STATI DIVISI D’AMERICA.

torn_flagIgor Panarin è un personaggio assai curioso, qui il suo wiki abbastanza completo[1]. Si tratta di un cervellone russo stante che i russi hanno un tradizione sistemica tutta loro[2], che non origina cioè da quella della teoria dei sistemi di L. von Bertalanffy, è precedente come è precedente la radice da cui nacque lo stesso Bertalanffy che da giovane frequentava il Circolo di Vienna. Questa è un radice che risale all’illuminismo tedesco, a Kant (in parte) e prima ancora a  Leibniz e che, come tutte le radici, ha a sua volte radici ancora più antiche ma che lasciamo lì dove sono altrimenti andiamo fuori tema. Poiché la cultura tedesca influì non poco anche su quella russa, ne conseguì la successiva biforcazione tra sistemica russa e sistemica dell’austriaco poi migrato in Canada ed influente sulla cultura americana.

Insomma, Panarin nel 1998 se ne esce con la previsione del crollo dell’impianto economico americano che poi avverrà nel 2008 ed in conseguenza di questo, prevede un processo di secessione interno a gli Stati Uniti d’America.
Il cuore della previsione diceva di una frattura tra l’Ovest che sarebbe entrato nel circuito asiatico – pacifico, un Sud che sarebbe entrato nel circuito ispano-centro americano, un Est che sarebbe entrato nel circuito euro-britannico ed un Nord, felicemente annesso al Canada. Motivo del terremoto, una serie di guerre civili dovute a migrazioni di massa, conflitto tra centro federale e stato locale, declino economico, fallimento delle élite, rottura del “sogno americano” anche in seguito a condizioni economiche sempre meno comode, il tutto in assenza di un profondo senso di americanità, nazione giovane ed incerta essendo multietnica, con debole tradizione, priva di un significativo collante religioso comunitario. p1-ao116_ruspro_ns_20081228191715Le differenze interne al sistema americano che in periodi di espansione sono state energia creativa, in periodi di contrazione potrebbero diventare delle identità reciprocamente incompatibili e base per l’hobbesiana guerra di tutti contro tutti.

Queste ultime considerazioni sul delicato rapporto tra unità e differenza sociale, non sono degli universali. Si riferiscono più precisamente alla tradizione e cultura di antichi popoli che si chiamavano sassoni, angli, juti e frisoni, barbari in pratica, barbari della costa olandese, germanica e danese che presero a sciamare nel V secolo, verso l’isola britannica occupandone le coste sud – ovest e da lì si inoltrarono nell’interno dove si impiantarono scacciando i britanni ed i celti[3]. E’ una lunga storia di cui si sa poco per tre bui secoli (unica fonte e non si sa quanto affidabile Gildas, De Excidio Bitanniae del VI secolo), sino a quando un monaco inglese, Beda il venerabile, non redasse la Historia ecclesiastica gentis Anglorum del forse 730 o giù di lì. Non è poi che Beda, il cui intento di dar lustro alla cristianità anglosassone è ben chiaro, sia da ritenersi  fonte limpida ma assieme all’unica altra fonte antica delle Anglo Saxons Chronicles (annali compilati da IX al XII secolo, sempre da monaci) è tutto ciò che abbiamo assieme al De origine et situ germanorum di Tacito e poco altro, per ricostruire la forma culturale originaria degli anglo-sassoni.

