Nella prima parte della nostra analisi, ci siamo mossi paralleli al libro di D. Losurdo “La sinistra assente”, constatando una ampia e ragionata descrizione di questa assenza, assenza tanto più enigmatica quanto più voluminosa e rumorosa è l’ingiustizia, l’ineguaglianza, la violenza, la malafede, l’egoismo e la protervia che scaturisce dal e nel, sistema occidentale. Ci è rimasto inevaso il perché di questo paradosso ed a caccia di questa mancanza che forse sottende quell’enigmatica assenza, ci muoviamo in queste due ulteriori parti.
IL PESO POLITICO DELLA SINISTRA OCCIDENTALE.
Quanto a critica dell’assenza della sinistra, si dovrebbe intendere il testo di Losurdo come una critica rivolta alla sinistra intellettuale che non è la sinistra politica. Se si fosse dovuto analizzare l’assenza della sinistra politica, forse sarebbe stato necessario un secondo volume o anche più. Noi procederemo quindi analizzando un punto solo della sinistra politica, un punto che però riflette come una piccola porzione di frattale, tutto il resto. Prendendo la dimensione europea (elezioni per il Parlamento europeo) come sistema di riferimento, l’insieme della sola sinistra radicale, dal picco raggiunto alle prime elezioni del 1979 in cui superò di poco il 10% dei suffragi è scesa fino a dimezzarsi nel 1994 (risentendo della liquefazione sovietica) per poi oscillare tra questo pavimento e un poco più, poco meno, del 7%. Si noti che nelle ultime elezioni europee del 2014, aggiornando i dati alle informazioni che ci danno sondaggi recenti, le due colonne dello schieramento, Podemos in Spagna e Syriza in Grecia, ancorché manifestarsi in salute proprio laddove più aspre ed evidenti sono le condizioni fallimentari del sistema economico-politico dominante, colettano una varietà di soggetti estremamente eterogenea: comunisti, socialisti, indipendentisti, femministe, ecologisti e benicomunitari, nonché una certa parte della sfuggente entità “movimenti” . Nel gruppo parlamentare GUE/NGL, la componente “verde” è ben forte per tutte le realtà del Nord Europa e si trovano anche non meglio precisati “democratici”, anti EU, laburisti non britannici e ben due partiti animalisti. La frammentarietà di questi soggetti e della coalizione a cui danno vita è semanticamente sottolineata dall’abbondanza di: fronte, blocco, unione, alleanza, movimento, coalizione, plurale come nomi dei singoli progetti politici. Questi nomi e le forme sottostanti, dicono di un atteggiamento che più spesso è difensivo, resistenziale, oppositivo, una fusione di resistenti “contro” che avrebbe più di un imbarazzo a confrontarsi al suo interno per decidere un “per”. L’intera sinistra radicale europea, è stata per trentacinque anni di poco (in alcuni casi “non di poco”) inferiore come dimensione complessiva, rispetto allo schieramento ideologico che si definisce schiettamente “liberale”. In pratica sinistra radicale sta a liberali (i primi essendo meno dei secondi) come socialdemocratici stanno a popolari (i primi essendo meno dei secondi) stante che socialdemocratici sono da tre a sei volte, più grandi della sinistra radicale. Questo dato di minoranza è aggravata dal computo delle altre posizioni: conservatori, destre, eterogenei inclassificabili ed un residuo non indifferente di “non votanti”. La sinistra normale, la demo-socialdemocrazia , dal 1979 al 2014, è stata più spesso sotto il 30% dei suffragi complessivi, che non sopra. Con approssimazione (generosa) possiamo stimare in 2% la sinistra non votante (antagonisti, anarchici, rivoluzionari duri e puri etc.).

Nell’orine da sinistra (rosso scuro) a destra (azzurro): SINISTRA RADICALE – SOCIALDEMOCRAZIA – VERDI – INDIPENDENTI – LIBERALI (giallo) – POPOLARI (azzurro)
“Sinistra” in Europa, negli ultimi trentacinque anni, ha complessivamente pesato intorno ad un 40% (più spesso meno che di più), stante l’estrema eterogeneità di una categoria che tale si può definire ben a fatica considerando da un lato un black block tedesco e dall’altra i prossimi confluenti di Scelta Civica nel PD italiano. L’ 80% di questa frammentata ed eterogenea minoranza, è data prevalentemente da socialisti francesi e democratici italiani che quanto a fiancheggiamento imperial-coloniale e neo-liberismo ben temperato non sono secondi a nessuno e da laburisti e socialdemocratici che seguono a ruota stretta. L’analisi della tristissima situazione della sinistra italiana, il caso macroscopico dello smottamento centrista del PD e quello microscopico che somma Vendola-Ferrero e il vasto giardino delle particelle sub-atomiche la cui resistente ontologia è un mistero tanto impenetrabile, quanto insignificante, ce la risparmiamo. Si potrebbe ed anzi si dovrebbe a questo punto fare anche una analisi dei movimenti, dei fermenti, delle lotte concrete, ma questo non è un trattato di analisi politica. Ad occhio però, non ci sembra che questo sottostante sia poi molto più ampio della forma politica delegata e dove lo è o è stato, ci sembra che in tempi rapidi la forma politica delegata vi abbia corrisposto. Infine come nota metodologica, trentacinque anni, sono in range temporale affidabile per considerare un fenomeno politico nella sua sostanza dinamica.
