L’ESSERE CHE SA CHE NON SARA’ PIU’. Riflessione su tempo, cambiamento e morte.

Alla base dell’umano abbiamo due imperativi, quello ontologico e quello cognitivo. Sono essi gli unici, veri, imperativi categorici poiché sono di origine bio-evolutiva, ogni parte e l’insieme stesso della sostanza che siamo ne è soggetta. L’imperativo ontologico recita: sii! Secondo Spinoza e non solo, sarebbe un conatus, il conato ad essere. L’imperativo ontologico è condiviso da tutte le cose che sono, siano esse biologiche (vegetali, animali, umane), siano esse fisiche non biologiche. Mettendo le une e le altre dentro il termine contenitore “cose”, diremmo che le cose tendono ad essere. Cosa poi siano le cose è problema arduo visto che tutte le cose che sono nell’universo materiale mostrano l’ambivalente condizione di essere e di cambiare. Entro certo limiti, si può cambiare e rimanere nell’essere ma oltre un certo limite, il cambiamento fa trapassare l’essere della cosa in un’altra cosa o in altre cose. Per altri versi, è proprio attraverso il spinoza-trattato-teologico-politicocambiare che l’essere si preserva poiché immerso in un flusso generale (l’universo), che in quanto flusso procede incessantemente dal prima al poi. Se la cosa non cambia, l’attrito tra la posizione statica ed immobile ed il flusso del cambiamento produce danni irreversibili proprio a ciò che voleva essere a dispetto del suo dover cambiare. Per la cosa quindi, la faccenda si riduce ad una imprecisa legge vaga che dice di cambiare in accordo al cambiamento del flusso generale in cui la cosa è immersa ma non troppo da perdere la sua essenza. Comunque, prima o poi, la perderà e cesserà di essere quella cosa separandosi in materiali (energie) per fare altre cose. In accordo con l’ontologia aristotelica potremmo dire che quindi la cosa (la sostanza) è una forma che organizza una certa materia. Ai tempi dello stagirita non era presente il concetto moderno di energia ma potremmo retroattivamente includerla dicendo che la cosa (la sostanza) si nutre di energia per dare alla propria materia quella certa forma che le dà l’essenza. Questo è il lavoro che fa la cosa per ottemperare al primo imperativo, l’imperativo ontologico: sii!

La cosa è quindi una isola di essere che cambia entro i limiti della propria costituzione per rimanere in essere dentro il flusso generale dell’Essere in perpetuo cambiamento. Comunque, così come ha un punto, nel flusso generale del prima e del poi,  prima del quale non era e poi è stata (nascita della cosa), tutte le cose hanno un punto oltre il quale non saranno più (morte della cosa). Che ci risulti, questa è la legge universale di tutte le cose che sono. La morte della cosa è la perdita irreversibile della sua forma sebbene qui il linguaggio non ci aiuti perché, entro certi limiti, è proprio cambiando moderatamente la sua forma che la sostanza si preserva dato che è immersa in un flusso generale di cambiamento.

La condizione umana, all’imperativo ontologico, abbina un secondo imperativo: l’imperativo cognitivo. L’imperativo cognitivo recita: conosci! Cosa significa “conoscere”? Potremmo dire che conoscere è portare dentro la cosa informazione che prima non c’era ma la faccenda è più complicata. Esiste infatti un livello di informazione che la cosa ha di se stessa, diciamo così implicitamente, per il solo fatto di essere. Sia le cose biologiche che quelle fisiche (anche quelle biologiche ovviamente sono fisiche ma in una diversa forma rispetto a quelle non biologiche), hanno continuamente una non cosciente gestione dell’informazione interna per il solo fatto di essere. Esiste poi un secondo livello che si divide in due: nel primo, le cose non biologiche assumono informazione esterna alla  sempre implicitamente mentre nel secondo, per le cose biologiche, questa assunzione è esplicita. L’essere della cosa, poiché è sempre immerso nel flusso generale del prima e del poi, ha proprio come problema prendere informazione di cosa succede al suo esterno per ragguagliare il suo senso interno. Le cose quindi conoscono ciò in cui sono immerse costantemente, le cose biologiche svolgono questa funzione con ciò che possiamo dire “coscienza” che è la sommatoria maggiore delle sue parti in cui confluiscono i sensi. slide_2La coscienza dell’essere una cosa biologica si nutre di conoscenza, implicita per quanto attiene gli stati interni, esplicita per quanto attiene quelli esterni. Gli umani in cosa differiscono tanto da meritarsi un termine categoriale a sé? Gli umani sono cose biologiche dotate di coscienza riflessiva o di secondo grado ovvero coscienza della coscienza. Per l’umano, quindi, l’imperativo cognitivo significa avere conoscenza della propria conoscenza.