Si dirà “va bene, però è storia di millecinquecento anni fa, cosa c’entra con gli inglesi e pure gli americani di oggi?”. Non possiamo qui effonderci nella interessante storia di queste genti sanguinarie e prive di civiltà (da civis-civitas), che detestavano la natura e adoravano l’oro, divisi in clan più che in tribù,  ma dalla Magna Charta Libertatum del 1215  al regno Tudor e poi a gli Stuart, sino ad Hobbes il primo antropologo degli anglosassoni che non parlava dell’uomo in generale ma proprio e specificatamente dei ed a i suoi conterranei alanglo-saxon_map tempo della Guerra Civile, sino a tutto il successivo che dalla Gloriosa rivoluzione, va al parlamento delle élite, la Rivoluzione industriale, l’Impero  ed a latere i Puritani del Mayflower, contiene chiari segni di questa antica e comune radice culturale. Il “capitalismo” non nel senso ristretto poi dato ad una specifica forma economica ma nel senso di società ordinata dal fatto economico declinato in una specifica forma (cicli di produzione e scambio attivati dall’impiego di capitali, materie, energie ed idee) è il compimento di quella cultura.  Genti pugnaci, divise in clan, riottose a stare vicine le une alle altre e quindi idiosincratiche al concetto di società tanto quanto gelose di quello di libertà, da cui la tendenza individualista ben sposata poi con il protestantesimo ma a loro modo abituate a prender decisioni in assemblea comune, determinate a dominare la natura con loro non certo prosperosa madre e quindi a sviluppare scienza e poi tecnica ma anche produrre e commerciare come unico possibile contratto sociale, da cui ciò che noi impropriamente chiamiamo “capitalismo”[4]. Quando K. Polanyi dirà che questa forma economica è “disembedded” dalla trama sociale intenderà dire che per la prima volta, quella forma che è l’economia, non è dipendente da quella trama ma la domina, la “ordina”, le fornisce gli imput di funzionamento e quindi le dà l’ordine, l’organizzazione.

Del resto se noi mediterranei al capitalismo ci siamo dovuti adattare ma non ci abbiamo mai fatto grandi cose, se avevamo città e un impero quando lì si vagava nella tundra scambiandosi anfore globulari e massacrandosi dopo ampie libagioni di succo di mele fermentato, se siamo cittadini e quindi sociali d’antica stirpe e facevamo ecclesia e loro no, se siamo cattolici o ortodossi e statalisti e loro protestanti e diffidenti verso lo Stato, se abbiamo avuto voluminose leggi scritte e loro una costituzione che sta su un foglietto, se loro hanno le contee e noi i Comuni, se noi eravamo agricoltori e loro cacciatori, noi stanziali e loro semi-nomadi, se lo loro hanno il barbecue e noi la tavola conviviale, se noi abbiamo da conquistarci la salvezza e loro hanno la predestinazione di cui cercare il segno da esibire, se a noi non dispiace l’ozio anche perché abbiamo luce e sole e loro si concentrano su i loro compiti con abnegata concentrazione tanto il cielo è coperto e fa pure freddo,  è perché, come diceva il buon Braudel, le strutture sociali e culturali che vi sono intrecciate, hanno lunga durata, durata “geografica” in un certo senso. Quindi, l’origine c’entra perché la storia è dipendente dal percorso che è dipendente dalle condizioni iniziali, cioè dall’origine.

La razionale di tutto ciò al fine del nostro discorso che tende continuamente a scivolare per oscuri antefatti, è che le società di origine anglo-sassone, sono socialmente fragili com’è ben noto anche a chi le ha descritte in tempi recenti secondo indicatori contemporanei[5]. Il image_bookmotivo è che “società” è per loro una ancestrale costrizione che mal sopportano e storicamente hanno prodotto una rete di concetti e giudizi, di credenze e verità condivise, di ideali e prescrizioni comportamentali che vanno da tutt’altra parte, rassegnandosi infine a stare assieme solo per seguire i codici della produzione, scambio e dell’accumulazione egoista, cioè producendo assieme sforzo economico che poi si ripartiscono individualmente per godersi la loro sacra “libertà”. Già quando si massacravano in faide, convennero infine ad un sistema diciamo “giuridico” esclusivamente basato sul fatto che una vita umana aveva un prezzo, si veda il guidrigildo longobardo. Non ci si doveva ammazzare, non in base ad imperativi etici o paura della punizione divina ma perché costava troppo. Con questo contratto sociale (solo genti del Nord potevano inventarsi un concetto come il “contratto sociale”, mai ad un mediterraneo che nasce e da sempre è in una società, sarebbe venuto in mente di dover giustificare la socialità con un “contratto”) vanno alla grande fino a che la ricchezza sale, tendono all’homo homini lupus quando la ricchezza scende, perché è solo la ricerca di questa che li tiene “assieme”.