Cosa ha portato la sinistra socialdemocratica sempre più verso il centro, la sinistra radicale ad essere pulviscolare e complessivamente assai leggera e condizionata oltretutto da una eterogeneità che si tiene in piedi solo per generosa addizione di vaghe scontentezze e cosa ha portato la sinistra di movimento a non avere sorte migliore che non un episodico e discontinuo pullulare qui e lì, su una non meno eterogenea lista di temi sulla quale ha registrato più sconfitte che vittorie ? Perché questa parte politica di minoranza tale è rimasta per più di trent’anni e soprattutto in tempi più recenti ove la teoria di mondo alla quale corrisponde la parte politica maggioritaria si sia manifestata fallace, stante la sequenza di crolli sistemici verificatisi dal 2008-2009 ad oggi?
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TESI.
La nostra tesi è sostanzialmente che la sinistra non ha una teoria di mondo. Non ce l’ha nel senso che quella che ha non è adeguata al mondo che ha in oggetto. Non avere una teoria di mondo significa non avere un preciso ed efficace sistema analitico, non aver un obiettivo strategico e da ciò non poter dedurre una sequenza progressiva di obiettivi tattici. In sostanza, la sinistra è assente perché è il pensiero che guida l’azione, l’azione dovrebbe modificare ed affinare il pensiero che la orienta, tale pensiero dovrebbe avere un obiettivo chiaro e concreto (strategia) da cui dedurre la sequenza degli obiettivi intermedi (tattica), inclusi modi ed alleanze per seguire la rotta per giungere lì dove si voleva arrivare. Dagli sbandamenti ideologici segnalati da Losurdo, all’inconsistenza numerica della sinistra radicale, fino alla sudditanza mentale della sinistra normale[1], la nostra diagnosi è che un pensiero confuso porta ad una politica inconcludente. Quella della sinistra è una crisi ontologica segnalata dall’impossibilità di rispondere convintamente e concretamente alle tre domande critiche: come spieghiamo il mondo? in cosa possiamo sperare? cosa dobbiamo fare?[2]
Non avendo una teoria di mondo alternativa ed esistendone nell’offerta politica un’ unica versione, la versione dominante che possiamo dire capitalista, demo-liberale, neo-liberale, econo-utilitaristica, versione che è teoria e prassi, struttura e storia, versione che finisce con l’identificarsi con l’occidentalità in quanto tale (pur essendo visibilmente e per lo più di matrice anglosassone), non si può andare oltre qualche confuso mormorio critico, qualche improvviso sprazzo di lucidità analitica, qualche contraddittorio essere contro ma anche a favore. L’essere associato nel mondo ha bisogno di una struttura e questa riflette e si riflette in una teoria[3], se vogliamo sostituire questa struttura con un’altra, occorre una teoria adeguata. Una sinistra smarrita, afasica e confusa non catalizza certo la fiducia e l’attenzione di tutte le sue potenziali componenti molecolari e non partendo il processo di catalisi, pur esistendo una sinistra “in potenza”, non esiste una sinistra “in atto” ma una sinistra impotente e frigida, il che si converrà, è assai poco sexy, cioè non attraente.
Dovremmo ora giustificare la nostra diagnosi. Poiché il problema è sia grosso, che complesso, che storico (cioè di medio-lunga durata) il coraggioso lettore, dovrà considerare che l’autore del ragionamento non potrà andare oltre una sequenza di punti assai condensati. Proveremo cioè a dipanare la struttura delle principali ragion per cui diciamo ciò che abbiamo detto, ma sarà un tentativo di struttura ed una struttura per lo più nuda. Ne conseguiranno possibili arbitrarietà, imprecisioni e (spero solo apparenti) superficialità. Si fa un passo alla volta, sperando che questo possa essere un primo passo e non un passo falso.
LA TEORIA DI MONDO DELLA SINISTRA ASSENTE.
Una teoria di mondo, nella sinistra assente, certo esiste ed è quella di Marx. Da qui partono tre linee, il pensiero di Marx (marxiano), le linee di pensiero da esso derivate (marxiste), una costellazione esterna di temi non originariamente trattati né da Marx, né -per lo più- dai marxisti ma sopravvenienti nei tempi successivi. Parallelamente dovremo intersecare questi tre filoni con le nostre tre domande sulle finalità che implicano una comprensione ed una azione nel mondo, per segnalare come e dove si siano formate mancanze, fraintendimenti, insufficienze affinché la diagnosi critica sia rivelatrice di questo disallineamento tra teoria ed il suo oggetto: i rapporti sociali tra gli uomini che danno vita a sistemi immersi in un mondo comune. Condurremo l’analisi attraverso una revisione di singoli punti critici per formulare le risposte alle nostre tre domande.
