DALL’ERA MODERNA A QUELLA COMPLESSA. Transizione dalla logica del dominio a quella del condominio. (2/2)

La Prima parte di questo articolo (qui) ha argomentato su quella che sembra una potente transizione storica nella quale ci è toccato in sorte di vivere. Essendo all’inizio di una transizione in cui ad un mondo nuovo corrispondono ancora istituzioni umane e forme di pensiero provenienti dal periodo precedente, si palesano seri rischi adattivi.   

4. NUOVO PENSIERO: IL COMPLESSO.  In questi settanta anni, nel mondo dei pensieri, nasce anche un nuovo modo di pensare le cose, quella che chiamiamo “cultura complessa”. La sua doppia origine ha radici nel pensiero biologico che è la disciplina elettiva del concetto di complessità sin dai tempi del biologo-filosofo Aristotele ed in quello tecno-scientifico. La prima radice si chiamerà Teoria dei Sistemi e viene piantata da un austriaco poi migrato in Canada, Ludwig von Bertalanffy, la seconda radice si chiamerà Cibernetica e verrà coltivata da un fisico-matematico americano di origine tedesca, Norbert Wiener. La prima origine ha una tradizione lunga che retrocede nella cultura tedesca post e pre romantica ( da Hegel a Meinong, alla Gestalt, qualcosa addirittura in Nietzsche ma anche nella Scuola di Vienna), ma anche nell’architettonica kantiana e prima in Leibniz, nello logica di Duns Scoto e prima, per certe intuizioni non sviluppate, nello stesso Aristotele, previo passaggio in Plotino ed altro pensiero neo-platonico. Nella cultura francese ha radice in Bergson. Nella cultura anglosassone ha radici in Alexander, Bradley, Broad e poi in A. N. Whitehead e Randall. Nella cultura russa ha varie radici, tra cui la sophia di Soloviev, il geochimico Vernadskij, l’economista Kondratiev e molti altri. C’è anche una radice teologica nel gesuita francese Teilhard de Chardin che ha ispirato fortemente, la recente enciclica di papa Francesco “Laudato sì”.

La seconda è una miniera di intuizioni dinamiche che contagerà l’antropo-socio-psicologo Gregory Bateson ed un consesso di studiosi della mente (Maturana, Varela ed altri), primi teorici dell’informazione (Shannon, Weaver), epistemologi (von Foerster), matematico-informatici (il poliedrico ed inquietante von Neumann, colui che convinta la Marina militare degli Stati Uniti a dargli una vagonata di dollari, realizzerà materialmente ciò che Alan Turing aveva solo immaginato: il computer; ma anche il teorico, con O. Morgenstern, della Teoria dei giochi a cui tanto si riferiscono sia il pensiero economico che quello delle relazioni internazionali), neurofisiologi, psichiatri e psicologi e parecchi altri. In maniera meno nitida, vi sono altre significative anticipazioni di queste forme di pensiero che possono trovarsi in vari luoghi, tra cui una precisa tendenza del pensiero russo nei confronti dei sistemi dinamici (si veda la tectologia del marxista Bogdanov).

Dalla prima generazione dei sistemico-cibernetici diparte un sempre più vasto albero che ha incluso molti fisici (l’elenco è troppo lungo da riportare ma diciamo che si va dallo scopritore dei quark, Murray Gell-Man alla cosmologia quantistica di Lee Smolin, ai nostri Parisi e Rovelli), chimici (che assieme alla biologia è disciplina elettiva per lo sguardo complesso) tra cui spicca Ilya Prigogine, la maggioranza dei biologi che sono “sistemici” per definizione (Margulis ma l’elenco è ampio) così come gli ecologi (l’olista Lovelock e la sua Gaia ed il matematico-meteorologo E. N. Lorenz a cui si deve la nota metafora dell’effetto farfalla), gli scienziati della intelligenza artificiale (la “famigerata” Artificial Intelligence deriva l’origine proprio dalla cibernetica), gli psicologi da Piaget in poi, gli scienziati della mente (Edelman, Damasio, Luria) i sociologi dai funzionalisti sistemici a Niklas Luhmann, gli antropologi che con lo strutturalismo avevano impostato la griglia interpretativa sul concetto di –struttura– che è figlio del tic francese di rinominare i concetti non francesi che nel qual caso era il concetto di sistema nel Corso di Linguistica generale del francofono svizzero De Saussure, i paleontologi (Gould, Eldredge) gli archeologi, i linguisti, gli storici (elenco anche qui ampio ed in via di ampliamento dalla scuola sistemica di Wallerstein che eredita il lascito di Braudel, alla World history[1]) ed altri che saltiamo per necessità di contenimento non prima di aver segnalato la piena sensibilità e sintonia di molti matematici (problema dei tre corpi, frattali, teoria del caos e delle catastrofi, teoria delle reti, topologia, turbolenze) che addirittura hanno anticipato alcune forme di questo pensiero (Poincaré, scuola russa tra cui Ljapunov, Kolmogorov) e dei logici (ad esempio fuzzy logic, logica abduttiva, cigni neri e limiti dell’induzione  etc.).

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All’appello mancano due discipline che resistono per certi versi allo sviluppo per contagio delle idee, una è l’economia, l’altra è “stranamente” la filosofia. In filosofia, come sempre, il discorso sarebbe lungo e complicato, in breve si segnala il solo E. Morin che di origine è un sociologo, il quale occupa quasi in solitario, la posizione di “filosofo della complessità” con esisti senz’altro interessanti sebbene non così profondamente “filosofici” come la disciplina ha in uso nel sviluppare il proprio canone. La reticenza a questo specifico sviluppo del concetto di complessità, in filosofia, forse potrebbe esser spiegata col fatto che il concetto di complessità deposiziona un po’ l’intera tradizione di pensiero occidentale che non va intesa solo come “moderna” ma ha fondazioni decisive nel pensiero di Platone, nella interpretazione cristiano-medioevale di Aristotele ed in quella latino-neoplatonica del cristianesimo originario. La triade Uno – Semplice – Assoluto oltre ad un certo “fissismo” della tradizione non solo metafisica, è simmetricamente parallela e contraria a quella del Molteplice – Complesso –  Relativo  tendenzialmente “dinamico” che anima il nuovo paradigma complesso. Se “dinamico” era Eraclito e “relativo” era Protagora ben si nota come le radici siano alternative a gli sforzi fondativi del pensiero parmenideo-platonico mentre con Aristotele il problema è più complicato dipendendo certo dal residuo platonismo dello stagirita ma anche molto dalla interpretazione e ricezione medioevale del suo pensiero. Così, di una filosofia del Molteplice si rinvengono tracce molto incerte prima di arrivare a qualcosa di più chiaro (?) come si esprime in Deleuze, Simondon e parzialmente in altri francesi mentre di una filosofia della relazione e dei sistemi si potrebbe trovare porto in Kant ma non nei sensi in cui è di solito interpretato. Non a caso, Morin, rimane in fondo confinato nell’epistemologia (l’epistemologia della complessità è stata poi l’area più sviluppata, anche da altri) ovvero nella filosofia della scienza poiché la scienza, staccatasi dalla tradizione metafisica (anche se non del tutto) ed essendo una forma di pensiero relativamente più recente, ha meno vincoli nel suo a priori. E comunque anche qui, tra determinismo e riduzionismo, non tutto fila liscio visto il lungo dominio del paradigma platonico – newtoniano.

