga serie di fallimenti nel ragionare con realismo su come funziona il mondo).

In conclusione, questa la sua ricetta curativa per la sinistra (sopratutto americana) dal pensiero devastato: “La sinistra deve trovare un’alternativa al neoliberismo, parlare alle classi disagiate, garantire ai bianchi che non saranno abbandonati anche se diventeranno minoranza, non cedere su identità e diritti, essere realista su politica estera e sicurezza, ricordare gli studi di tutti i sociologi che dimostrano come nei quartieri con più immigrati la criminalità è più bassa, ma nello stesso tempo accettare il principio di controllare gli arrivi. Senza questo, continuerà a perdere.”.

Se ne dà conto così per ampliare le conoscenze, siamo pur sempre ad un punto di vista “americano”, sebbene la denuncia della storica mancanza di realismo e visione del mondo ad alta risoluzione (quindi con le religioni, le etnie, le varie tradizioni, la geografia, la storia, l’antropologia e tutto ciò che è fuori la monotonia dell’analisi di classe), la trovo interessante.

Se non altro c’è qualcuno dotato di neuroni attivi che si prende la responsabilità di capire cosa è andato storto invece di invocare l’analfabetismo funzionale, gli hacker russi, la manipolazione di Internet coi quali ci si diletta qui ai confini della realtà …

2) Un davvero ottimo Carlo Galli  https://ragionipolitiche.wordpress.com/2018/06/29/sulla-sinistra-rossobruna/amp/

CRONACA 696

LA BOTTEGA MESSICANA. Domenica dovrebbe esser eletto Presidente del Mexico, A.M.L. Obrador che in castigliano, pare significhi appunto “laboratorio artigianale”. Storico sindaco della capitale, “Più vicino a Chávez e a Morales che a Mujica o a Lula, con forti dosi di retorica antipolitica e giustizialista” recita l’articolo allegato (qui e poi qui).

Insomma, dopo l’ondata centro-sud americana di sinistra e dopo la contro-ondata di destra, ora potrebbe esser la volta di un nuovo contro-contro ciclo dicono alcuni analisti. Non so, certo è che è una novità decisiva per il Mexico ed il Mexico è e sempre più sarà un Paese strategico dell’area, un Paese che non è vicino a gli USA, confina. Potrebbe esser l’inizio di un nuovo equilibrio per il continente americano, da seguire con attenzione …

CRONACA 695

L’EUROPA TRA FISICA E METAFISICA. Sul tema “Europa” ha a lungo dominato la metafisica espressasi in due versioni, quella del mercato che tutto e tutti unisce e quella del “sogno di una cosa” o di una casa, comune, per tutte le genti del tormentato sub-continente. Il mercato, per altro, è anche un fatto ma si sta dimostrando che non è un fatto sufficiente per farci base per la costruzione della casa. Addirittura si potrebbe notare che in effetti gli scambi di mercato migliori sono quelli tra dissimili mentre per fare casa comune occorre un qualche pregresso “in comune” che di solito si trova tra simili. Tant’è che l’UE è a 28 ed a tratti, c’è pure chi aveva vagheggiato una inclusione dei turchi o degli israeliani o degli egiziani. Fare un mercato ha logica del tutto diverse da quelle che governano la costruzioni di stati, ed una cosa è certa: fare una casa comune è fare, in prospettiva, uno Stato.

Fino a qualche mese fa, pochi mesi fa, il dibattito era ancora governato dalla metafisica, opinioni in libera uscita su chi la voleva cruda e chi la voleva cotta, asini che volevano come gli Stati Uniti d’Europa, ferrei paradigmi economicisti o meglio, monetari, diarchia regnante un po’ a Parigi, un po’ di più a Berlino.

Ma ecco che irrompono due fatti concreti. Il primo è la serie a ripetizione degli attacchi di Trump: dazi sull’export, liaison con gli euro-orientali, datemi più soldi per la NATO, richiamate i russi al tavolo, special relation con il nuovo governo italiano. Il secondo è la stagionale questione migratoria che nella sua ricorsiva manifestazione non ha nulla di nuovo, ma che ha incontrato una nuova variabile di quadro: l’Italia che chiude i porti ed apre le discussioni.