Come spieghiamo il mondo ?
Una revisione dei capisaldi costruttivi la nostra teoria di mondo dovrebbe re-impostare la nostra definizione di mondo nelle sue coordinate spazio-temporali, quella di uomo e il metodo generale che usiamo per le nostre analisi e le nostre sintesi.
Il “nostro” mondo non può che non essere l’Occidente nell’età moderna stante che l’Occidente è particolare e non è un universale, così il “moderno”. In Marx ci sono conoscenze e considerazioni che avrebbero anche potuto portare ad ulteriori specificazioni, quella che corre tra continentali e “inglesi”, oggi anglosassoni, e quella che intercorre tra continentali latini e nordici, ma il nostro mondo, che non è più quello di Marx, è fatto da un altro Occidente. Un Occidente che vede gli Stati Uniti, in parte assimilabili ai britannici nella categoria “anglo-sassone”, a guida di una civilizzazione europea in senso euro-continentale, greco-latina nell’origine specifica. Gli strappi che si sono prodotti tra questa origine greco-latina, la successiva trasformazione euro-continentale, la successiva trasformazione anglo-europea e quella finale forma anglosassone-continentale che è oggi la sostanza del termine “Occidente”, esistono nella sostanza reale ma non sono visibili nelle teorie di mondo. Né in quella critico-marxista (capitalismo generico), né in quella dominante-liberale (democrazie di mercato generiche). Il concetto di capitalismo, finisce così col diventare un po’ astratto in quanto il suo concreto è la forma intera del modello e della sua attualizzazione in specifici e differenti costrutti geo-storici. Esiste una differenza storicamente rilevante tra l’Occidente anglosassone e quello continentale, differenza che si riverbera nei diversi sistemi socio-economici a matrice liberal-anglosassone, renana-scandinava, franco-italiana (stante che esiste poi anche una differenza geostorica significativa tra il sistema francese e quello italiano), giapponese. Non dettagliare il concetto nelle sue versioni geostoriche, comporta una genericità che fallisce nella descrizione e quindi nelle diagnosi di parti di mondo che sono differenti giungendo così ad una prima semplificazione[4]. Poiché un problema centrale che più volte rileveremo in questa veloce analisi è proprio un difetto di complessità tra mondo e sua teoria, queste semplificazioni vanno sottolineate soprattutto nelle loro conseguenze. Una prima conseguenza ad esempio, è anche quella di ritenere “capitalismo” una forma disincarnata dai concreti contesti, nel senso che le economie capitaliste hanno certo qualche cosa in comune ma anche molte differenze e che queste differenze riflettono paesi piccoli e grandi, costieri o dell’entroterra, isolati o continentali, dotati o meno di energia, dotati o meno di materie prime, con questa o quella cultura e tradizione, paesi capitalistici che controllano altri paesi capitalistici limitandone lo sviluppo, agricolo-industriali o basati su i servizi, etc. . Così non si vede anche che la prima opportunità del cambiamento sarebbe quella di separare ciò che le élite capitalistiche (che in parte non hanno differenze ed in parte le hanno ma non ne sono consapevoli ) tendono a considerare un unico, il far emergere la prima frattura, quella tra Occidente anglosassone ed Occidente euro-continentale[5]. L’Occidente anglosassone è irriformabile. Se cambierà lo dovranno cambiare gli anglosassoni, facendo i conti con vari strati del loro passato che affonda le radici nell’antichità dei popoli barbari pre-romani[6]. L’Occidente continentale ha invece non meno problemi ma più possibilità, poiché è proprio la sua radice continentale che ne determina non solo la differenza ma le future condizioni di cambiamento. E questa divisione degli occidenti, non solo darà ai continentali maggiori possibilità di cambiamento, non solo formerà le migliori condizioni per un pianeta multipolare ma aiuterà anche gli anglosassoni a fare i conti con la propria storia ed il proprio futuro, una volta che rimarranno riquadrati all’interno del loro specifico. La divergenza degli interessi tra Europa continentale ed ambiente anglosassone si manifesta oggi in molti modi: dall’Ucraina, alle relazioni con Russia-Cina, con i BRICS, con il Sud America, con l’Africa, con il problema medio-orientale, con le presunte convenienze del trattato TTIP, con una differente confidenza e propensione nell’uso della guerra. Un istituto come la NATO mantiene un accoppiamento strutturale (via sottosistema militare) che condiziona la libertà di tutti gli altri sotto-sistemi. La stessa “sinistra” è un concetto che, per quanto malconcio, esiste qui e non esiste lì.
