Mi aveva incuriosito il titolo dell’ultimo libro di D. Losurdo “La sinistra assente”[1]. Ho allora cercato di saperne un po’ di più su Internet e la curiosità è stata rinvigorita da alcuni commenti e da alcune finestre sul testo, tra cui una intervista all’autore. Ho allora scritto un articolo-recensione che poi si allargava a considerazioni personali su quell’assenza denunciata da Losurdo, considerazioni basate anche su un riferimento che l’autore aveva fatto al concetto del vero dell’intero (Hegel) nell’intervista, un concetto a me caro, dal momento che mi occupo di filosofia della complessità. Ero piuttosto soddisfatto dell’articolo e stavo per pubblicarlo quando i guardiani interni dell’etica del discorso mi hanno presentato l’ammonimento: non puoi parlare di ciò che non hai veramente letto. Mi ero cautelato scrivendo che le mie considerazioni prendevano spunto dal testo di Losurdo e non ne erano una diretta conseguenza ma i guardiani non hanno abboccato ed inflessibili mi hanno spedito in libreria a comprare ciò di cui volevo, anche se di rimbalzo, parlare. Ora ho quasi finito il libro, anticipando i capitoli finali che sono poi quelli più direttamente volti a contestare questa assenza ma mi rimane una mancanza.
La mancanza, che è una assenza, è che sapendo che l’autore è un filosofo, docente (emerito) di filosofia, mi ero immaginato che il titolo completo, il titolo concettuale, in realtà fosse: la sinistra assente, perché? Invece nel libro c’è sicuramente una interessante analisi – denuncia sull’assenza di presenza politica della sinistra su alcuni temi e su una immane confusione percettiva e categoriale, ma non c’è affatto quella interrogazione finale. C’è una indagine sull’effetto, ma non sulle cause di quell’assenza. Debbo quindi ritornare su ciò che avevo pensato di pubblicare per ragionare sull’assenza di quell’assenza poiché forse è proprio l’assenza di quella interrogazione riflessiva che spiega l’assenza principale.
Caso vuole che contemporaneamente stia leggendo “Storia critica del marxismo” dell’eretico Costanzo Preve[2], da poco scomparso. Sebbene non condivida l’hegelismo-fichtiano di Preve, tolto ciò, mi trovo (molto) spesso del tutto d’accordo con i suoi non banali punti di vista. A pagina 33 della Premessa del suo libro, con la consueta franchezza e chiarezza, Preve, a proposito del sistema di idee del marxismo e ricordando che egli ha dedicato una vita allo studio non solo del marxismo ma anche della filosofia occidentale (e che era filosofo lui stesso), dice: “…non mi sono quasi mai imbattuto in sistemi di pensiero meno critici, e cioè più incapaci di introspezione. Al confronto le teologie prodotte dai francescani, dai domenicani e dagli stessi gesuiti appaiono modelli di capacità introspettiva”. Quell’assenza del perché diagnostico dell’assenza della sinistra, è figlio di questa paralisi alla riflessione introspettiva del marxismo su se stesso?
Per la verità Losurdo conclude il suo libro dicendo che ogni svolta storica impone un profondo ripensamento, una adeguazione alle mutate condizioni, solo che il soggetto a cui è indirizzato il saggio ammonimento sono le “forze politiche” non le “forze intellettuali” che operano nel campo del pensiero a cui si ispirano le forze politiche. Non è ben chiaro come Losurdo pensi debbano essere i rapporti tra il pensiero e l’azione anche se a pagina 271, a chiusura di una sferzante critica che coinvolge dalla Camusso alla Rossanda, da Hardt e Negri a Žižek, da Latouche a Foucault, passando per Bobbio, Habermas ed Harvey, in un caso sporadico è coinvolto anche Agamben, cita il passo di una lettera di Marx[3]. In questa, un Marx venticinquenne, cinque anni distante ancora dai primi passi del Manifesto, dice che ogni progetto di trasformazione non può anteporre dei principi astratti alle lotte concrete. Per la verità, mi sembra che il passo di Marx dica che il “noi” che dovrebbe riguardare i promotori di un pensiero consapevole ed emancipante, dovrebbe affiancarsi a quelle lotte concrete e reali che sono l’energia del cambiamento e aiutare quei soggetti a prendere una coscienza più ampia e strategica del contro cosa e per che cosa lottano. Ricostruire la coscienza dell’intero appunto. Non dettare l’agenda quindi ma l’interpretazione delle contraddizioni. Si presume che questa interpretazione si fondi comunque su dei principi, no? Le svolte storiche comportano la revisione anche dei principi o i principi sono senza tempo? E fino a che punto di astrazione / concretezza lo sono?