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In economia, il discorso è più facile. Il pensiero economico originario in Smith e Marx poteva certo sviluppare una propria successiva stagione complessa (per Marx si veda Bogdanov) ma giunto giovane all’impatto col delirio positivista, sradicata la desinenza politica (da economia politica ad economics), sposata la matematizzazione galileiana a costo di ignorare fatti e fenomeni non matematizzabili, sposato il più rigido riduzionismo e determinismo che in forme così primitive ormai non si praticano più neanche nella più remota provincia dell’impresa scientifica, ignara della termodinamica nonché dell’indeterminazione quantistica ma anche della relatività spazio-temporale, ignorata bellamente la “scuola del sospetto” e tutto il successivo indebolimento del razionalismo neo-positivista, postulando la “scelta razionale” dell’individuo robinsoniano, contraendo il fenomeno sociale all’individualismo metodologico, ipostatizzato il sistema economico anglosassone come modello idealtipico in spregio ad ogni considerazione di buonsenso sulla relatività dei contesti spazio-temporali, sostenendo una ”negazione nevrotica” della relazione tra Stato e mercato, isolando il sistema economico dall’incarnato storico-sociale ma anche dalla realtà fisica e termodinamica in cui è oggettivamente immerso, ampiamente idealizzato il principio di autorganizzazione della “mano invisibile”, si è chiusa in un esercizio sacerdotale che salmodia le disposizioni necessarie a giustificare le prassi politico-economiche dominanti, trasformandosi in una teologia che, come ogni teologia, presuppone pure l’esclusività sul Sacro Gaal del pensare occidentale: la Verità (di sua natura Assoluta). Ha le sue sacche di resistenza, come la bioeconomia e l’economia evolutiva che sono figlie dell’albero del complesso, ma trattasi di riserve indiane, limitate ed assediate. Addirittura un suo canonico come Keynes, già mainstream nel dopoguerra, è diventato oggi eterodosso. Il guaio del pensiero economico è che è diventato la teologia del sistema reale con il quale organizziamo il mondo e così come il marxismo primo-novecentesco per l’URSS ed i partiti e movimenti comunisti in lotta politica in Occidente, quando il pensiero è direttamente connesso alle strutture del mondo reale ed ha responsabilità di ordinare o giustificare fatti concreti di grande importanza in cui si concentrano interessi duri, perde molto della sua libertà e diventa anelastico e dogmatico.

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5. I CONCETTI DEL COMPLESSO. Il sistema di pensiero del complesso, in breve, si fonda su una ontologia di parti plurali che tendono ad interrellarsi in sistemi e sistemi di sistemi. Un sistema non è mai completamente aperto altrimenti non avrebbe la sua stessa consistenza, non è mai del tutto chiuso come una monade leibniziana. Ogni ente è un sistema e ogni sistema è fatto di relazioni. Quindi l’essere è relazione. Questi sistemi hanno limiti spaziali e temporali (nascono e muoiono) e nella loro danza reciproca all’interno di un ambiente/contesto che al contempo li determina e ne è determinato, danno vita al divenire di ciò che è, cercando l’adattamento e con esso le condizioni di possibilità per continuare ad esistere, il più a lungo ed al meglio possibile, autorganizzandosi. Le interrelazioni tra parti dei sistemi e quelle tra sistemi, sono a corto e lungo raggio e producono effetti non lineari, fanno emergere nuove strutture non riducibili alle componenti che han dato loro vita (emergenza) e spesso sono retroflesse ovvero basate su feedback. I feedback sono a volte potenzianti anche in forme geometriche, a volte de-potenzianti e quindi stabilizzanti come nell’omeostasi. C’è molto poco di preciso e meccanico in questo “complesso” e l’intero non è riducibile alle sue singole parti. Il “complesso” si colloca oltre il determinismo e naturalmente il riduzionismo ma anche oltre l’olismo, ha l’ambizione di comprendere il suo funzionamento sia nelle sue parti che nel suo intero, sia del suo interno che del suo esterno. Non si accontenta  di notare che il Tutto è Uno, né s’illude che l’Uno sia Tutto.  Il sistema di pensiero del complesso, guarda con sospetto l’ipostatizzazione delle dicotomie[2], sa che in ciò che osserva più che “leggi” troverà tendenze, sa che nell’oggettivo c’è molto -ineliminabile- soggettivo, l’osservazione stessa modifica l’osservato. Tendenzialmente, il complesso sa che il pensiero è sotto determinato rispetto alla natura di ciò che ha in oggetto. Soprattutto, avendo in oggetto cose intere, ed a scalare verso l’alto l’intero di tutti gli interi, ricorre a tutti gli sguardi umani, tutte le discipline in cui è frantumato il nostro sguardo sul mondo. Nel mondo, le cose son tutte sincronicamente presenti e tutte assieme procedono nel cambiamento che dà la diacronia, cioè il tempo. Così, uno sguardo che non sia interdisciplinare e storico, non adegua l’intelletto alla cosa. Nel politico del complesso, non ci sono individui ciechi della loro natura sociale e non ci sono società cieche agli individui che le compongono, non c’è solo un dato popolo ed il suo Spirito ma anche gli altri che compongono l’avventura umana e l’avventura umana non è sospesa nell’universo liscio delle idee ma si muove nel mondo screpolato degli attriti naturali. L’Uno che è il sistema ed il Molteplice che lo compone e che lo accerchia, sono entità coimplicate nella stessa “cosa”[3].

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6. LA REAZIONE ALLA CRISI ADATTIVA. Come si sarà capito, essendo proprio a gli inizi di una nuova era, concetti ed interpretazioni non si sono ancora stratificati e diffusi ed è quindi necessario premetterli anche se in assai poco complessa e forse difficilmente comprensibile sintesi. Le prime intuizioni sistematiche del concetto di complessità sono a cavallo tra XIX e XX secolo e le seconde più nitide, degli anni ’50-’60. Da allora, il pensiero complesso è cresciuto prima a cespuglio, poi a foresta. L’idea di Hegel del tempo appreso nel pensiero, suggerisce il fatto che ci siamo accorti che le cose sono complesse, proprio nel mentre queste si manifestavano tali, più che non in passato.