Una seconda conseguenza di questa definizione astratta di capitalismo è che non si rendono sempre evidenti le dipendenze strutturali che il capitalismo occidentale ha col resto del mondo, da cui la secolare storia coloniale, schiavistica ed imperiale, proprio quel tema che Losurdo denuncia come luogo in cui la sinistra è assente cognitivamente e politicamente. Osservare questa dipendenza strutturale renderebbe poi immediatamente chiaro quali sono i problemi di imput ovvero l’assurda pretesa di questo sistema-macchina di incrementare la fornitura di imput di energia e materia al crescere della sua produttività e del sistema umano a cui si riferisce. La popolazione occidentale, ai tempi di Marx, era di 300 milioni e rappresentava un 25% del mondo, quarto che era incomparabilmente più sviluppato e quindi più “forte” del resto del mondo che doveva/voleva controllare per assicurarsi gli imput e relativi mercati. Oggi assomma a 1200 milioni[7] (ha cioè un incremento relativo rispetto a se stessa di un fattore quattro (a cui si dovrebbero aggiungere gli incrementi di produttività e consumo) che però è diventato un poco più di un 15% (in realtà è anche meno) di mondo e non ha più quel controllo dominante sul suo esterno. Il sistema-macchina occidentale quindi richiede più imput in forme geometriche stante che il suo peso nel mondo si è ridotto e si è ridotta la distanza competitiva con le economie non occidentali. Basterebbero queste considerazioni a reimpostare molte analisi sulla crisi attuale, sulla sua genesi, sulle sue ragioni. Purtroppo, sia l’economia teorica dominante che da questione di filosofia morale è diventa una fisica degli scambi, sia quella critica che continua a ritenere il capitalismo un sistema che non ha entrate ed uscite, luoghi e tempi concreti (alla faccia del suo vantato “materialismo”), congiurano a tenere questo ente, in un limbo meta-fisico. La lotta tra i mondi, Occidente vs Resto del Mondo, interessi anglosassoni vs interessi continentali, quelle del continente settentrionale vs quelli di quello meridionale da cui la spaccatura oggettiva dell’Europa-euro, Impero vs emancipazione dal neo-colonialismo, guerre, Est vs Ovest e Nord vs Sud, ecologia vs sviluppo, imperialismo culturale e multiculturalismo, geopolitica, guerra delle valute e tante altre cose che animano le nostre cronache, diventano così difficilmente inquadrabili e comprensibili, cioè spiegabili dentro una teoria di mondo. In termini teorici, il capitalismo occidentale è un ente non sufficientemente dettagliato, di cui non si notano le contraddizioni interne di composizione e gerarchia, non geolocalizzato, osservato sempre e solo al suo interno come se non avesse una dipendenza strutturale col suo esterno. Dare per omogeneo un ente (sopprimendone la costituzione in parti) ed eliminare le sue dipendenze esterne (tagliandone le linee di interrelazione strutturale) è il modo migliore per semplificare qualcosa di altrimenti assai meno definito, ed assai più problematico, qualcosa di assai “più complesso”.
Sempre all’interno della definizione spazio – temporale, oltre alle incertezze sulle coordinate spaziali, ci sono poi quelle sulle coordinate temporali. Qui, la questione centrale è data dalla definizione che diamo del concetto di modernità. In ambito dell’immagine di mondo liberal-marxista, la modernità è quella del XIX° secolo, ciò che è prima ne è una preparazione, ciò che è dopo ne è uno sviluppo conseguente. I contributi provenienti soprattutto dall’analisi storica della scuola francese, (Scuola degli Annales, F. Braudel), ci hanno reso chiaro che modernità inizia in realtà nel XV° secolo ed è una forma che assolve, mentre dissolve quella medioevale. Questo passaggio epocale non ha niente di rivoluzionario, in realtà è una lunga dissolvenza incrociata tra vecchio e nuovo che durerà dai due/tre (Inghilterra), quattro (Francia e molto dopo Italia e Germania) secoli. Quando ci saranno le rivoluzioni borghesi (che sono solo due, quella inglese e quella francese di un secolo successiva), queste non faranno altro che far saltare un tappo, stante che la fermentazione che aveva creato la pressione tra il contenitore ed il contenuto, ha lavorato per decenni prima di giungere al suo esito così rumoroso e romantico. Qual è l’origine, la tempistica, la complessa dinamica di questo epocale cambiamento? La borghesia è la popolazione dei borghi, ma i borghi si affermano in Italia nell’anno 1000, perché questa borghesia comincia ad affermarsi strutturalmente quattro secoli dopo e solo dopo altrettanti, giunge a conformarsi come sistema dominante, andando a coincidere per altro con una ben specifica classe che non è più la generica popolazione dei borghi? Molti guai derivano dalla compressione di questi processi di lunga durata in un istante storico (la rivoluzione), tra cui la convinzione che il cambiamento è nell’istante storico e non nei complessi processi di lunga durata. In una parola, è il tipo di teoria del cambiamento che rende fallace quelle teoria di mondo che ospita la rivoluzione come marcatore del cambiamento stesso. Le forze del cambiamento si accumulano secondo una logica che è la stessa dei quanti e del potenziale d’azione nei neuroni e di molti fenomeni naturali ed umani (scienza normale e rivoluzionaria nell’epistemologia di T. Kuhn ad esempio) che oggi conosciamo molto meglio di un secolo e mezzo fa, queste forze procedono progressivamente e cumulativamente. L’esplosione del cambiamento ci sembra “improvviso” ma ha una preparazione in realtà molto lunga. Non ha senso quindi la storica diatriba tra cambiamento progressivo e cambiamento saltazionista poiché è il lungo lavoro del primo che porta al secondo.