Perché l’umano è dotato di questo senso cognitivo precipuo? E’ un caso evolutivo. La specie si è evoluta tramite questa specialità, un trattamento riflessivo di quella conoscenza che per altro condivide con tutte le altre cose biologiche ed a un certo livello anche con quelle non biologiche. L’imperativo cognitivo quindi non è una proprietà esclusiva dell’umano ma nell’umano prende un senso particolare per via della struttura auto-coscienziale propria della specie, struttura formatasi per ragioni evolutive. Meno veloce del ghepardo, meno forte del rinoceronte, meno armato di un felino o di un coccodrillo, meno difeso di una tartaruga, meno agile di una gazzella, meno mimetico di un rettile, meno ipervedente di molti altri animali o iperudente di altri, meno in molte altre specialità, l’umano ha basato tutta la sua strategia adattativa al flusso del prima e del poi, su questa facoltà di trattenere e riflettere sulla conoscenza che riesce ad ottenere, in prima istanza, dai sensi. Questa riflessione, moltiplica la conoscenza ottenuta dai sensi tant’è che questi stessi, non sono affinati in prestazioni come accade nelle altre varie specie. Più sviluppiamo facoltà auto-cosciente, più perdiamo in affinamento sensoriale. In molti casi quindi, il flusso informativo dall’esterno è nell’umano anche inferiore a quello di altre specie ma quel meno viene moltiplicato geometricamente dalla riflessione che opera tanto sul flusso in entrata, quanto su ciò che è stato stoccato nelle memorie.

L’imperativo cognitivo umano quindi è in certo senso la risposta adattativa ed evolutiva a quello ontologico. Per l’umano, sii! si ottempera conoscendo riflessivamente. Iniziato con una bassa riflessione, l’essere degli umani contava poche centinaia di unità sparse in una area contenuta dell’Africa centro-orientale e durava poche decine di anni solari. Dopo qualche milione di anni, oggi conta più di sette miliardi di unità sparse su tutte le aree planetarie e dura mediamente più decine di anni. Nel caso degli umani occidentali e di certi asiatici, si è arrivati a medie di otto decenni con punte che arrivano a gli undici ed in copse4qualche caso anche a dodici. La longevità è un valore implicito dell’imperativo ontologico la cui conoscenza riflessiva, per l’umano, diventa: “sii il più a lungo possibile”. Tale formulazione è implicita anche per le altre cose, biologiche e non, nel senso del conatus spinoziano ma nell’umano diventa esplicita poiché assunta riflessivamente. Altresì, riflessivamente, si aggiunge una postilla: “sii, il più a lungo -ed al meglio- possibile”. Ovviamente anche tutte le altre cose biologiche tendono a stare al loro meglio ossia provando quanto più piacere e quanto meno dispiacere è loro possibile, è proprio dell’essere tendere a provare quanto più piacere dell’essere gli è possibile ma, di nuovo, la conoscenza riflessiva dà all’umano un sapore diverso di questa ricerca del piacere che per altri versi è anche o a volte, principalmente, evitazione del dispiacere.