Panarin quindi non ha fatto altro che leggere questa dinamica di sistema per la quale sistemi ordinati da un convenuto orientato ad un interesse ben specifico, problematizzandosi questo, si problematizzano a loro volta, cioè tendono a spaccarsi, ritornando a piccoli frammenti. Così per il referendum scozzese poi perso per un pelo, così per la decisione di rintanarsi nell’isola visto che si va incontro a tempi difficili (Brexit) che potrebbe chiamare un nuovo referendum scozzese ma anche gallese e nord-irlandese, così per analoga decisione di Trump sul ripristino dei confini materiali ed immateriali, così per le tensioni tra i popoli franchi (valloni e fiamminghi), così per questa incredibile serie di piccoli segnali che andiamo a riportare, che dopo quasi venti anni sembrano andare incontro alla coraggiosa profezia di Panarin.

In California si stanno organizzando per la secessione, la Calexit. C’è un movimento indipendentista con tanto di pagina facebook che ne divulga le attività  che punta al referendum nel 2019. E se la secessione californiana è da sinistra (si fa per dire, diciamo “democratica” e progressista, certo irritata da Trump), in Texas se ne parlava già da destra (anche qui). Ma l’autorevole testata americana Politico, ne censisce ben cinque, tutte nate all’indomani della Brexit. Si va dal New Hampshire NHexit, il Vermont Vexit di ispirazione non lontana da quella alla base di Sanders (si ricordi che Sanders non è democratico, non ha mai preso la tessera del partito democratico, aveva promesso di prenderla solo se avesse vinto le primarie e viene regolarmente eletto al Senato dal Vermont, da anni, solo come “indipendente”). Le già citate Texit del Texas e la Repubblica di California ed infine pure le Hawaii con la Hawexit e c’è anche chi sostiene che fra un po’ s’aggiungerà la Northdazotx7 Carolina, il Montana, l’Alaska, i nativi della Repubblica Lakota che si stanno facendo le ossa nelle lotte contro l’oleodotto Keystone, i vecchi stati del Sud, il progetto sulla Repubblica di Cascadia degli stati Nord orientali  e molti ma molti altri, alcuni giocosi, altri molto meno (qui e qui).  Time ha messo quelli di Cascadia e soprattutto i ribelli intellettuali del Vermont, tra le 10 più importanti aspiranti nazioni, assieme a gli scozzesi, i baschi, i curdi. Quelli del Vermont addirittura, ne fanno una teoria che ha un suo interesse ovvero decomporre tutti i grandi stati del mondo (Russia e Cina incluse) e tornare alle nazioni-regioni, l’esatto contrario dell’Uno-mondo promosso dalle élite global-finanziarie per certi versi ma per altri una idea di mega-network di città-stato (un “modello post fenicio”) come ipotizzato da non pochi[6] che potrebbe andare incontro all’anarco-capitalismo tipo Murray Rothbard, così come però anche all’anarco-municipalismo di Murray Bookchin a cui si è votato il capo del Pkk turco Ocalan e con lui i comunitaristi curdi del Rojava (Kurdistan siriano) che tanto hanno infiammato i cuori di certa sinistra orfana di miti.

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La nostra digressione sulla natura incerta delle società anglosassoni, le previsioni di Panarin e i precoci fermenti secessionisti americani non fanno certo un fatto e forse neanche una previsione, solo una eventuale possibilità. Dobbiamo quindi vedere meglio questa “possibilità” a quali eventi va incontro per capirne le eventuali probabilità.