Insomma, dovremmo forse rivedere le nostre categorie analitiche con le quali definiamo lo spazio ed il tempo dell’oggetto – mondo di cui tentiamo la comprensione al fine di offrire una spiegazione come parte di una teoria mondo in grado di orientare la presa di coscienza e la conseguente azione trasformatrice. Tale revisione profonda, andrà ad intaccare la struttura semplificata e semplificante dello stesso materialismo storico. I fatti geostorici che abbiamo segnalato sono tutti fatti materiali, lo sono gli stati-nazione, le dinamiche dei loro interessi materiali che li portano a competere in parte senza guerra, in parte con la guerra, l’energia e la materia (la prima virtualmente infinita se si accede a quella solare, la seconda invece finita) che deve alimentare la macchina di produzione e scambio, gli output ovvero i rifiuti e l’entropia, l’aggressione ambientale e gli effetti di retroazione, la numerica della popolazione che chiamiamo demografia (censurata dai marxisti ab origine, convinti che la dimensione del sistema non sia un problema e lo sia solo perché il capitalismo agisce in logica di scarsità, cosa abbastanza vera sul pianeta di un secolo e mezzo fa, molto meno vera oggi), sono tutti fatti ultra-materiali che non si trovano né nel materialismo storico, né nella teoria liberale. E non è un caso, perché questi condizionamenti materiali, nella metà dell’800 non si avvertivano e poiché la teoria di mondo è parte dell’apprendimento del proprio tempo col pensiero, a tempi determinati in un modo corrispondono pensieri determinati in quel senso, cambiano i tempi, dovrebbero cambiare anche i pensieri, soprattutto la struttura o sistema che li connette in una architettura del pensiero. Comparando teorie del 1100 e fatti del 1250 per attenerci al solo fatto temporale, cioè avrebbe un significato, se la facessimo su teorie del 1500 e fatti del 1650, questo scarto sarebbe più sensibile. A nostro avviso, per la natura quanti-qualitativa dei cambiamenti occorsi nel mondo tra 1850 e 2000, questo disallineamento diventa drammatico. Curioso che questa implicita credenza nell’intemporalità delle idee si mostri nel sistema di pensiero (il marx-ismo) che più di ogni altro ha assunto la Storia ed il divenire, come propria componente analitica.
Dopo lo spazio-tempo con cui definiamo l’oggetto Mondo, dovremmo anche indagare la nostra descrizione dell’oggetto uomo che poi è un soggetto. Nell’approssimato ed inconcluso sistema marxiano, c’è una convinzione antropologica forte e c’è anche una rimarchevole sensibilità sull’antropologia, stante che pare che negli ultimi anni di vita, Marx venne rapito dalle indagini di Morgan e Maine, più che non curare il perfezionamento del secondo e terzo libro del Capitale che infatti vennero pubblicati postumi. Ma certo è che la successiva antropologia economica di K.Polany, quella di Malinowski-Mauss sul dono e la reciprocità, quella strutturale di Lévi-Strauss, quella anarcoide di Marshall Sahlins[8], ma più in generale tutto lo sviluppo novecentesco della materia[9], molto hanno cambiato delle nostre concezioni su noi stessi. I punti di crisi sulla faccenda, sinteticamente sono tre: 1) ruolo dell’economia nella strutturazione e dinamica delle società umane; 2) ruolo delle strutture e delle sovrastrutture soprattutto la relazione tra questi due momenti nell’ordinamento del sistema sociale; 3) fuoriuscire dalla dialettica stereotipata dell’uomo individuale vs uomo sociale dal momento che pare incontestabile che l’uomo sia un individuo sociale, cioè sia individuale, sia sociale e che tra i due ordini non esista armonia prestabilita. Il primo punto si riflette a base di un certo economicismo che si fa fatica ad addebitare esclusivamente a gli epigoni di Marx. Tale economicismo è stato falsificato tra l’altro dagli studi di K. Polanyi che sono alla base della più generale falsificazione dell’homo oeconomicus la cui versione utilitarista è criticata ma resa come simmetrico contrario in versione “sociale”, da Marx stesso. Questo genere “homo” ha ricevuto nell’ultimo secolo e mezzo, dozzine di diversi attributi: credente, abile, simbolico, sapiente, creativo-distruttivo, aggressivo e bellicista, egoista, empatico, altruista, spirituale, materiale, contemplativo, poietico e poetico, involucro per la riproduzione genetica, linguistica, epistemica, eretto, autocosciente-intenzionale, egalitario – gerarchico, parlante, sacro e via così. Facciamo pace con questa pluralità ed assumiamola come costitutiva della nostra complessità intrinseca, complessità che si mostra in diverse configurazioni a seconda delle lenti gnoseologiche che adottiamo, a seconda del frame di realtà e di tempo che indaghiamo. Così per l’ intero che è la società, dotata di regolamenti immateriali e materiali, di strutture economiche che però sono anche politiche e di sovrastrutture di sistemi di pensiero e concezioni del mondo e dell’oltremondo, stante che abbiamo anche quel “piccolo problemino” di esser l’unica specie che sa della sua certa morte. E così anche per quella nostra “insocievole socievolezza”, quel “disagio della civiltà”[10] di un genere che vagava a gruppetti di 10-12 in una area poco più grande del Molise e dopo qualche decina di migliaia di anni, si trova in quella stessa area a vivere in più di venti milioni come a Singapore. Periodo che tra l’altro non è sufficiente, neanche in teoria, a presupporre una cambiamento bio-genetico della nostra struttura interna, tale da postulare una perfetto adattamento psico-biologico alle mutate condizioni del mondo in cui siamo immersi. Così Grozio, Hobbes, Locke, Marx, Bentham sono elementi interessanti per una genealogia del sapere ma per favore, non scambiamo questa proto-antropologia filosofica con la ricchezza del nostro sapere contemporaneo, che poi è sempre una frazione di quel fantasma imprendibile che è la Verità della cosa in sé. Insomma c’è da mettere mano pesantemente alle nostre idee su Io (uomo) e Mondo, nonché sulle loro inestricabili interrelazioni. Quindi sulla struttura stessa di ciò che fa una teoria di mondo.
Manca ancora un punto al nostro critico elenco delle revisioni: come pensiamo. Non solo come pensiamo le parti e le interrelazioni dell’oggetto principale che è il contenuto della teoria di mondo, ma il “come pensiamo” nelle sue forme. Uno degli scandali meno notati della ricezione del pensiero di Marx è che colui che criticava la divisione del lavoro non poteva che implicitamente ribellarsi anche a quella dei saperi. Ci sono diversi aspetti nel pensiero di Marx, c’è antropologia prima che questa diventasse una disciplina affermata, c’è sociologia che egli stesso ha contribuito decisivamente a fondare, c’è storia che segue le orme di Hegel ma non solo, c’è economia politica, c’è un abbozzo di quello che poi diverrà teoria delle idee, c’è molta politica, considerazioni giuridiche implicite ed esplicite, c’è sensibilità filosofica e giornalistica. Tutto questo è fuso nel suo -Io penso- ed è il motore della sua innovazione teorica con ambizioni di trasformazione pratica di ciò che interpretava. Dov’è il cuore di questo approccio in ciò che è seguito? Semplicemente non c’è! C’è una sequenza di dotta ignoranza mono-disciplinare che ha introiettato il modello smithiano – liberale (si ricordi che la divisione dei saperi è teorizzata da A. Smith a seguire la descrizione di quella del lavoro resa nella celebre apertura della Ricchezza delle nazioni sul case-history della fabbrica degli spilli) della separazione, della frammentazione, della riduzione, della semplificazione ultra determinista. Da questo caleidoscopio panoptico in cui i punti di vista sono nelle celle e il guardiano centrale è dato dalla resa produttiva specialistica del pensiero unico ordinato dall’economico, si ripetono da decenni stanche analisi in linguaggi incomprensibili che si perdono in pezzetti di pezzetti, nel contrario esatto del “il vero è il tutto” che non è il “tutto è il falso”[11] di Adorno ma il “vero è la parte”. Meglio se piccola, non interrelata, priva di traiettoria temporale.