Capita così di giungere a notare che la natura delle cose, dell’umano più di altre poiché posto ad un livello di complessità maggiore, ha molto ordine ma a volte, anche qualche disordine. Per disordine si può intendere anche la contraddizione, due sensi coesistenti che vanno l’uno in senso opposto all’altro con eguale legittimità e forza. Infatti, la cognizione riflessiva umana porta a conoscere preventivamente la propria morte creando una dissonanza cognitiva. Questo è infatti, in flagrante contraddizione con l’imperativo ontologico, sappiamo che prima o poi falliremo e non saremo più. L’umano quindi, è probabilmente l’unico essere che sa che prima o poi, non sarà più e lo sa tramite la funzione cognitiva, la funzione che si è evoluta per farlo essere il più a lungo ed al meglio possibile.

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Se provate a pensare alla vostra morte, vedrete che vi troverete in una contraddizione, la contraddizione di Epicuro poi ripresa anche da Freud. Penserete al vostro funerale, parteciperete del dolore di chi vi viewImage.actionsta intorno e voi stessi sarete affetti dal dispiacere per il caro estinto, caro a voi più che a chiunque altro. Ma la cosa è incongrua perché a livello logico se non siete più, anche il pensiero non è più per cui l’esercizio di immaginazione a cui vi abbandonate è impossibile perché per esser realistico dovrebbe presupporre un pensiero che non pensa, un pensiero senza oggetto il che, poiché ogni pensiero è pensiero di qualcosa, è impossibile in via di principio. La propria morte allora, non è un evento puntiforme con un al di qua ed un al di là ma un evento-limite, una fine, la fine della vostra durata. Con la vostra morte termina il vostro tempo personale, il che ci porta ad inquadrare questo nuovo concetto di cui la morte è un limite: il tempo.

Il tempo infatti è quello che sino a poco fa abbiamo chiamato il flusso dal prima al poi alludendo al “numero del movimento secondo il prima ed il poi” (Aristotele, Fisica, IV, 11, 219b). La parte interessante è quel “movimento” ovvero cambiamento. Il tempo è la storia del cambiamento se non c’è cambiamento, non c’è storia, non c’è tempo. Il tempo è quindi nell’essenza della cosa sia perché è l’estensione del suo essere (la durata direbbe H. Bergson), sia perché è la storia della cosa come sua permanenza nonostante la progressione dei suoi cambiamenti. L’essere che deve essere e ciononostante sa che ad un certo punto della sua storia non sarà più, capisce che questo cambiamento perenne allude a quel momento finale, da cui il difficile rapporto col tempo. Il tempo allude alla morte, questo è il retrogusto che lo rende un concetto da evitare, qualcosa di cui sospettare. Ma il cambiamento è, anche senza l’esito finale, un problema in sé, poiché porta incertezza e l’incertezza porta la paura come diceva sempre Spinoza.

L’incertezza è lo stato in cui sotto la pressione dell’imperativo cognitivo (che si somma a quello ontologico – il conatus) non sappiamo/possiamo dargli soddisfazione. Lo stato d’incertezza mantiene aperto il processo cognitivo il quale però, prescrive strutturalmente la sua chiusura. Esso è un anello che, fintanto che non si chiude, non smette di produrre la coazione a connettere sollecitata da ingenti spruzzi di quella neurochimica che chiamiamo “ansia”. In molti casi, l’oggetto ipotetico della cognizione presenta lati rischiosi ovvero la possibilità che esso sia, accada, si riveli, per noi negativo. Tale negatività è uno dei due poli su cui 41EzjZHA1FL._SY344_BO1,204,203,200_oscilla l’incertezza. All’allarme prodotto dalla non chiusura dell’anello cognitivo si somma allora la previsione della possibilità che se compiuta, la cognizione rivelerà un dato negativo, il che accresce l’ansia. A livello intermedio, si può ipotizzare esista comunque una tendenza della mente ad usare la paura della negatività per muovere alla chiusura del circolo cognitivo, sia che poi essa esista realmente come polo delle possibilità nell’oggetto/situazione da conoscere, sia che non. Sia che abbia svolto correttamente la sua cognizione sia che s’accontenti di qualcosa che dirà esser vero per chiudere a forza la pratica irrisolvibile (da cui l’autoinganno di cui leggeremo in R.Trivers, La follia degli stolti, Einaudi, 2013). L’incertezza del cambiamento crea ansia, il cambiamento ci è suggerito dal flusso del tempo, il tempo è anche un memento mori.