Gli eventi non sono certo rassicuranti. Gli Stati Uniti d’America vanno incontro, a meno di una conflagrazione bellica mondiale, ad una relativa e forse lenta contrazione di potenza. Si contrae l’intero sistema occidentale di cui sono il centro e poco possono fare per evitare la contrazione europea e giapponese che sono le due più significative del sistema occidentale. Ascende la Cina, l’India ed altri ma soprattutto il “potere” va regionalizzandosi, in un certo senso, diffondendosi. Così per gli aspetti economici globalpower2020attualmente previsti in lunga stagnazione. Non meno problematiche sono le previsioni per quelli finanziari sempre che non accadano rivolgimenti anche più traumatici che già si temono come la relativizzazione del ruolo del dollaro e della istituzioni internazionali figlie di Bretton Woods. Problematico rimane l’iper-volume finanziario con rischi di crack a catena poiché quelle scritture contabili sono dappertutto dai bilanci delle società quotate in borsa (non solo le banche) ai nostri fondi pensione.  Continuerà a crescere il volume demografico del mondo ma non per la parte occidentale che diventa sempre più relativa. Si stagliano all’orizzonte gli impatti con le rigidità date dalle retroazioni ambientali e dei limiti delle risorse, tenuto conto che queste sono poi parti in interrelazione nei sistemi di conflitto geopolitico ed in quelli di mercato, mercato che per la parte finanziaria tende poi a produrre feedback accrescitivi che ingigantiscono i già problematici effetti scarsità.

Tutto ciò tende ad accerchiare quella delicata sproporzione che sussiste tra quel meno del 5% di popolazione mondiale ed il poco meno del 25% del prodotto lordo che è il peso che gli USA hanno sul totale-mondo. Accerchiamento che crea pressione, pressione che crea attrito, attrito che disordina una società il cui contratto sociale è “crescere e prosperare”. Niente crescita, niente prosperità, niente redistribuzione, risultato: conflitto. Ed è il conflitto l’insidia maggiore per quella società debole ovvero per quel debole collante che tiene i diversi interessi individuali entro il campo del comune oltre il quale tendono a divergere innescando una possibile decomposizione del corpo di cui sono parti.

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Il nuovo ciclo(ne) Trump potrebbe avere due effetti reciprocamente contrari su questo quadro. Il primo è forse positivo. Già dal suo slogan elettorale, “Make America Great Ageain”, il magnate sembra aver avuto ben chiaro il fatto che la perdita di potenza non è solo un rischio ma già un fatto. Rimandiamo ad altrove l’analisi a grana più fine di quanto la sua strategia abbia le possibilità che s’intesta[7] ovvero arrestare l’emorragia, stante che il “problema americano” qualsivoglia sia l’ideologia e le competenze con il quale lo si affronta non solo non è facile da risolvere ma non è neanche detto sia possibile risolverlo sul piano pratico. In quella contrazione di potenza, ci sono soglie invisibili oltre le quali l’effetto non ècover-final proporzionato alla causa. La rimessa in discussione del ruolo internazionale del dollaro, l’obbligo a rivedere le composizione di voto delle istituzioni internazionali (IMF, WB, WTO, BIS etc.) o la nascita di vere e proprie istituzioni alternative (AIIB, SCO, BRICS Bank), la decomposizione europea che faciliterebbe come “divide”  l’ “impera”   degli americani ma che a quel punto potrebbe vedere anche qualche scheggia d’Occidente imparentarsi altrove, lo sviluppo di reti regionali che complicherebbero molto la geopolitica americana, sono tutti fatti che potrebbero rendere l’emorragia improvvisamente più grave con effetti interni destabilizzanti. Altresì, Trump è chiamato ad una cura radicale ed ad un radicale ri-orientamento del sistema americano (interno ed esterno) ma avrà contro l’élite perdente che è comunque molto forte e che come dicono le ultime sugli hacker russi ha intenzione di condizionare permanentemente la sua politica, a fargli pagare un “prezzo” per ogni sua più eterodossa scelta. Altresì dovrà ben ricordarsi che il voto popolare l’ha perso e non di poco (3 milioni di voti) e quindi il fatto che la società è oggettivamente spaccata ed ha scadenze a due anni (elezioni di mid term) e quattro anni (nuovo incarico), cioè molto più ravvicinate di quanto qualsivoglia strategia riesca a produrre in termini di effetti benefici e stabilizzanti. L’effetto negativo potrebbe esser innescato proprio dai tentativi di Trump di forzare le tappe o le contrarietà provenienti dal contraddittorio pluralismo di quella società.