La ragione di questa mancanza che una volta tanto, non è in Marx ma nei marxisti, così come in tutte le altre forme di sistemica delle idee dell’Occidente (e non solo) sono diverse e complicate. Molte attengono alla storia del pensiero (filosofia) ed alla sequenza – scuola del sospetto – diaspora delle nascenti scienze umane fine ‘800-primi ‘900 – iperspecializzazione delle scienze dure. Specializzazioni scientifiche che allacciate alle tecniche hanno ricevuto una impressionante sequenza di feedback di successo concreto (l’enorme mole di innovazioni materiali degli ultimi due-tre secoli) tanto da diventare il paradigma del concetto stesso di verità, che l’Occidente cerca di possedere dai tempi di Socrate. Addirittura si è arrivati ad incolpare Hegel del fatto che l’idea che il pensiero è sistema[12] (idea per altro già presente in Kant[13]) portasse in conseguenza ai totalitarismi novecenteschi, giudizio che sebbene proferito da cultori della scientificità (si pensi a Popper ma anche ad Hayek) ha in sé una forte componente “magica”[14]. Purtroppo, questa autentica corbelleria è stata introiettata anche da certa sinistra post-moderna, oltre che dalla lunga stagione di una filosofia rapita dal linguaggio nel mentre in Occidente e poco fuori si sono prodotti il 95% dei morti di tutte le guerre degli ultimi tre secoli, tra i cento ed i centocinquanta milioni di esseri umani come me e te[15]. Il nostro unico e primo imperativo è biologico: vivi il più a lungo possibile, la seconda parte: ed al meglio possibile si pone solo dopo soddisfazione della prima. Centocinquanta milioni di fallimenti, originati dal cuore della civiltà occidentale il secolo scorso, come li giustifichiamo? E dopo il post-moderno e la filosofia del linguaggio, si noti la logica, la filosofia analitica e quella estetica come uniche o prevalenti forme di pensiero riflessivo lungo l’ultimo secolo. Nel Novecento ci siamo sostanzialmente ammazzati nel mentre il pensiero si dilettava di analisi formali. Complimenti! Il fallimento adattativo che l’Occidente rischia oggi che si manifesta la fine della Modernità e l’inizio della Grande Complessità, è stato lungamente preparato nell’ultimo secolo. Pensiamoci prima che la tragedia si ripeti nella farsa del pensiero ma anche nella catastrofe della realtà.
Quindi, capitalismo è un ente vago che legge un fatto economico che è però anche politico, culturale e storico con dettagliate differenze tra aree stato-nazionali. Capitalismo occidentale è una macchina la cui sopravvivenza è dipendente da un’area molto più grande, che gli è esterna. Questo sistema è diventato un modo di stare al mondo in un percorso secolare e da allora, si è trasformato diverse volte. Le condizioni del suo sviluppo passato oggi non ci sono più o stanno rapidamente svanendo. La sua critica necessita una diversa antropologia e una diversa impostazione metodologica che possa portare ad un modello alternativo. Se la parte interpretativa della nostra immagine di mondo, la parte che ci dovrebbe spiegare ed aiutare a spiegare ai nostri simili il mondo che viviamo ha i suoi problemi, anche le altre due, quella che dovrebbe contenere la nostra speranza e quella che dovrebbe guidare l’azione che è il ponte tra la diagnosi e la prognosi, ne ha. Li vedremo nell’ultima parte, la prossima.
(2/3)
[1] Un caso rivelatore è quello di Piketty ( T. Piketty, Il Capitale del XXI° secolo, Bompiani, Milano, 2014). Il voluminoso argomentare del francese è un compendio di dati e statistiche in favore di quel minimo di sinistra che è la semplice redistribuzione. Ogni forza di sinistra continentale, oggi, sembra vergognarsi di pretendere anche solo quel minimo, un minimo che poi nulla sarebbe di fronte a quel massimo di diseguaglianza nel quale siamo piombati. Mai come in quei dati, si rispecchia l’intuizione che alcuni movimenti spontanei ebbero della logica dell’1%, addirittura spiega il Piketty, quel 1% è spesso un 0,1%! Eppure, il niente. La sinistra normale è paralizzata dal suo esser scivolata nel canone liberale, quella radicale pensa che non valga la pena impegnarsi nella lotta per la redistribuzione perché il fine rivoluzionario strutturale è assai più nobile.
[2] Si noterà una certa affinità alle tre domande kantiane: Che cosa posso conoscere? Che cosa debbo fare? Che cosa posso sperare?. Il nostro: come spieghiamo il mondo? Si avvicina molto al cosa posso conoscere kantiano non certo come indagine sulle forme trascendentali del conoscere ma come formiamo la nostra teoria politica interpretativa, assiologia e normativa, sia nella sua forma rivolta alla critica esterna, sia nella su forma di relazione con l’azione trasformatrice, sia nella preparazione all’accoglimento trasformativo degli output ottenuti dal contatto col mondo e con la nostra vis trasformativa. Il nostro: in cosa possiamo sperare? è la definizione di una utopia concreta o reale, viabile, funzionante sebbene non immediatamente a portata di mano. Il nostro: che cosa dobbiamo fare? dovrà riempire lo spazio tra la teoria e l’obiettivo strategico finale, il telos, orientando ad una pratica politica flessibile ma ben direzionata. L’indagine su queste due ultime domande verrà svolta nella prossima parte.
[3] Su i rapporti tra struttura e sovrastruttura per usare due categorie marxiane, si dovrebbe indagare a fondo. I rapporti tra i due sistemi, sono assai complessi di quanto detto nell’Ideologia tedesca, libro che né Marx, nè Engels ritennero pubblicabile, tanto da uscire nel 1932. Quantomeno, essendo questa una semplice nota, si può dire che sono osmotici. Idee si condensano in prime immagini di mondo che guidano l’azione umana le cui realizzazioni pratiche si riflettono su quelle immagini di mondo che portano ad un diversa azione e così via, senza che si possa dire nella Storia, se si inizi prima con le idee o prima con i fatti.