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L’Occidente ha sviluppato molte strategie d’evasione dal pensare la morte in tutte e tre le sue forme sviluppate di conoscenza: filosofica, religiosa, scientifica.

Quanto alla filosofia, per Platone, filosofare è imparare a morire mentre Epicuro ha provato a razionalizzare la paura rendendola logicamente inconsistente (come se i registri mentali della paura reagissero sempre a quelli dell’auto-coscienza logica) mentre gli stoici ne hanno fatto una questione d’orgoglio, non dargliela vinta se non altro nel provocare paura. In Platone comunque, si trovano anche tracce di metempsicosi (cioè reincarnazione, si veda l’idea della rammemorazione del Fedone) derivate dal suo pitagora-141674pitagorismo ed è molto probabile che la stessa religione popolare dei tempi, i Misteri (che nei contenuti più propri tali sono rimasti, per noi, ancora dopo secoli) ne promettessero l’esito.  Pitagora ed i pitagorici, Platone e platonici, anche Empedocle sono variamente influenzati da questa idea propria dell’orfismo di origine orientale. Strategie più sofisticate sono state quelle che non hanno preso la morte di petto ma il tempo ed il cambiamento. Così Parmenide, ed Aristotele col motore immobile nonché di nuovo Platone con le Idee eterne ed immobili del soprasensibile. Delle filosofie più “civili” come la sofistica poco sappiamo e comunque successivamente, ad esempio gli scettici, si sono rifatti ad Epicuro ed in tempi romani, a gli stoici. Nel dire però “i greci erano così” si deve stare attenti perché sebbene, per noi, i filosofi siano immortali ed ancora oggi ne parliamo come ne avessimo recente contatto ma ai tempi, non è detto che ognuno di essi rappresentasse altro  che il proprio personale pensiero o al massimo quello di una ristretta scuola (ristretta anche geograficamente, nella sparpagliatissima Grecia delle millecinquecento poleis). Inoltre, la separazione delle discipline, ci fa pensare alla filosofia come al “tutto” dell’immagine del mondo del tempo, quando questa combatteva, negli strati più basici della popolazione come in quelli più elitari, ancora con una versione popolare della mitologia e soprattutto con la religione dei Misteri, di cui come abbiamo detto, poco o nulla sappiamo. Resta il fatto che nel suo insieme, anche la filosofia, supremo sforzo del pensiero che fa conto solo sull’organo che lo produce, la mente umana, alle sue fondamenta greche, evade dal cambiamento, dal tempo, dalla morte.

Quando poi andrà affermandosi il cristianesimo, anche per via dell’alacre lavoro dei neo-pitagorici alessandrini e dei neo-platonici di ogni ordine e grado (Plotino, Giamblico, Proclo), nonché per l’attivo sforzo dei Padri della Chiesa, metà teologi – metà filosofi, si avrà facile modo di sovrascrivere il tutto con una chiara impostazione eternista. L’aporia vedica per la quale mal si giustificava un Tutto eterno in cui l’Uno, chissà perché e per quali ragioni, si scuoteva dalla sua beatitudine pre-coscienziale per mettersi a produrre enti (aporia che rimane nella cosmologia del Big Bang poiché è insita nella nostra mentalità che non riesce a trovare terze vie tra l’eterno, lineare o circolare e l’inizio-fine), aporia ancora presente del Demiurgo platonico, veniva  a riproporsi con il dio della Genesi. Rig-VedaDal fondo dell’eternità impassibile, ad un certo punto e senza ragion di causa sufficiente che non fosse un improvviso salto di auto-determinazione ovvero un causa sui, Dio creava il tempo e con esso il mondo, l’uomo, la vita e la morte. Paolo di Tarso, prese la storia di uno dei tanti profeti del tempo, storia finita invero assai male e la fece diventare la testimonianza di una religione il cui successo iniziale (e per molto tempo successivamente) si basò sull’idea geniale di dare all’anima greca un post mortem in cui i destini corporei naufragavano nella polvere da cui originavano mentre una nuova entità (che “nuova” poi non era), l’”anima”, raggiungeva l’Eterno e per simpatia si eterizzava anch’essa. Il cristianesimo arrivò nel posto giusto, al momento giusto, poiché a Roma e nella romanità, non c’erano i Misteri e le promesse dell’oltrevita erano vaghe e confuse. Poiché come intuì più tardi Cartesio, la nostra mente rimane confortata sulla verità del suo pensiero laddove riscontra i caratteri di idea chiara e distinta (criterio idealista ovvero dove la mente certifica da sé la verità del suo proprio pensiero), la chiarezza e la distinzione tersa con la quale Paolo aveva confezionato il concetto di vita eterna, spopolarono. Soprattutto presso coloro che meno avevano da soddisfarsi nella vita terrena, appunto, il popolo. Ma si farebbe torto alla genialità paolina nel dare una lettura di classe al successo della sua creatura teologica, componente che comunque vi fu. Presto partirono conversioni insospettate a dire che la promessa dell’oltrevita è merce universale come poi si dimostrerà con la terza versione del Dio-Uno, quella musulmana che, per la gran parte dei suoi primi dodici anni di vita meccana,  si legò proprio alle minacce d’inferno ed alle promesse di paradiso che attraevano e terrorizzavano i poveri beduini confusamente politeisti.