Quello che ci appare oggi è un mondo nuovo e complesso ed istituzioni strutturali e sovrastrutturali dell’era precedente, quindi un disallineamento che dà il senso di disadattamento. Il disadattamento prende forma di crisi, tutti i sistemi vanno in crisi, la crisi sembra ontologica e non periodica, non si vedono comprensioni in grado di analizzarla e prognosticarla. Al cambio di era infatti, la prima deficienza di pensiero che si nota è nel metodo come ebbe a sottolineare la volta scorsa Cartesio. Intuizioni complesse sembrano emergere qui e lì in varie discipline ma i vecchi paradigmi fanno resistenza tenace, per dirla alla Lakatos, il “nucleo” del programma di ricerca moderno, resiste al cambiamento e dopo aver sacrificato il contorno con le “ipotesi ausiliarie”, si irrigidisce sempre di più. La compiuta divisione del lavoro intellettuale che mima quella della fabbrica degli spilli di Adam Smith, esalta cieche specializzazioni sempre più decontestualizzate che non producono com-prensione. Soprattutto, al sistema divisionalizzato ed iperspecializzato del sapere umano, soggiogato all’imposizione della sua impossibile quantificazione ed “oggettiva” valutazione, finalizzato a produrre “valore” per il mondo degli scambi economici, sfugge per principio ciò che è l’intero, la sua critica transizione, il complesso movimento tra le parti ed i riaggiustamenti interni alla ricerca di nuovi equilibri, dettati dalle nuove condizioni di mondo. E’ certo che un pensiero “dipendente” dal mondo che sino a qui è stato (ma non è più) non ha la libertà di rincorrere il nuovo. Così la ricomparsa di grandi dogmatiche, rigidità, semplificazioni infantili, una certa inconcludente aggressività e rissosità (in cui i social network con i loro format sincopati e la mancanza di comunicazione di contesto, sono moltiplicatori di disordine epistemico) ed una vasta produzione di pensiero impalpabile e sempre più “formale”. Con il post-moderno, addirittura si è postulata la rinuncia alla comprensione globale e ci si è rifugiati nel naufragio nel frammento. Certo è che se uno dei nuclei del problema è il non poter più produrre valore economico incrementale nei modi e quantità di recente tradizione, non è un sistema di pensiero tarato sull’imperativo del produrre valore incrementale che aiuterà a risolvere il problema.

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Così, invece che aprire una stagione di ripensamenti del nostro modo di stare al mondo, la foga accumulatoria che non sa più dove aspirare sostanze rifiutandosi almeno un minimo di ridistribuirle, una ricchezza dei pochissimi che sostituisce lavoratori, cioè futuri acquirenti, con robot,  diventa paradossale. Ciò che era il motore ordinatore del precedente sistema, ora diventa il suo primo disordinatore. Forse sfugge che il cosiddetto “neo-liberismo” che è il sistema di idee dominante il pensiero economico così egemone sul nostro odierno pensiero generale, è un pensiero disperato. Solo premettendo che le cose non vanno più tanto bene come prima si comprende questa estremizzazione di tutti i dettami della vecchia economia neo-classica che era già liberale per sua, ottocentesca costituzione. Il neo-liberismo sta al pensiero liberale come l’Inquisizione stava al precedente indiscusso dominio del pensiero religioso. Questi irrigidimenti e totalitarismi teorici, annunciano sempre la loro morte, la loro improvvisa e tardiva ortodossia, il loro rigore, è sempre l’annuncio del prossimo, definitivo, “rigor mortis”.

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Così, invece che concentrarci su i ripensamenti del nostro stare la mondo, includendo un nuovo atteggiamento convivente nel condominio planetario, si gonfia a dismisura la volontà di potenza statunitense. L’ultimo disperato paper di uno dei più “nuovi” think tank di Washington[4] che, visto l’accerchiamento di dissenso interno ormai maggioritario negli stessi Stati Uniti ha dovuto fondere neo-con repubblicani con neo-con/neo-lib democratici in un nuovo afflato unitario “bi-partisan”, titola su come “estendere” il potere americano sul mondo. Estendere? Come si può seriamente porre l’obiettivo di una sempre maggior estensione quando nei fatti si è dentro un movimento di contrazione? Chissà, forse anche nei think tank romani di fine impero, si cercava con le parole di rimuovere la realtà. Poi ci pensarono i barbari a far presente che era finita, per sempre.

L’intera impresa del pensiero a dominio scientifico, dandosi come “metodo” la quantificazione delle citazioni e la peer review, la ricerca a cui è chiesto in anticipo di sapere cosa scoprirà  prima di dargli credito finanziario, sono chiuse in circoli di continua auto-conferma. Sono cioè diventati sistemi che escludono l’innovazione di paradigma per principio, sono sistemi conservativi che riproducono il già noto come se fossimo in periodi di grande stabilità. La dittatura della certezza che impera nell’insegnamento a stile anglosassone che è poi quello dominante, esclude in via di principio il complesso, il critico, il non previsto.  L’inquietante progressiva espulsione degli studi umanistici e del pensiero filosofico e dello storico in particolare, dai corsi d’insegnamento, preannuncia l’inizio di una paurosa notte della ragione e dell’intelligenza. Sembra che per glorificare la società aperta, si debbano prima chiudere le menti.

Così, le pseudo-democrazie occidentali, diventano sempre più elitiste ed oligarchiche. Reclamano di dover avere “più potere per fare le cose” ma l’oggetto del mandato richiesto è sempre più contro-intuitivo: c’è crisi del lavoro? Lavorate di più e guadagnate di meno! C’è crisi nel welfare stante sempre più disoccupati, migranti, anziani di lungo corso e malferma salute? Tagliamo gli investimenti in welfare! C’è crisi di comprensione? Meno discussione e più azione! L’opinione pubblica media è sempre più aliena e confusa? Votiamo di meno e chiamiamo più tecnici, loro si che sanno cosa fare (?)! Secondo questa logica, l’adattamento è mantenere il sistema sacrificando le parti quando in natura sono le parti che usano i sistemi per adattarsi meglio. Se un sistema dà segni di mal-adattamento va cambiato il sistema, non le parti.

Insomma, Disordine chiama Ordine ma Ordine non sa più come pettinare il Disordine e strappa la capigliatura, più nodi incontra, più fa forza.  Più non sa più cosa fare per adattarsi al nuovo, più fa quello che ha sempre fatto ma con molta più decisione e progressiva disperazione. La mosca non sa come uscire dalla bottiglia e sbatte la testa sempre più forte contro l’invisibile parete di ciò che non comprende: il limite[5]. Quando una civiltà nata dall’Hybris incontra Limite, la civiltà nata da Hybris è morta.