I fatti concreti dissolvono le nebbie della metafisica europeista e fanno precipitare il tema sulla fisica. E con la fisica, torna la geografia che abitata da genti è sempre geostoria. Nel nuovo contesto l’unità metodologica torna ad essere lo Stato, l’istituzione della sovranità giuridica-fiscale-militare che un popolo ha su un territorio. Una istituzione umana che ha appena cinquemila anni, forse seimila, e che i metafisici di varia estrazione, quelli liberali e quelli marxisti, avevano liquidato con la tipica leggerezza di chi confonde le parole con le cose, gli universali coi particolari, l’idea con il “tode tì” (il “questo qui”, il concreto, la sostanza per Aristotele).

E con gli Stati tornano le interrelazioni tra Stati su base geostorica: i britannici che, pragmatici ed empirici, per primi hanno dato il via al ritorno ordinativo della fisica; i nove di Bucarest non russi e non euro-occidentali con sogni ancora vaghi e per altro neanche coincidenti tra Intermarium e Trimarium; la Lega anseatica degli euro-nordici un po’ germani, un po’ scandinavi; i latino-mediterranei richiamati dalla comune condizione di dirimpettai all’Africa a condividere problemi e quindi anche a convenire le soluzioni.

Certo, le cose non sono mai nitide come vorremmo, transitano e fanno i conti con l’attrito delle contraddizioni e delle rispettive complessità. Tra i britannici c’è chi vorrebbe mantenere il mercato comune con gli europei, tra gli euro-orientali c’è chi odia i russi e chi no, tra i nordici c’è chi come Merkel e la SPD s’incupiscono all’idea del non realizzo del sogno europeo germano-centrico. Poi, tra gli euro-sud, c’è il povero Macron che è in un gran bel pasticcio tra la tradizione del trattato dell’Eliseo, la grandeur, l’asse FN-Lega, egoistici interessi africani, la prospettiva di un riproporsi della questione corsa ed il mandato di leader dell’internazionale liberale che lo vuole a capo dell’asse Ciudadanos-Renzi per tornare alla metafisica del mercato.

Ma se le cose non sono nitide in fotografia, diventano più chiare nel film ed il film sta cambiando il registro tra il primo ed il secondo tempo: svaniscono gli enti metafisici e torna a dettar il contesto di riferimento per tutti, la concreta realtà. Penso sia un bene, anche se a molti sembrerà diversamente.

CRONACA 694

28.06 LA SOCIETA’ LUNGA ED I SUOI AMICI. Mi lamentavo -di recente- della mancanza di quella base di fotografia sociale il cui riferimento più illustre risale al Saggio sulle classi sociali pubblicato da Paolo Sylos Labini nel 1974. Mi sbagliavo.

Qualcosa c’è ed è il Rapporto 2017 dell’ISTAT a cui fa seguito quello postato ieri specifico sulla povertà (assoluta e relativa) in Italia. E’ una autentica miniera e passerò i prossimi giorni a spulciarmelo. Forse scrivere qualche articolo in meno su i Big Data e leggersi qualche Rapporto con i Big Data dentro, aiuterebbe tutti. Io adoro le statistiche, s’imparano un sacco di cose sulla realtà ed inoltre, in epoca di iperinflazione delle analisi qualitative che se ne vanno per conto loro mischiando indifferentemente fenomeni macro e micro, trend e consolidati, numerare-pesare-misurare le componenti ed i fenomeni sociali, oltretutto messi in dinamica nel trend degli ultimi anni, aiuta a mantenere ancorato il discorso al come il mondo è e non a come ci sembra sia, in base all’idea che ognuno di noi si fa in testa nel privé della sua immagine di mondo.

Troppe cose andrebbero riprese e sottolineate, siamo su un post di fb e quindi abbiamo una pallottola sola da sparare. Decidiamo di spararla su questa chart: dal 2014 al 2017 (4 anni), le famiglie in povertà assoluta e relativa sono aumentate costantemente, con un balzo relativo all’anno scorso, di un +20% comparando il 2017 al 2014.

Non va meglio nei cluster superiori a questi, c’è la già nota frana verso il basso che caratterizza i nostri tempi. La società si sta continuamente allungando, perde la sua compattezza, i ricchi abbandonano la nave sociale e fanno ciao – ciao con la manina a chi rimane sul Titanic. Si tenga conto del fatto che una società che frana verso la povertà, restringe la capacità di spesa complessiva e quindi grippa l’intero meccanismo economico.

Ora, a questo punto, il mondo del “che fare?” si divide in tre:

1) Crescita! Bisogna tornare a far crescere il volume economico che trascinerà in alto tutta la società. Sul come farlo c’è il deserto e comunque tempo che ci prova e ci si riesce (ammesso, ma decisamente non concesso), siamo tutti morti.