Filosofia greca e religione cristiana divennero fili ton sur ton dello stesso ordito: l’immagine di mondo occidentale. Vi era una base abbastanza solida data da Aristotele che si modella su Platone. Platone, a sua volta, dovrebbe averla ripresa da una nuvolaglia letteratura_severino_boezio_consolazioneconcettuale fatta di pitagorismo, orfismo, eleatismo ed ebraismo di cui si sospetta una diretta apprensione, riflessa nel Timeo. Del resto, anche il pitagorismo (e con esso il presupposto numerologico alla base del geometrismo greco che poi sono le basi della moderna scienza) aveva discendenze vedico-indiane e la storia dell’Uno che crea il Tutto non è copyright rabbinico ma, cronologia alla mano, del primo libro dei Veda, il Rg Veda, ex Oriente lux. Ciò che poi non veniva facile e spontaneo da Platone e soprattutto Aristotele, venne piallato nella falegnamerie del pensiero alessandrino-siriane dove ermetici, gnostici, paolini, neo-platonici e vari tipi di eretici ben formati, qualcosa traducendo e qualcosa no e creando anche dei falsi non completamente falsi, prepararono una “tradizione” pronta all’uso per l’innesto “naturale” nel corpus cristiano. Tant’è che vi abboccarono spediti i terzi monoteisti, i musulmani, il cui ruolo nella storia del pensiero occidentale sarà poi quello di ripresentare all’Occidente stesso questa versione della tradizione greca intorno all’anno mille. La cristianità, già platonizzante di suo ebbe gioco facile a ricongiungersi con le dimenticate radici geneticamente modificate proprio per innestarsi su quelle teologiche che, a Parigi, vennero comunque ritrattate a fondo. Oplà, mille anni di medioevo in cui il pensiero così architettato è lasciato riposare e macerare nel suo brodo di cottura e l’immagine di mondo triangolata (quindi sacra in sé) da tempo eterno, statico e negazione adirata anche solo dell’ipotesi di un cambiamento, il tutto al servizio della negazione mortale, è cosa fatta.