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7. DAL MODERNO AL COMPLESSO. Nel moderno, è cambiato l’atteggiamento tra Io e mondo L’Io ha preteso una certa sovranità su se stesso e sul mondo e la relazione si è invertita da passiva ad attiva. Il senso profondo del moderno, ciò che lo ha distinto dal medioevo, è stato primariamente questo senso “attivo”, un Io che ha rivendicato la sua propria proprietà, prima con l’umanesimo, poi col razionalismo, poi con l’illuminismo, con lo sviluppo di una sostenuta poietica che ha sviluppato tecnica prima e scienza poi al fine di emanciparsi dalla cieca dipendenza dalla natura, invertendo la relazione Io – Mondo da passiva ad attiva.  L’epoca del fare ha fondato, successivamente, il regolamento sociale centrato sull’economico e l’economico ha sancito nuove interpretazioni del principio di gerarchia, quelle interne alla singole società, quelle tra i diversi stati e civiltà. Il macchinismo non solo leonardesco anticipò la “rivoluzione industriosa” (Jean de Vries, 1994) del XVI-XVII secolo che anticipò quella industriale del XIX secolo. Economico, tecnica, scienza, atteggiamento pratico – pragmatico sono stati portati a paradigma dai popoli dominanti, gli anglosassoni, i quali hanno ulteriormente sviluppato la propria vis bellica, contro la natura e contro gli altri popoli, dando al senso attivo, il carattere della volontà di potenza: il dominio[6]. L’immagine di mondo pratico-pragmatica, coadiuvata da scienza e tecnica, ha ordinato l’agire  nel senso sia di avergli dato ordine, procedura e fini, sia di avergli imposto (ordinato) tempi e modi dell’ agire. Questo “modo”, il modo moderno, è oggetto di critica o di esaltazione, cioè di giudizio di adeguazione tra realtà e nostra immagine di mondo ma oggi si pone un problema di natura ben diversa. Si pone il problema del giudizio di possibilità, se cioè è possibile prorogare questo modo nel nuovo contesto che è il mondo di oggi e dell’immediato futuro. Tutte le possibili letture della realtà, se condotte onestamente, ci pare dicano di no. Non ci è chiesto cioè se “ci piace” o “non ci piace”, se lo si ritenga “giusto” o “ingiusto ma funzionale”, si pone il problema “è possibile?”. Ecco, non sembra più possibile.

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L’era complessa, ci pone un senso ben diverso. Il senso profondo del complesso è l’ adatt-attivo, un senso che pone l’agire alla fine di un processo di precedente pensiero che ha un preciso fine. L’essere attivo non è ciecamente mosso solo dall’interno del nostro mondo dei bisogni ma cerca l’adatto perché fuori di noi, c’è Altro ed Altri, ogni azione provoca una reazione, treni di effetti non lineari si attivano ad ogni nostra perturbazione di ciò in cui noi stessi siamo immersi e dipendenti[7] ed in un sistema denso ogni nostra azione è potenzialmente una perturbazione. Dopo aver preso coscienza di sé ed aver coartato il mondo alla propria sovranità, l’Io dovrà imparare a riconoscere la relazione[8], la relazione tra sé e mondo, tra un sé e gli altri sé, le relazioni che lo compongono e quelle che compongono il mondo. L’atteggiamento di dominio, dovrà far posto a quello da con-dominio, la volontà di potenza dovrà far posto alla capacità di con-vivenza, più che “potere infinito” si dovrà “gestire entro i limiti”. L’agire dovrà quindi esser premesso dal pensiero, dalla strategia e dalla valutazione di possibilità, compatibilità, opportunità e responsabilità, dalla più ampia condivisione dei rischi e delle opportunità. Questo pensiero dovrà avere due caratteristiche principali. Così come non c’è un solo Io che agisce ciecamente dominato dalla sua volontà di potenza, non c’è un solo pensiero che può ordinare l’agire. L’Io, il mondo, la loro relazione, vanno com-prese dal pensiero ed il pensiero dovrà sforzarsi di superare i propri limiti che lo fanno tendere alla semplificazione.

Questo pensiero va comunicato e contrattato con quello degli altri Io in una “democrazia dei pensanti”. L’adattamento al mondo e quello tra gli Io tanto individuali che sociali che culturali e politici, presuppone questa azione prima pensata e contrattata altrimenti non ci sarà alcuna con-vivenza e se non ci sarà con-vivenza ci sarà il fallimento dell’adattamento e la doppia, tremenda, sanzione prima socio-storica, poi naturale: guerre civili e  guerra tra popoli prima, estinzioni di massa[9], poi.

Sottolineiamo di nuovo che questa indicazione non sembra provenire da un unilaterale preferenza etica o politica o antropologica, sembra provenire da una lettura realistica delle condizioni di ciò a cui dobbiamo adattarci: un mondo finito che ospita prossimi 10 miliardi di individui, cresciuti tanto in brevissimo tempo dentro un contenitore finito, che ragionano ancora come se intorno a loro non ci fossero limiti, limiti dati da Altri e da Altro. In questo contesto, il contesto in cui ci avviamo volenti o nolenti ad essere assieme in un unico sistema macroscopico, la competizione diventa un disvalore, la cooperazione diventa l’unica via per tenere assieme, mediando, gli interessi di tutte le parti e dell’intero.

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8. IL COMPLESSO NEL POLITICO Adattarsi ad un nuovo “fuori di noi” e tra i tanti e diversi “noi” esterni ed interni, implica necessariamente una riformulazione profonda del nostro stesso “dentro di noi”, quello sociale e collettivo tanto quanto quello individuale. L’Occidente dovrà prender coscienza della sua diversità interna, l’Europa continentale ha natura, materiale ed immateriale, essenzialmente diversa dalla tradizione anglosassone. Gli occidenti dovranno separarsi perché diverso è il loro destino, le loro opportunità, la loro posizione geo-storica[10]. Gli Stati Uniti d’America sembrano esser i primi a non volersi o potersi render conto della mutazione del mondo. Ogni sistema dominante il cui tempo stava per finire ha sempre mostrato questa incapacità adattiva perché tutta la sua struttura istituzionale e mentale, lo spinge ad essere sempre e solo in quella maniera. L’Europa continentale, dovrà prender coscienza anche della sua irriducibile molteplicità interna e trovare nuove vie tra l’inconcludente idealismo dell’unità irrealizzabile e se forzata, distopica e l’insostenibilità della sua eccessiva frammentazione stato-nazionale figlia di una storia ampiamente terminata come condizione di possibilità.