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Nulla di quanto detto porta ad una possibile conclusione significativa. L’impossibile arte della previsione è di sua natura votata al fallimento. Inoltre, per quanto attiene gli eventuali e fantapolitici processi di secessione qui siamo in prospettive per i prossimi venti anni, non stiamo parlando di domattina. Di base, a parte Panarin che ci è servito da spunto, è un fatto che le società dei popoli anglosassoni vengono da secoli vincenti e non vanno verso secoli altrettanto vincenti. E’ un fatto meno solido ma fortemente indiziario, che la loro natura e cultura non ha lo stare assieme come suo codice fondante. Altresì, è evidente che il loro contratto sociale -soldi, crescita & sogni-  è basato su un punto che verrà messo a dura  prova dagli eventi futuri, forse non -blood, sweet & tears- ma qualcosa che rischia di andarci pericolosamente vicino. Qualcosa nella società americana ha già cominciato a muoversi e non solo col secessionismo ma anche ddn-blacklivesmattercon le periodiche rivolte dei neri, la mobilitazione dei nativi, la nuova destra, la possibile ripresa del conflitto su i diritti civili, addirittura il ripensamento sull’Internet “total open”  ed altro.

Vedremo se fiumi di dollari ed investimenti, basse tasse e tassi alti la acquieteranno. Time ha eletto Trump “2016, Person of the Year” mettendo in copertina un “Divided States of America” volendo segnare appunto quanto l’America sia divisa: tra evangelici e post-genderisti, tra globalisti e protezionisti, tra costa e interno, tra città e campagna, tra etnie, tra classi, tra popolo ed élite, industria e finanza, petrolieri ed ecologisti, tra ideologie e credenze, sogni ed aspettative. A Trump quindi, l’onere di ripristinare l’unità del sogno americano ed una sua qual certa perseguibilità. Altrimenti, saluteremo forse la venuta al mondo della Repubblica del Vermont e con lei, di un mondo sempre più inaspettato, in cui l’Impero forse cambierà indirizzo ed a seguire tutta la nostra -sempre critica- attenzione. Non è infatti affatto garantito che la perdita  della pur tanto criticata “nazione indispensabile” sia la nascita di un mondo migliore, certe strutture sono più longeve dei loro interpreti.

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[1] Panarin, tra le altre cose, è un euroasiatista che voleva mandare sotto processo Gorbaciov per tradimento della patria. Per Panarin, la decomposizione potrebbe essere violenta o pacifica rispettivamente su i diversi modelli ex-Jugoslavia, ex-Cecoslovacchia.

[2] Se ne parlò nell’ambito di questo studio sulle tradizione di pensiero in cui ambientare la filosofia di Putin: http://www.sinistrainrete.info/filosofia/5856-pierluigi-fagan-la-filosofia-di-putin.html . Il paragrafo è il penultimo “I cosmisti ed altri”, prima della Conclusioni.

[3] Invero alcuni se ne andarono, in Galles, in Cornovaglia, in Bretagna e soprattutto Irlanda ma i più rimasero. Gli anglo-sassoni che erano cattivissimi ma non tantissimi, divennero l’élite da cui origina l’aristocrazia terriera inglese. Tutta l’aristocrazia europea è di origine barbara e quindi terriera perché per i semi-nomadi, la terra fu ciò che li trasformò portandoli al concetto di potere stanziale, cioè territoriale. In Inghilterra, questa partizione terriera, prese le forme poi delle contee. Sulle radici sociopatiche dell’ideologia liberale che ha forti radici anglosassoni scrivemmo qui.