Quando arriverà, la scienza, si porrà sulle solide rotaie indo-platoniche stante che la natura è scritta in linguaggio matematico, è fatta di leggi eterne (la natura cambia ma è solo apparenza perché di base le leggi che non solo la fanno essere ma anche Leibniz_Newtonapparentemente cambiare, sono a-temporali) e la geometria è impostata su Euclide che da giovane era allievo dell’Accademia platonica. Del resto, da Newton che presto ed annoiato si ritrasse dall’attività scientifica per dedicarsi al suo prediletto fondo mentale profondo fatto di teo-alchimia, al calcolo infinitesimale che sdoganerà questo altro concetto bizzarro -l’infinito- che sormonta spazio e tempo dando a quest’ultimo il significo di eternità che è la precondizione della non morte, la matematica dimostrò ancora una volta di essere l’estasi metafisica più sublime assieme alla mistica. Gli screzi con la Chiesa furono fatti mondani, dovuti al fatto che la Chiesa, al nascere della scienza (sincronia non casuale), era nella sua parabola discendente ed avviata alla sclerosi. La Chiesa che rimasticò e digerì a modo suo Aristotele, la Chiesa che va da dal francese Silvestro II a Tommaso d’Acquino non avrebbe mai fatto un errore quale fece la Chiesa inquisitiva, paralizzata ed incattivita dalla sua stessa paura di morte.

Filosofia, religione e scienza sono tutte versioni di una unica immagine di mondo che qui da noi ha cercato di cancellare il tempo, negare ostinatamente il cambiamento, offrire alla paura della morte un sofisticato impianto di rimandi che suggeriscono che l’eterno è possibile ed anzi, necessario.

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Non possiamo approfondire ulteriormente di più questa bella storia del tempo, del tempo, della morte e del cambiamento nella cultura occidentale. Lo spazio ed il rispetto per la fatica del lettore ce lo impedisce. Ma penso che ci torneremo su. Chiudiamo con una serrata citazione di libri che stiamo leggendo o abbiamo in animo di leggere questa estate, una strada che se sviluppata, ci permetterà di tornare più e più volte su gli argomenti trattati, in specie su quel concetto caldo, dati i tempi che corrono, che è il “cambiamento” e su cui ultimamente facciamo riflessioni ancora impresentabili.

Dalla Prefazione, Introduzione e Ringraziamenti di Lee Smolin nel suo “La rinascita del tempo” per Einaudi 2014, apprendiamo che il fisico teorico che condivide col nostro apprezzato Carlo Rovelli, l’interpretazione della meccanica quantistica  detta della gravità quantistica a loop che si muove sullo sfondo di una filosofia relazionalistica, ha in progetto avanzato l’idea di scrivere un libro col filosofo brasiliano Roberto Mangabeira Unger di cui avevano segnalato di star leggendo il suo faticoso Politics (Fazi editore, 2015). Il titolo 978880620697GRAprovvisorio dell’opera è “The Singular Universe and the Reality of Time” in cui, pare di capire, il duo sosterrebbe che anche le famose leggi di natura evolvono, ossia sono soggette al tempo[1]. Sostenendo qualcosa del genere, il bizzarro Rupert Shaldrake è stato recentemente bannato dalle Ted Conferences. Non solo per questo forse ma comunque pare che speculare sulla possibile non eternità delle leggi naturali sia non meno ardito che sostenere che la Terra non è il centro dell’Universo. Il che fa pensare che non è la forma del pensiero (non del pensato) in sé ad essere progressista o conservatrice ma la sua posizione di potere. Nata progressiva, la scienza, certa scienza quale quella che s’affanna a dar per morta la filosofia (tutte le forme di pensiero infinitiste, assolute, cioè sciolte dal vincolo del tempo e della storicità,  tendono a dar per morti o ad uccidere, tutti coloro che con la loro semplice presenza, relativizzano questa presunzione di assoluto. Questo nervosismo sull’esclusivo possesso della verità, come poi vedremo, ha forse a che fare col problema del terrore della morte), finisce col rivalutare i tribunali spagnoli. Del resto anche l’utilitarismo socialisteggiante del massimo benessere per il maggior numero è diventato il massimo benessere per il minor numero ovvero quando il tempo non porta evoluzione ma involuzione.