I vecchi popoli europei, i mediterranei più di altri[11], riconoscendosi in un unico sistema che ha più coerenza interna di quanto non abbia col suo esterno (coerenza data dalla geo-storia) e riconoscendo la necessità di superare la piccola dimensione dello Stato-nazione di taglia europea per meglio contrattare l’adattamento dei nuovi sistemi alla condizione planetaria condivisa, dovrebbero porsi in atteggiamento di dialogo con gli altri popoli e la propria condizione naturale. Dovranno, forse prima di altri, superare l’ordine economico e tornare all’unico ordine che fonda la molteplicità, la relatività, la complessità sociale e permette di sviluppare adattamento condiviso: il politico. La prima e più fondamentale battaglia di chi vuole gestire e non subire la transizione dovrebbe essere la ri-politicizzazione della società.

L’essenza di questo politico in cui i Molti dovranno registrare il proprio agire ai criteri di possibilità, compatibilità, opportunità e responsabilità, vicendevolmente, non potrà altro essere che il democratico, minimizzando il rappresentativo in funzione del diretto[12]. Solo comunità informate ed ordinate sulla necessità di relazioni intelligenti, potranno sviluppare adattamento e sottomettere la volontà di dominio individuale alla più opportuna capacità di convivenza collettiva nel condominio planetario[13]. Di nuovo si segnala, che il democratico diretto non è tanto una nostra preferenza ideologica. Far circolare tutta l’informazione possibile tra tutte le parti, combattendo strenuamente tutte le asimmetrie informative e di potenza che sono quelle che creano le differenze Pochi vs Molti si rende necessario affinché tutte le parti introiettino quel mondo rispetto al quale debbono decidere il modo di abitarlo. Prima di domandarci contro chi e cosa siamo, dovremo domandarci cosa vorremmo e prima ancora cosa sia possibile. Prima che prevalga lo scoramento da impossibilità si comprenda la metrica del tempo storico, stiamo qui parlando dei prossimi decenni non di domattina, sebbene ciò che poi sarà nei prossimi decenni, inizia domattina.

L’attivo del moderno non basta più, deve esser intenzionato dall’adattivo del complesso e questa intenzione, prima di dar forma a nuove istituzioni materiali ed immateriali, dovrà esser quanto più introiettato dagli individui che formano i sistemi. A questo serve il politico, il democratico diretto, a scambiare informazioni, conoscenze, valutazioni e prospettive in seconda e terza persona, ad equalizzare le intenzionalità individuali o dei piccoli gruppi, in una intenzionalità media del “noi”[14] temperata dai limiti posti da Altro e Altri.

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9. TRANSIZIONI DI FASE. Insomma, il mondo è cambiato profondamente e sono necessarie nuove e più adatte istituzioni umane e nuovo e più adatto pensiero per interpretare il mondo e progettare il nostro adattamento ad esso. Nel mentre cerchiamo di sviluppare questo difficile riallineamento, è importante l’atteggiamento.

L’atteggiamento è la precondizione perché questo processo si diffonda e fertilizzi la partecipazione attiva allo sforzo senza il quale la transizione rischia di non andare in porto. I sistemi intellettuali in fase di declino, in genere, accanto a gli irrigidimenti ostinati producono una temperie scettica, necessaria a sviluppare la coscienza critica su ciò dal quale dobbiamo ritirare la credenza per cominciar a far posto a nuove credenze basate su nuovi sistemi. E’ quindi un buon segnale, trovare esercizi di scetticismo diffuso, un atteggiamento di “ripensarla daccapo” senza il quale non usciamo dal vecchio e non c’incamminiamo verso il nuovo. L’esercizio è consigliato a tutti, quelli che hanno dominato e quelli che hanno subito il dominio. Lo stesso fatto che hanno continuato a subire il dominio dovrebbe consigliare loro una profonda revisione dei propri quadri analitici e delle prognosi fatte. In onore al testamento ideale del precursore del pensiero critico-alternativo Karl Marx, occorre tirare un riga di totale e dirci che il mondo non lo abbiamo cambiato e quindi forse l’interpretazione non era giusta e se pure era giusta sul piano astratto non aveva contenuti pratici utili al cambiamento attivo reale. Non è concedendo qualche blanda riforma sulle ipotesi ausiliarie che compiremo questa operazione, è il nucleo che ve messo nel braciere del fuoco critico.

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Ragionando dell’intero, assumendo la civilizzazione occidentale come “nostra” sia che la si abiti nel comodo vertice delle élite, sia che si abiti negli stentati bassifondi della necessitata lotta per la sopravvivenza, la dimensione del cambiamento di mondo che abbiamo tratteggiato non implica solo l’uscita dal moderno, che già di per sé non sarà cosa semplice, ma forse addirittura una rimessa in profonda discussione delle radici del nostro pensiero, le radici greche. I filosofi, poiché è da loro che dipende la custodia dei fondamentali del sistema del pensiero, dovrebbero forse tornare all’Accademia ed al Liceo o nel loro intorno e precedente pre-socratico, e capire se c’è qualche biforcazione[15] nella quale si è presa la strada che dobbiamo cambiare. Noi crediamo che questa biforcazione ci sia stata, in due casi almeno. Il primo fu il rifiuto parmenideo del Molteplice diveniente, rifiuto poi riconfermato e sistematizzato da Platone, il secondo fu il rifiuto platonico dell’essenza relativa di ogni essere. Pensiero classico, greco e romano, medioevale e moderno, non hanno mai provato phileîn, cioè amore, per la democrazia. Il disprezzo per i sofisti che furono il pensiero e lo sviluppo di quelle che oggi chiamiamo “pratiche discorsive” al servizio del dialogo su cui si fondò l’imperfetto tentativo democratico ateniese (e non solo), dice di quanto l’aristocrazia del pensiero detesti la democrazia. La democrazia è un sistema politico sostanzialmente impensato, sino ad oggi. Noi non siamo mai stati “democratici” se non in qualche sbuffo di storia presto coartato dalla più realistica ferrea logica del dominio dei Pochi[16]. Tutti i primi ottomila anni di storia delle umane società complesse, mostrano il dominio di questa logica per la quale nei grandi aggregati umani, a differenza di quanto avveniva nei piccoli, s’impone il dominio dei Pochi. E questi Pochi sono stati maschi, anziani, militari, religiosi, intellettuali, politici, una etnia sull’altra, tutti sistemi che non si sono necessariamente basati sul possesso dei mezzi di produzione per imporsi inizialmente come élite. L’invariante di questi primi ottomila anni di società complesse è proprio la gerarchia fissa. Per esser adattivi nel complesso, si dovrebbe aprire un’era il cui fine di orientamento politico è la costante riduzione di gerarchia fissa[17] in favore di quella variabile.