[4] L’aver usato come unità metodologica unica la classe, ha portato Marx a non leggere il fatto che il capitalismo è un sistema dei popoli del Nord. I popoli del Nord poi hanno dominato il mondo (si vedano i nessi tra capitalismo ed imperialismo da Hobson a Lenin) e il capitalismo è diventato una Internazionale delle borghesie. A questa Internazionale della borghesia egli volle opporre una Internazionale del proletariato ma oggi molti si domandano se l’antidoto di questa vocazione globalista non sia invece lo Stato. Chissà se sulla lettura del sistema che ne diede Marx influì il fatto che egli stesso fosse dei popoli del Nord. Di Marx, abbiamo anche una acuta descrizione dei germani in Forme economiche pre-capitalistiche che fa parte dei Grundrisse.

[5] R. Wilkinson, K. Pickett, La misura dell’anima, Feltrinelli, Milano, 2009. Il fatto che il duo anglosassone in questione come anche certo comunitarismo (Taylor, Sandel, MacIntyre) abbia ampie radici anglosassoni, che ci siano sociologi come Sennet, così come il fatto che a gli albori della storia che porterà al capitalismo ottocentesco vi fossero fermenti democratici, che il pensiero anarchico origini inaspettatamente da un inglese (Godwin), così come il movimento cooperativo (Owen), dice come la storia culturale sia complessa  ed intrecciata. Non è questo il luogo ma si potrebbe derivare una radice della democrazia proprio da quello stesso individualismo clanico delle origini, ad esempio seguendo l’antica forma di democrazia vichinga ma ne parleremo un’altra volta. Del resto le famose enclosures inglese vennero fatte sul precedente bene comune che in inglese è il longevo concetto di common – wealth.

[6] Tra cui B.R. Barber, Saskia Sassen e da ultimo il geopolitico Parag Khanna di cui il recente: Connectography, Fazi editore, Roma, 2016

[7] Ne abbiamo cominciato a parlare qui.

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Informazioni su pierluigi fagan

64 anni, sposato con: http://artforhousewives.wordpress.com/, due figli, un gatto. Professionista ed imprenditore per 23 anni. Negli ultimi venti anni ritirato a "confuciana" "vita di studio", svolge attività di ricerca da indipendente. Il tema del blog è la complessità, nella sua accezione più ampia: sociale, economica, politica e geopolitica, culturale e soprattutto filosofica. Nel 2017 ha pubblicato il libro: Verso un mondo multipolare, Fazi editore. Ogni tanto commenta notizie di politica internazionale su i principali media (Rai3, la7, Rai RadioTre Mondo, Radio Blackout ed altre) oltre ad esser ripubblicato su diverse testate on line. Fa parte dello staff che organizza l'annuale Festival della Complessità. Tiene regolarmente conferenze su i suoi temi di studio. Nel 2021 è uscito un suo contributo nel libro collettivo "Dopo il neoliberalismo. Indagine collettiva sul futuro" a cura di Carlo Formenti, Meltemi Editore.
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6 risposte a STATI DIVISI D’AMERICA.