Comunque, questa linea temporal-filosofico-scientifica (naturalista) è una strada, l’altra è quella sulla morte di cui forse leggeremo il contributo dello psico-antropo-filosofo Ernest Becker (Pulitzer 1974) “The Denial of Death” (1973) stranamente non tradotto qui alla periferia dell’impero (ma forse meno “stranamente” di quanto mi sia inizialmente sembrato). Da questo, prende spunto la TMT la Terror Management Theory contenuta nel “The Worm at the Core” di S. Solomon, J. Greenberg e l’impronunciabile T. Pyszczynski ovvero le l’analisi sulle strategie diversive del problema della consapevolezza della propria, certa, morte che tanto allarma l’imperativo ontologico. In breve, l’intero impianto simbolico-culturale costruito da tutte le culture, avrebbe come scopo primario quello di stemperare l’ansia di morte combattendo il terrore col significato. L’incertezza creatasi nella dissonanza cognitiva del sapere in anticipo che prima o poi falliremo l’imperativo ontologico verrebbe curata con un sofisticato impianto di credenze di cui auto-certifichiamo la verità.  9781400067473Lo scontro violento e non dialogico tra immagini di mondo, scontro che può portare a guerre o condanne a morte, reali o simboliche, sarebbe originato dal fatto che un’altra immagine di mondo mette in discussione la consistenza della nostra. Per il solo fatto d’esistere ne minerebbe la credibilità e con essa, farebbe riemergere il problema che doveva aiutare a risolvere: il terrore della morte.  Su queste basi, anche un pluri-premiato documentario: Flight from Death (2003), visionabile su internet, purtroppo a pagamento. Stranamente però, l’intera indagine non indaga su un punto: oggettivamente, sapere di aver un tempo limite per espletare la cosa per noi più importante in assoluto, cioè vivere, dovrebbe portarci ad avere un radicalmente diverso atteggiamento verso la vita. Tante cose che subiamo e tolleriamo lungo la nostra esistenza, non verrebbero subite e tollerate se avessimo la chiara consapevolezza che il tempo è dato ed i giochi che contano si fanno dentro questo anelastico dato. Il che ci porta a riflettere sul cambiamento, il cambiamento intenzionale, l’atteggiamento per il quale potremmo diventare veramente proprietari di ciò che ci appartiene per diritto naturale: noi stessi ovvero il tempo in cui esistiamo. La confluenza dell’imperativo ontologico e di quello cognitivo sarebbe la fusione nell’imperativo più categorico per noi stessi, quello esistenziale, il terrificante: vivi assumendo appieno la consapevolezza che non vivrai più. Questo potrebbe dare un significato diverso al “vivi il più a lungo ed al meglio possibile”, innalzandone il livello di consapevolezza autocosciente, sino al predisporci al cambiamento intenzionale.

Anche qui abbiamo un triangolo che esemplifica l’impasse. Da una lato abbiamo il concetto di servitù volontaria di Etienne de la Boétie, dall’altro lo stato di minorità di Immanuel Kant. Il quesito è: come arriviamo al lato dell’XIa Tesi su Feuerbach di Marx?

Tempo, cambiamento e morte ovvero sono tempi in cui, per noi occidentali, per il “destino di civiltà”, l’intero impianto del nostro modo di stare al mondo e la riflessa immagine di mondo che evade dal tempo per negare la morte e resistere al cambiamento (radicale) rifiuta la presa di coscienza della biforcazione: o cambiamo o moriremo. Questo il perimetro della nostra inconclusa riflessione.

Link:

Il sito del libro di Smolin, qui.

Il Wiki del The Denial of Death, qui.

La Terror Management Theory qui e qui.

Il poco conosciuto (in Italia) R.M.Unger, qui.

[1] L’idea, per altro, pare sia stata condivisa da C.S.Peirce, P.Dirac, J.A.Wheeler ed anche R.Feynman oltre allo stesso R.M.Unger.