[4] L’entità “libero mercato” ad esempio, non solo è stata storicamente una assai breve parentesi della storia economica dell’Occidente moderno (P.Bairoch, Economia e storia mondiale, Garzanti, Milano, 1998), ma come ebbe a notare un economista liberale ma tedesco e non anglosassone (F.List), una convenienza del sistema dominante, cioè britannica allora, americana oggi.
[5] Trattare il “capitalismo” come un ente generale e non nazionale, porta anche a non considerare la relazione strutturale che esiste tra sistema parlamentare cosiddetto “democratico” e quel tipo di economia. Questo porta a far condividere a liberali e marxisti, l’idea che il sistema economico abbia una potenza autosufficiente. Senza un ordine giuridico-politico che tra l’altro investe nel sistema e nelle sue infrastrutture materiali ed immateriali, vi riversa parte del prelievo fiscale, si dota di capacità offensive/difensive armate (polizie all’interno, eserciti all’esterno), stabilisce rapporti geopolitici, compensa le mancanze ed ultimamente, addirittura protegge dai fallimenti (cosa vietatissima ad esempio nel liberalismo teorico austriaco), il capitalismo occidentale non sarebbe mai nato, vissuto e sarebbe morto già da un pezzo.
[6] Si può contestare ad esempio il paradigma utilitarista in abito continentale. Farlo in ambito anglo-sassone, a me sembra una mission impossibile. Gli anglosassoni non derivano solo da Bentham, Locke, Hobbes. Fare un parlamento che decida sulle tasse è una loro esperienza storica già nel 1300. Ribellarsi al pagamento delle tasse ritenute illiberali è cosa del 1215 (Magna Charta). Il loro naturalismo pre-scientifico è cosa ancora antecedente e coartare la natura ai nostri voleri come fosse una prostituta è idea di un loro teologo francescano (R.Bacone). Ad Oxford, Aristotele (zoon politikon) non è mai entrato. Sull’antropologia degli anglo-sassoni, ancor prima di mettere piede in Britannia, si legga Veblen o il Marx della Forme economiche pre-capitalistiche.
[7] In realtà meno, dipende da come si fa il conteggio.
[8] E’ proprio da questa antropologia successiva che nascono impianti diversi. Da Polanyi le teoria di riportare l’economia ad essere embedded alla società da cui le teorie democratiche e sul primato del politico sull’economico ma anche certo comunitarismo, da quelle sul dono proseguite da A. Caillé e il M.A.U.S.S. francese il vasto ambito del nuovo pensiero decrescista, dallo strutturalismo l’analisi sul potere sovrastrutturale ad esempio nell’episteme di M. Foucault, da quelle di Sahilins ad esempio l’anarchismo municipal-democratico di M. Bookchin che ben si riflette in certi “movimenti”.
[9] Può essere utile C.Hann, K.Hart, Antropologia economica, Einaudi, Torino, 2011
[10] L’”’insocievole socievolezza” è una definizione di Kant (Idee per una storia universale dal punto di vista cosmopolitico, 1784). Il “disagio della civiltà” è il titolo di un libro di Freud (Il disagio della civiltà, 1929).
[11] T.W.Adorno, Minima Moralia, edizione 1954, pag.40, Einaudi, Torino
[12] Remo Bodei ha appena rieditato, aggiornandolo, il suo Sistema ed epoca in Hegel, col titolo “La civetta e la talpa” Mulino, Bologna, 2014. Conclude la sua Introduzione con un “Noi non abbiamo però alcun coerente sistema di idee che pretenda di orientarci a capire il nostro tempo” (pg. 17). Forse la civetta ha difficoltà perché non è il calar della sera, ma l’alba di un nuovo giorno. Forse dovrebbe comprarsi un paio di occhiali scuri e spalancare comunque i suoi occhioni, perché se non apprendiamo il nostro tempo col pensiero in fretta, questa volta, rischiamo grosso.
[13] Per Kant, si veda “L’Architettonica della ragion pura”, in CdRP, B 860.
[14] Può non piacere il sistema di Hegel ma questo non dovrebbe comportare l’abolizione del concetto di sistema. Per altro la forma “sistema” è consustanziale il cervello-mente quanto a materia, propria di ogni immagine di mondo di cui ognuno di noi, cosciente o meno, è dotato, altrettanto propria delle strutture che ordinano mondo. Se non si pensa il sistema, vuol dire che il sistema c’è ma è impensato che è poi l’affidarsi religioso in senso provvidenziale, al sistema del mercato, una sorta di religione del cargo.
[15] M. Flores, Tutta la violenza di un secolo, Feltrinelli, Milano, 2005