Coloro che frettolosamente vogliono trarre da questa millenaria invarianza un senso di “legge ferrea” calmino subito la loro patologica ansia alla certezza, non c’è alcuna legge, non c’è ferro nella cose umane (<0,05% della massa umana). Ottomila anni possono sembra tanti a chi ha inventato un dio che s’è fatto vivo duemila anni fa ma la nostra specie di anni ne ha tre milioni e passa. Tra ottantamila o ottocentomila anni, quando i discendenti leggeranno le false certezze dei pensatori ansiosi che, nelle cose umane, hanno postulato leggi di qui e di là, avranno un sorriso di tenera compassione per i limiti mentali dei lontani antenati, come noi lo abbiamo verso i nostri. Forse è questa l’unica legge da tenere a mente.

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10. A CHIUDERE. L’essenza del complesso è una molteplicità di parti tra loro in interrelazione in cui la gerarchia è molto plastica, vaga, sempre in riformulazione e diffusa, dipendente dalle necessità adattive. Parti ed interrelazioni che creano una dinamica, dinamica che pone poi ogni sistema in essere/divenire in relazione adattiva con ciò che gli sta intorno. Dovremmo forse tornare ai nostri antichi bivi e vedere che strada si dipana prendendo la via che gli antichi scartarono. Ripensarla daccapo significa tornare all’origine e, modificando le antiche scelte, vedere che nuova storia si apre, sottrarsi alla dipendenza dal percorso dandoci un nuovo percorso, quindi una indipendenza da ciò che fino ad oggi è stato. Tale indipendenza sembra necessaria per quel salto di mentalità che precede ed accompagna l’innovazione istituzionale, politica, economica, geopolitica dei nostri modi di abitare il mondo,  senza il quale il fallimento adattivo è rischio con molte, troppe, probabilità. Il tempo è poco.

(Fine seconda ed ultima parte, qui la prima parte)

= 0 =

[1] https://pierluigifagan.wordpress.com/2016/01/26/una-nuova-eta-assiale-storia-e-complessita/

[2] https://pierluigifagan.wordpress.com/2013/10/28/logica-della-conoscenza-complessa-12/

[3] Se l’individualismo è sez’altro fondamento del liberalismo e l’organicismo lo è nella visione politica che da Platone arriva a vari tipo di comunitarismo, la concezione politica dell’Uno-Molteplice risale, in parte, ad Aristotele che tendeva a coimplicare le due istanze, poiché questa è in definitiva ed al di là degli estremi in cui si balocca il pensiero astratto, la natura umana, né solo sociale, né solo individuale.

[4] http://www.cnas.org/sites/default/files/publications-pdf/CNASReport-EAP-FINAL.pdf

[5] https://pierluigifagan.wordpress.com/2016/04/07/logica-del-limite-per-una-etica-della-complessita/

[6] https://pierluigifagan.wordpress.com/2013/07/29/la-vita-nasty-short-and-british/

[7] Il passaggio evolutivo più importate tra i precedenti della nostra storia, fu quando la raggiunta maggior dimensione dei gruppi umani, impedì un libero nomadismo ed impose una progressiva stanzialità dalla quale emerse il modo agricolo e successivamente le società gerarchiche e complesse. Così come passammo dalla spensierata caccia e raccolta alla più ragionata agricoltura con esternalizzazione bellica delle contraddizioni, oggi sembra necessario superare questa spensierata esternalizzazione, l’introiezione dei problemi adattivi, la condivisione e contrattazione della soluzioni, la convivenza ed una serie di ragionate auto-limitazioni previa ampia redistribuzione di oneri ed onori. La chiamerei “società corta”. La “società aperta” (Popper) è un concetto impreciso e tautologico, come già detto tutti i sistemi sono né completamente chiusi, né completamente aperti, per definizione. Il problema oggi è restringere la piramidalità delle opportunità, delle conoscenze, della partecipazione, accorciare la scala sociale, compattarsi, unirsi, condividersi.

[8] https://pierluigifagan.wordpress.com/2014/02/18/essere-una-relazione/

[9] Riflessioni sul crollo delle civilizzazioni in una recensione ad un libro dell’archeologo E. H. Cline: https://pierluigifagan.wordpress.com/2015/01/12/complessita-e-crollo-delle-civilizzazioni/

[10] Sulla divergenza degli interessi tra l’Occidente americano e quello europeo: https://pierluigifagan.wordpress.com/2014/10/29/geopolitica-dei-trattati-di-libero-asservimento/ e sulla strategia americana nei confronti dell’Europa: https://pierluigifagan.wordpress.com/2015/11/29/pivot-to-europe-il-piano-che-non-ce-ma-si-vede/

[11] Sulle nuove forme politiche che può darsi l’Europa  https://pierluigifagan.wordpress.com/2015/07/24/tra-leuropa-impossibile-e-la-nazione-impotente-ridefinire-il-progetto-per-i-tempi-a-venire/

[12] Una articolata riflessione su i rapporti tra Tempo e Politica, in particolare per quanto attiene al modo democratico: http://www.sinistrainrete.info/teoria/7173-pierluigi-fagan-tempo-e-politica.html

[13] Riflessione su un’etica del limite che sia adattiva https://pierluigifagan.wordpress.com/2016/04/07/logica-del-limite-per-una-etica-della-complessita/

[14] Sull’intenzionalità del noi: https://pierluigifagan.wordpress.com/2016/06/16/coopero-quindi-sono-racensione-del-libro-di-m-tomasello-unicamente-umani/

[15] Si torni al topos delle due vie che la Dea mostra nel poema Sulla Natura di Parmenide ed alla critica che ne fece Gorgia. Se è discorso che crea la nostra idea di realtà, questo discorso può e deve esser contratto tra tutti, da cui la “democrazia dei pensanti”.

[16] La parte finale del “Sulla rivoluzione” di Hanna Arendt, Einaudi, 2006-2009, il sesto ed ultimo capitolo, ha titolo “La tradizione rivoluzionaria e il suo tesoro perduto”. Questo “tesoro perduto” è la collezione dei casi di democrazia spontanea ed auto – organizzata (le comuni, i consigli, le assemblee di comunità, i soviet) che sono state le prime forme politiche che il movimento del cambiamento si è sempre, spontaneamente dato. Proprio perché spontaneo ma soprattutto perché contrario di principio alla “ferrea” legge dei Pochi su i Molti, questo naturale principio democratico è stato sistematicamente, successivamente cancellato. Forse la teoria politica, dovrebbe vedere meglio cosa è possibile fare per non farlo cancellare, proteggerlo e dargli condizioni di possibilità per lo sviluppo. Le forze sociali, politiche, intellettuali del cambiamento, dovrebbero forse abbandonare i loro dogmi eterogenei ed inconcludenti e dire cosa non gli va della democrazia reale. Se non ci sono obiezioni, allora si cominci a lavorare sullo sviluppo di idee e sistemi che sono stati da lungo tempo orfani di pensiero e volontà pratica. Cambiare, a volte, non è produrre cose che prima non c’erano, novità assolute, ma rimuovere gli ostacoli che non hanno permesso condizioni di possibilità per l’affermazione di cose che già si producevano.  L’uomo che domina il mondo è un di cui dei mammiferi ma i mammiferi si son potuti esprimere solo dopo che un evento accidentale ha tolto di mezzo i grandi sauri. Per portare in atto ciò che è solo in potenza, s’impongono sottrazioni, rimozioni, riformulazioni.