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Informazioni su pierluigi fagan

64 anni, sposato con: http://artforhousewives.wordpress.com/, due figli, un gatto. Professionista ed imprenditore per 23 anni. Negli ultimi venti anni ritirato a "confuciana" "vita di studio", svolge attività di ricerca da indipendente. Il tema del blog è la complessità, nella sua accezione più ampia: sociale, economica, politica e geopolitica, culturale e soprattutto filosofica. Nel 2017 ha pubblicato il libro: Verso un mondo multipolare, Fazi editore. Ogni tanto commenta notizie di politica internazionale su i principali media (Rai3, la7, Rai RadioTre Mondo, Radio Blackout ed altre) oltre ad esser ripubblicato su diverse testate on line. Fa parte dello staff che organizza l'annuale Festival della Complessità. Tiene regolarmente conferenze su i suoi temi di studio. Nel 2021 è uscito un suo contributo nel libro collettivo "Dopo il neoliberalismo. Indagine collettiva sul futuro" a cura di Carlo Formenti, Meltemi Editore.
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4 risposte a L’ESSERE CHE SA CHE NON SARA’ PIU’. Riflessione su tempo, cambiamento e morte.

  1. Umberta Telfener ha detto:

    Heinz von Foerster sosteneva che gli imperativi alla base dell’umano – due o più dipendeva dall’osservatore e dalla sua vis subdividendi – potevano essere un principio ontogenetico ed uno relazionale. Ontogenetico e non ontologico, secondo lui, in quanto ogni processo è in costante divenire e il cambiamento non è una qualità dell’umano ma un aspetto costitutivo di esso. “Cogito ergo sumus” proponeva di modificare così la frase di Cartesio, mettendo la sottolineatura più sul “sumus” che non sul “cogito”. Siamo insieme all’interno di una comunità formata attraverso il nostro cogitare insieme. Cogitare era per lui un’azione tra le tante che permettevano di costruire il sumus, ad essa affiancava il ballare, l’amare, il costruire insieme … Insomma provava ad allontanarsi dal primato della mente per favorire le azioni, qualunque esse fossero

  2. Massimo ha detto:

    Ineccepibile.Analisi condivisibile( fino ad un certo punto).
    Riprendendo il suo concetto esistenziale finale, “vivi assumendo appieno
    la consapevolezza che non vivrai piu'”, non si tratta di vivere per la morte,
    alla maniera di Heidegger.Questo.in ogni caso,e’ un concetto, mentre la
    morte e’ un fatto.Ne’ si tratta di dare un’importanza drammatica alla morte
    fisica,che in questo ha ragione Spinoza.
    E’ della vita che si tratta,di fare attenzione alla vita,non della morte.
    La morte fisica l’individuo la puo’ solo subire,non puo’ nulla.
    L’individuo puo’ accettare la propria inevitabile fine e guardare con tranquillita’
    a questo fatto.Puo’ guardare alla vita come un tentativo di fare “senso”.E’ nel
    senso della propria vita,della propria affermazione qui ed ora,del proprio “amore
    esclusivo” che anche un filosofo come Heidegger pensa la morte, mentre per
    Sartre la morte non esiste:esiste il cinematografo dell’Io, che cerca di consistere
    nelle proprie azioni, ma ricade in continuo nel nulla, dato che ogni cosa e’ per la fine,
    erosa dal nulla prima di nascere.
    Questo e’ quello che i contemporanei propongono:un fine senza fondo,ne’ base, ne’ senso.
    Da qui la negazione del tempo.
    Contro questo che cosa si puo’ proporre?
    E’ verso il durevole,verso l’eterno che si pensa e si agisce.Qualunque pensiero implica,
    propone e postula il farsi di un senso,di una misura e di un tempo che lo trapassano.
    Come potrebbe l’uomo mettere i figli al mondo senza questa sicurezza primordiale?
    Come potrebbe pronunciare parole che non fossero mugolii,brontolii,espressioni di
    stati fisiologici,sensazioni brute, bisogni immediati, se la parola non portasse in se’
    la promessa di durata, la norma della propria rispondenza alle cose?
    Nel pensiero che si pensa,nell’azione che si compie,nel fine che si vuole raggiungere,
    e’ implicito il senso che va’ oltre quel pensiero e quel’azione.
    L’uomo non puo’ sottrarsi alla necessita’ di fare senso, di dare un idea vera della
    vita e del mondo.
    L’imperativo esistenziale a cui dobbiamo tendere e’ quindi cosi’ esplicabile:

    Vivi nel tempo che ti e’ dato, vivi del senso che ti dai.

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