  1. Nino Salamone ha detto:

    Mah… L’ipotesi di Panarin mi sembra alquanto peregrina. Non perché non esitano motivi di divisione e conflitto dentro il melting pot statunitense, ma perché l’ipotesi non tiene conto dei motivi di coesione che fanno parte dell’essere “americani”. Proviamo a sintetizzarli partendo da un Nordamerica diviso – in un futuro non determinato – in un certo numero di stati sovrani. Niente più Tanks Giving Day, niente più “Città sulla collina”, niente più Jonny Pineapple, le torte di mele e il tacchino farcito, niente più Hollywood, niente più messaggi planetari da diffondere (e da fare accettare per amore o per forza), niente più Pentagono e CIA, niente più Statua della Libertà con la sua fiaccola che illumina fedeli e reprobi, niente più quello stile di vita/visione del mondo che accomuna il miliardario al pezzente (e generalmente il secondo ammira il primo…).
    Un prezzo troppo alto, perché gli “americani” saranno individualisti fino alle midolla, ma sono, appunto “americani”, quale che sia il colore della loro pelle, l’origine etnica o i gusti alimentari. È l’ “americanità”, e nel suo nome – e non certo per la libertà dei neri – Lincoln affrontò e vinse una guerra civile senza badare ai costi, consistessero pure nella distruzione del Sud da Atlanta al golfo del Messico (vedi Sherman). Roosevelt, Kennedy, Goldwater, Johnson, Trump, Obama (un nero) Ted Cruz (un ispanico), Sanders …: divisi su tutto, ma non sulla profondità del proprio essere “americani”, di far parte del “Paese di Dio” (In God we trust, sta scritto sul dollaro) e sulla convinzione di costituire l’unico contesto in cui è bello venire al mondo e vivere, nonostante tutto. Ancora nel nostro secolo, in fondo, sono gli altri che vanno in “America”, e comunque sia gli “americani” restano dove sono (questo non riguarda, naturalmente, le truppe imperiali).
    Certo, il mondo è in movimento (non da ora, comunque) e tutto può accadere, ma prima che il declino si trasformi eventualmente in tracollo, immagino che gli “Americani” preferirebbero affondare con tutto il pianeta in un mare di radiazioni atomiche piuttosto che rinunciare alla loro Città sulla collina. In fondo, sarebbe stato il pianeta a non essere degno di loro e del loro messaggio, e se lo sarebbe quindi meritato. Sotto sotto – anche se devo dire onestamente che non si esprimono in questi termini – i parecchi che conosco la pensano così.
    Naturalmente posso sbagliare, e allora, caro Fagan, considera queste affrettate note come semplici intuizioni fondate su impressioni (comunque non hanno alcuna pretesa scientifica). Uno scherzo…

    • pierluigi fagan ha detto:

      No, invece le prendo sul serio e ti ringrazio. Ci stanno tutte le considerazioni che hai fatto. In realtà, ho preso Panarin per un percorso di veloce lettura sullo stato dell’Unione non nel senso del sistema federale ma nel senso del fare un punto sulla traiettoria americana. Andiamo però incontro a tempi nuovi, inediti io credo e ci sta anche il fermento secessionista sebbene magari non diventerà mai una cosa veramente seria. Il punto è come reagirà quel sistema che ha goduto di eccezionali condizioni di possibilità nella sua pur breve storia, ad una lenta contrazione di potenza, quali fratture, quali riconfigurazioni sistemiche. E sopratutto, tutto ciò come reagirà se la transizione avrà qualche scalino quantico. L’aggressione esterna è la risposta più ovvia, certo ma magari ce ne potrebbe essere anche una meno ovvia, chissà. Son tempo belli da leggere, anche se forse meno da vivere.Alla prossima …

  2. Jean ha detto:

    Ottima analisi, la leggo sempre con piacere, sono d’accordo con il quadro generale esposto, d’altronde anche altri “pensatori” arrivano alla stessa conclusione, anche se via altri studi e parametri, vedi Todd ad esempio: https://it.wikipedia.org/wiki/Emmanuel_Todd

    Saluti e Buone Feste

    • pierluigi fagan ha detto:

      Grazie. Conosco ed apprezzo E. Todd. Dicono che già “ci prese” con l’URSS e le Primavere arabe, ma forse è una semplificazione giornalistica. Riguardo il Maghreb fece analisi demografiche che portavano con ampia probabilità a rotture di quadri, il che non è esattamente una previsione delle Primavere arabe, è meglio. E’ cioè lettura delle complesse matrici causali dei fenomeni ma si fa fatica a far passare ragionamenti aperti di tipo complesso, ci vuole la “profezia” con data, ora e luogo. Mah …

  3. pierluigi fagan ha detto:

    Riporto un commento interessante apparso su sinistrainrete, un commento su cui vorrei poi fare un discorso: ‘L’aver usato come unità metodologica unica la classe, ha portato Marx a non leggere il fatto che il capitalismo è un sistema dei popoli del Nord. I popoli del Nord poi hanno dominato il mondo (si vedano i nessi tra capitalismo ed imperialismo da Hobson a Lenin) e il capitalismo è diventato una Internazionale delle borghesie.