[17] https://pierluigifagan.wordpress.com/2016/03/13/dell-origine-della-disuguaglianza-come-che-nati-liberi-finimmo-in-catene-1/

 

Informazioni su pierluigi fagan

64 anni, sposato con: http://artforhousewives.wordpress.com/, due figli, un gatto. Professionista ed imprenditore per 23 anni. Negli ultimi venti anni ritirato a "confuciana" "vita di studio", svolge attività di ricerca da indipendente. Il tema del blog è la complessità, nella sua accezione più ampia: sociale, economica, politica e geopolitica, culturale e soprattutto filosofica. Nel 2017 ha pubblicato il libro: Verso un mondo multipolare, Fazi editore. Ogni tanto commenta notizie di politica internazionale su i principali media (Rai3, la7, Rai RadioTre Mondo, Radio Blackout ed altre) oltre ad esser ripubblicato su diverse testate on line. Fa parte dello staff che organizza l'annuale Festival della Complessità. Tiene regolarmente conferenze su i suoi temi di studio. Nel 2021 è uscito un suo contributo nel libro collettivo "Dopo il neoliberalismo. Indagine collettiva sul futuro" a cura di Carlo Formenti, Meltemi Editore.
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6 risposte a DALL’ERA MODERNA A QUELLA COMPLESSA. Transizione dalla logica del dominio a quella del condominio. (2/2)

  1. uillobi ha detto:

    Ottimo articolo, molto …complesso! 🙂
    Condivido la necessita’ di una ripoliticizzazione della societa’, anche se mi domando quali spazi siano concessi dalle odierne elites e Quale sia il livello dell’etica comune…mi auguro un risveglio delle coscienze.

    • pierluigi fagan ha detto:

      Lo spazio concesso è dal nulla al molto poco. Ma storicamente, lo spazio si conquista non viene generosamente dato. Chi lo deve conquistare e come? Beh, noi qui cerchiamo di fare quello che ci sembra ci riesca meglio fare: ragionare. La questione discriminante che vedo nella fase politica storica è la domanda posta: siamo d’accordo sulla democrazia effettiva? Domanderei ad alternativi, ecologisti, comunisti, socialisti, progressisti di varia foggia, intellettuali, decostruttori, critici, siamo d’accordo su un comune pensiero che orienti l’azione? Sa non siamo d’accordo su questo minimo, il nostro minimo visto che quello delle élite sta tutto in un semplice formulazione “più potere”, lo spazio pur potenziale ci sarà precluso. Se siamo d’accordo dove sono le pratiche effettive? le sperimentazioni? le riflessioni? dov’è la stessa auto-interrogazione della democrazia dei pensanti? Da qualche parte si deve pur cominciare, comincerei da qui.

  2. roberto donini ha detto:

    Bivi millenari
    Caro Pierluigi, il tuo scritto in due puntate sulla transizione dall’era moderna a quella complessa è prezioso e compendia una seria di riflessioni, svolte nei tuoi saggi che giustamente richiami in nota. Anzitutto vorrei raccogliere il tuo invito, finale, di un mutamento di atteggiamento raccogliendo l’invito al dialogo, ad avviare cioè quell’antropologia nuova –dopo 8000 anni- “democratica”. I tuoi passaggi filosofici, i bivi da ripercorrere, Parmenide, Platone i monumenti del logos e dall’altra parte la sperimentazione Sofista nella stagione democratica ateniese, sono convincenti e la divaricazione la riassumerei così: logos solipsistico e tendenzialmente teologico di contro a dialogoi, ad una ragione “condivisa e cooperativa”. Ovviamente, sono enormi forzature e sono funzionali al “nostro” (del 2000 alla fine della Hybris) dialogo ma comunque arrivano a quel bivio. Allora, nella Elea di Parmenide, l’urgenza era un’altra, forse l’unità della città, c’è da chiedersi perché poi si è dovuto sempre derivare un fare urgente e un ordinamento istituzionale intangibile (le “leggi”)? Rimane un problema legato all’altro aspetto filosofico che hai sollevato, quello che definirei epistemico: come ottenere una conoscenza unitaria dentro un mondo complesso, come non disperdersi nel frammento “postmoderno”. Credo che anche qui preliminare al “sistema”, pur tendenziale, occorra predisporre l’atteggiamento filosofico, la ricerca socratica, rendere come dici e fai –offrendo letture e panorami di autori e argomenti- le parti. Ciò tanto più se la crisi è ontologica, come accenni, e condivido: ontologica cioè implicante tutto l’essere –soggetto e oggetto- e implicante la lunga evoluzione dell’essere occidentale.
    L’ultima era?
    Molto pertinente e connotante la definizione di “Era complessa”: 1) già a livello, formale, di periodizzazione si introduce una discontinuità con il criterio progressivo (Antico-medio-moderno); 2) Complessa da l’idea di un’attenzione particolare alla spazializzazione dei diversi tempi delle civiltà, riprende la tua cultura geopolitica e come ho ricordato più volte l’affaccio di Antonio Labriola nel suo saggio incompiuto “Da un secolo all’altro” l’allargasi del mondo non riducibile al progresso europeo; 3) Complessa, come argomenti a lungo, prospetta una chiusura del tempo “umano” (progressivo) nel senso di un emergere dentro la nuova epoca di temporalità di varia lunghezza: la lunghissima durata del reggimento politico (democrazia) \ lunga durata del formarsi delle popolazioni\nazioni \ la media durata del capitalismo \ la istantanea durata dell’attuale globalizzazione; 4) L’era complessa assume a limite del tempo agostiniano-umano, il tempo (termodinamico) della natura (geologia, biologia, demografia); 5) Infine orienta la transizione, cioè più che racchiudere post factum e spiegare “efficientemente” (causa-effetto), assume come “tendenza morfogenetica” l’oggi, secondo una “causa finale” (Aristotele).
    La catastrofe
    Cos’è l’oggi? Qui è la scommessa, o valutazione, sulla natura della crisi. Condivido con te, come accennavo, quell’ontologia che meglio di strutturale descrive la portata catastrofica della crisi.
    Si vanno combinando temporalità umane: fine del lavoro e fine della democrazia “rappresentativa” con quei limiti naturali che non è solo il clima o le emissioni ma è la materialistica e tradizionale (già chiara a Malthus) dirompenza della demografia. A mio avviso il vero nodo, assodata la sussistenza della crisi, è la relativa velocità della dissoluzione perché questo “saggio” influenza i caratteri della transizione.
    Serge Latouche sostiene che nei prossimi 30 anni si assisterà ad una crisi paragonabile e superiore però in velocità a quella dell’impero romano la cui “caduta” si era avviata nel corso di diversi secoli, giungendo alla stabilizzazione feudale dopo un altro lungo periodo; se questo andamento precipitoso si affermasse è chiara la vertigine adattativa che si provocherebbe di fronte a paradigmi teorici, che come ricordi spesso con Einstein, sono compromessi dall’essere motrici della crisi stessa. Questo paradosso reso da tante metafore celebri – tu hai parlato della mosca nella bottiglia come altrove si parla della rana lessata dalla mancata risposta adattativa all’aumento del calore dell’acqua- rende la difficoltà soprattutto del pensiero di transizione, che è articolare azioni nel tempo (tattica) in funzione di una prospettiva. Il problema che l’Era complessa è la “bottiglia”, è “l’acqua calda”, è, cioè, tutto insieme cosicché il soggetto politico è scosso alle basi antropologiche e soprattutto le sue scelte sono sottoposte ad un gradiente maggiore di indeterminazione, rispetto alle epoche delle sicurezze (dei riduzionismi: le nazioni, l’economia, ecc.).
    Origini del moderno
    Nella catastrofe, come nell’accezione di era complessa c’è un evidente influenza millenarista, di fine dei tempi tuttavia credo che il limite del millenarismo, come all’opposto del progressismo, sia, come spesso individui tu, il riduzionismo, in questo senso la fine del tempo non ci da più indicazioni del suo trascorrere. Tuttavia il risvolto costruttivo del millennio è l’atteggiamento di fronte alla crisi complessa, la ricerca di un quadro complesso “parti\sistema” e la consapevolezza comunque che la “scelta”, l’azione possibile, è parziale sottoposta al principio di “eterogenesi dei fini”. Non solo: il millennio recupera, come fai tu con la ricerca delle radici della democrazia, il tempo lungo nel senso di “longue durée”, di Storia che forma antropologia. E’ lì che vanno collocati due importanti atti fondativi del moderno. In primis il Leviatano (1651) di Hobbes: il suo contratto fonda lo stato moderno come monopolista della violenza alienata dai singoli. La mossa fondamentale, il presupposto, è che l’uomo, nella sua singolare intimità, sia violento; invece la conseguenza politica è l’eternizzazione dello Stato violento. Attorno a questo nucleo-agente (guerre, espropriazioni di proprietà, monopoli) al fine di temperare, per masse prima infuriate e ora decadenti e bisognose di eleganza estetica, la brutalità del contratto è stata edificato la cosiddetta “democrazia rappresentativa”: una rappresentazione appunto, in senso teatrale come filosofico, cioè una “velatura” di verità. Ma questa risvolto politico è meno importante, perché la mossa si basa sull’astrazione della violenza, che è fatto “adattativo” collettivo, attenendo famiglie, comunità, nazioni con diversi gradienti di ritualità e simbolizzazione, mentre invece lo si imputa all’intimità del singolo, alla sua anima. I corollari sono evidenti, si sottrae la violenza alla dimensione storica, eternizzandola, si legano i sensi di colpa (o peccati originari se si preferisce) dei singoli al destino della violenza, cosìcche cantino andando al macello. Il secondo fatto, congruente e analogo, nella metodologia di fondazione, è “La favola delle api” (1651) di Mandeville, che con “vizi privati e pubbliche virtù” è la premessa essenziale sia della morale “privatistica” borghese che del concetto di “mano invisibile” chiave dell’economia politica liberale. Come è stato notato da molti l’epistemologia dell’economia è retta dalla situazione magica dell’invisibilità ma anche qui la mossa risiede altrove e nasce dalla fissazione del vizio, in particolare del furto. La complessa passionalità umana, ben studiata da Spinoza e fonte dell’Etica, cioè di un sapere orientato alla spiegazione comunitaria, è ridotta al movente egoistico del furto. Anche qui agisce un intimizzazione riduttiva, il vizio infatti è relazione collettiva ma dalla spiegazione della relazione (la somma di più vizi) si sfugge con rapida astuzia e con la semplice copula (e) del sottotitolo si giunge alla fondazione dell’etica pubblica. Tutto ricade anche qui sull’astrazione del singolo che a questo punto è violento e pure ladro.
    Uomo buono e animale sociale
    Un grande pensatore eretico e “scorretto” come Costanzo Preve, diceva che le discussioni filosofiche più importanti sono quelle cristiane dedicate al “sesso degli angeli”, sicuramente è fondamentale nella formazione del moderno il problema della costituzione di un individuo irrelato, chiuso nella sua anima cattiva, cioè l’opera di Agostino d’Ippona. Sicuramente la sconfitta di Ario per cui l’anima individuale è essenzialmente buona, al primo concilio di Nicea del 325 è un passaggio teorico importante ma segnala la lunghezza e persistenza della costruzione di un paradigma di uomo cattivo, disponibile alla violenza collettiva e al materialismo morale, un baratro da cui Stato e mercato ci terrebbero lontani. Baratro che invece quando il paradigma, l’ideal-tipo, si concretizza alla fine della modernità, in real-tipo, è aperto senza ulteriori parapetti. Come dice Raniero La Valle, dal Concilio Vaticano II il cattolicesimo ha cercato di tornare all’anima buona, di Ario. A mio avviso è una contro-astrazione (negazione determinata) utile per aprire ad un nuovo “animale sociale” somigliante a quello aristotelico, unico presupposto per la democrazia in grado di dirigere l’economia, cioè la casa, il mondo limitato. Senza questo più radicale Aufklarung, senza una decisa uscita da quello “stato di minorità” che autorizza lo Stato e la favola economica a trattarci da bambini non c’è l’atomo democratico nell’era complessa.

    • pierluigi fagan ha detto:

      Caro Roberto,

      sono ammirato da questo tuo saggio dialogante e sono felice tu abbia voluto condividere qui, nel mio spazio, dove rimarrà ad aprire spero concerto di altre voci, di altre menti. Nulla voglio aggiungere se non un sincero grazie per aver dato luogo ad un frammento di democrazia delle menti che è l’unico dio che può salvarci. Un abbraccio.

  3. SmileSwitch ha detto:

    Complimenti molto molto sentiti. anna borellini
    Ho inviato l’invito per Intelligenza Collettiva.

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