2) Socialismo! Bisogna uscire dal capitalismo e convertirsi ad un nuovo modo di produzione che porta ad una nuova forma di società. Sul come farlo c’è il deserto e comunque tempo che ci prova e ci si riesce (ammesso, ma decisamente non concesso), siamo tutti morti.

3) Ridistribuzione! Bisogna trovare il modo di prendere i soldi dai quintili superiori e darli in qualche misura e modo ai quintili inferiori. Sul come farlo c’è il deserto ma comunque è l’unica cosa che in teoria si può fare presto, con effetti immediati.

In effetti le tre opzioni non sono concorrenti. La terza è l’unica in grado di dar risultati sensibili nel breve termine. Nulla esclude che, guadagnando tempo, poi ci si dedichi alla prima e/o alla seconda, ma dedicarsi solo a queste non risolve l’inerzia verso il negativo della frana sociale. E l’inerzia verso il negativo della frana sociale è l’humus di eventi politici ben peggiori di quelli in atto.

CRONACA 693

27.06  CECITA’ ISTERICA. Fenomeno per il quale si nega la percezione diretta del reale al punto da elaborare un inconscio sabotaggio della funzione visiva primaria.

Il giorno prima l’Istat comunica che nel 2017 in Italia gli individui in stato di povertà assoluta sono 5 milioni mentre gli individui in stato di povertà relativa sono 9 milioni (spesa media mensile da 1080 euro in giù, per due persone). Sommati, sono “appena” un quarto del Paese.

Il giorno dopo Calenda pensa di curare il triste declino del centro-sinistra lanciando l’astuta idea di superare il PD in favore di un Fronte Repubblicano.

Addio, non li ripigliamo più …

CRONACA 692

LONDRA, NATO , PUTIN. Luglio caldo per le relazioni internazionali. Trump pare visiterà finalmente Londra, Londra che ha annunciato di aver ricevuto il Royal Consent (l’approvazione ufficiale della regina) per il già approvato dai due rami parlamentari disegno di legge che fa diventare Brexit un percorso obbligato che si chiuderà ufficialmente ed inderogabilmente il prossimo 29 marzo. Nove mesi quindi alla liberazione britannica nel mentre Londra sta già trattando l’entrata nel nuovo TPP e pare abbia anche firmato una intesa per lo sviluppo di un nuovo bombardiere strategico con Erdogan a cui May ha fatto gli auguri e dato i complimenti per il successo elettorale arrivando solo di un pelo dopo Putin e Rohani.

Corsa contro il tempo per gli eventuali sussulti referendari del ripensamento dell’ultima ora. Non sono un giurista ma ad occhio, mi sa che queste notizie su un improbabile nuovo referendum, facciano più parte della dialettica politica interna al Regno, che esser una concreta opzione. Londra tornerà un vascello pirata, contateci.

Londra verrà dopo la riunione NATO in cui ci si aspetta il Trump tonante con la inderogabile pretesa del famoso 2% di Pil di contributo alle spese della confederazione militare. Si vocifera che l’Italia avrà uno sconto per via dei costi indiretti di ospitalità a Napoli e non solo, un modo garbato per fare figli e figliocci della complicata famiglia degli euro-occidentali. Tra NATO, forza militare europea, nuova “force de frappe” a nove (di cui abbiamo già dato notizia nel post su i francesi) promossa da Macron e le grandi manovre per gli assetti produttivo-industriali del settore armi e difesa degli europei, i conti non quadrano: troppi impegni per poche sostanze da investire. Qualcuno dovrà fare marcia indietro, si accettano scommesse sul chi.

Infine, pare proprio si farà l’incontro Trump – Putin, il 15, pare a Vienna ma c’è ancora chi scommette su Helsinki. La nuova geopolitica trumpiana procede a tappe regolari e forzate, ad allora mancheranno solo quattro mesi alle elezioni di mid-term.

CRONACA 691

UN PO’ DI SANO OTTIMISMO!. Pare dicesse Agatha Christie: «Un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza,ma tre indizi fanno una prova». Possibile? Lo ritengono 15.000 scienziati che lanciano un nuovo allarme dopo quello storico del 1992. Di seguito l’articolo sulla notizia (qui) e quello pubblicato su BioScience (qui), nell’immagine alcuni “indizi”.

 

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