    Ma prima di tutto il capitalismo, per Marx, e’ un modo di produzione, che genera due classi sociali antagoniste, integrate in un sistema (pur se istanziato, forse, presso i popoli – ‘popoli’?! – del Nord.)

    Cioe’, va oltre la sua genesi particolaristica, tant’e’ che internazionalizzandosi diventa il paradigma di una nuova socializzazione, e quindi di una nuova chiave di lettura, come Fagan stesso riconosce.

    La Classe e non lo Stato, l’emergenza di Nuovi Modi di Produzione e non la Soggettivita’ Politica, la Causa e non l’Effetto, sono le fondamentali chiavi di lettura che ci ha lasciato in dote l’impostazione marxiana. La geopolitica, l’antropologia, e i popoli del Nord: condizioni contingenti ma non sostanziali, necessarie ma non sufficienti, aspetti d’intensita’ (Deleuze) ma non in se stessi cambiamento di stato, emergenza, creazione. (l’Autore è in pseudonimo – Carbonetto)

    • pierluigi fagan ha detto:

      La distinzione tra cause necessarie e sufficienti tende a questa analisi per “fondamentali chiavi di lettura”. Ma cosa è fondamentale, relativo ai fondamenti, in un sistema? Per trovare i fondamenti di un sistema occorre leggere sia la sua struttura interna (le due classi sociali antagoniste ma integrate ma anche molto altro) sia quella esterna (le condizioni di possibilità di quel sistema, la sua dipendenza dal contesto). Le necessarie non fanno il fenomeno, le sufficienti lo fanno ma solo se sono assicurate le necessarie, quindi? Quindi “sostanziale” è solo ciò che ha materia (necessarie) e forma (sufficienti) ed andrebbero lette nella loro sincronia. Il fondamento è una relazione tra tutte le cause ed una classifica delle cause, in termini di più o meno fondamentale, non credo aiuti la comprensione. Non abbiamo a che fare con una piramide di cause ma con una sfera. La Rivoluzione industriale britannica, senza lo Stato britannico, semplicemente non sarebbe mai apparsa quindi perché vi sia emergenza, sono necessarie tutte le parti e tutte le loro interrelazioni, dato un certo contesto. Secondo Pomeranz, ad esempio, senza le miniere carbonifere, di nuovo, non ci sarebbe stata alcuna Rivoluzione industriale. Sistema delle classi antagoniste-integrate, Bank of England, marina militare britannica, Royal Society, proletariato risucchiato dalle campagne (su cui applicare leggi dello Stato, tipo enclosures), logistica interna che ha permesso la navigazione dei fiumi e la fioritura dei mille porti, aver “comprato” il consenso all’unificazione dei clan scozzesi per fare massa, mentalità ed etica protestante, colonie non generiche ma specificatamente indiane ovvero la madre di tutte le piante di cotone del tempo, la legge su i calicò, acqua corrente e carbone nella stessa zona geografica e tutto il resto, sono un sistema in cui tutto è necessario ma nulla è sufficiente. “Quel” sistema, ha origine e non poteva, a mio avviso, in altro modo aver origine se non presso quel specifico contesto ed è “istanziato” da tutti i suoi fattori componenti. Infine, dalla nascita delle società complesse ad oggi, tutti questi sistemi si sono organizzati secondo la partizione Pochi vs Molti che è da sempre antagonista. Quanto all’integrazione, nel “capitalismo” c’è sicuramente più integrazione ma anche tutte le altra forme hanno avuto la loro funzionalizzazione che ne ha dato l’integrazione. Altrimenti, semplicemente, non sarebbero esistite in quanto “società”.

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