Il momento del’autocoscienza è di per sé un movimento riflessivo, ma di nuovo, sembra che la prescrizione terapeutica valga solo dal pensiero all’azione perché questa pensi se stessa e le sue ragioni più ampie, non sia necessaria per il pensiero rispetto a se stesso, magari proprio dopo aver effettuato metà del circuito che dal pensiero porta all’azione, che debba tornare a ripensare se stesso dopo aver fatto il bagno nel reale. Sarebbe invece opportuno (e qui molti si scandalizzeranno, non forse per il contenuto ma per il nome del pensatore) un circuito popperiano per il quale il tentativo di pensiero, alla verifica dell’errore nelle prassi o meglio nell’analisi dei risultati che le prassi danno come stato del reale e della loro capacità di modificarlo, torni su se stesso, auto-modificandosi. Questo circuito cibernetico che qualcuno potrà anche chiamare dialettico o autocosciente, il suo secondo tratto, il tornare criticamente su se stesso dopo aver verificato le conseguenze delle sue disposizioni, sembra sostanzialmente mancare nella tradizione marxista[4].
Quello che in effetti lascia interdetti, ogni volta che si ha a che fare con molti marxisti, è questo loro strano atteggiamento nei confronti di Marx, lo stesso atteggiamento che i musulmani hanno nei confronti di Maometto, l’atteggiamento che fa spesso del Capitale e del Manifesto una shari’a, del marxismo una religione del libro, i virgolettati degli hadit. Lo stesso Losurdo sembra teneramente compiaciuto nel sottolineare quanta genialità dovesse concentrarsi nella sfolgorante mente del pensatore di Treviri, se egli già venticinque anni, diceva tali “verità”. Questo culto della fonte originaria che poi si esprime nella storia di questa famiglia di pensiero con aspre lotte tra cleri che si disputano l’ermeneutica “vera” del testo scritto e di ciò che l’autore non ha scritto ma pensava, che è arrivata a produrre ostracismi dei diversamente interpretanti ritenuti più nemici dei nemici veri, che ha prodotto anche qualche innovatore come Lukacs (Korsch), Bloch, Gramsci, Althusser, i francofortesi, Arrighi ma sempre nella funzione di specificatori, di piccola modifica, di non esplicita conseguenza esplicitata, di sfumatura meglio precisata, di “avete capito male ed applicato peggio” quasi a salvare la Verità Testuale dalla corruzione applicativa, che ha condannato all’inferno Engels quasi fosse la sorella di Nietzsche[5], non ha pari. Imbarazzanti i casi di critica poi ritirata in autocritica di Lukacs ed Althusser. Insomma, molti marxisti sembrano caduti in un imperturbabile sonno dogmatico. Nessuno più si riferisce così fideisticamente ad un testo, né i darwinisti con Darwin, né i liberali con Smith, né i fisici con Newton o Galilei, né gli psicoanalisti con Freud, né più i cattolici con i Vangeli. Chi lo fa è, a ragione, detto fondamentalista (gli hanbaliti nella tradizione islamica, i neo-protestanti della Bible-Belt americana) il ché non è una bella compagnia per i seguaci di quella che è, per quanto eccezionale ed innovativa, “solo” una teoria critica powered by dialectic.
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Ma andiamo con ordine e ripartiamo dall’analisi di Losurdo che denuncia la grave assenza della sinistra, una sinistra tra l’altro non meglio precisata tra radicale e normale, italiana o europea o occidentale. La tesi principale, sintetizzata dallo stesso autore è che la sinistra dovrebbe fare due cose: 1) contrastare le diseguaglianze nella distribuzione dei redditi e dei diritti all’interno delle singole società nazionali; 2) favorire la redistribuzione dei redditi che per altro sta avvenendo per propria dinamica, tra paesi di prima industrializzazione (Occidente) e paesi emergenti provenienti per lo più da una rivoluzione anticoloniale. Sul primo e sul secondo punto, soprattutto sul secondo, Losurdo registra una allarmante incosciente introiezione di schemi di pensiero neoliberale o semplicemente “occidentale” da parte di certa sinistra e non solo quella “normale” che sembra avviata verso un disgraziato posizionamento neo-liberale ed imperiale, cosciente e felice di esserlo ma anche di quella che si ritiene radicale. Perché di questo oblubinamento forse è da ricercare in quella nuova potenza delle classi dominanti che non hanno più solo il monopolio dell’ideologia, verso la quale dovrebbe comunque esser omeopatica la capacità critica che ogni marxista ha in dotazione genetica ma anche il nuovo monopolio delle emozioni che la sofisticata macchina della società dello spettacolo dà loro. Quell’industria della menzogna che opera non stop come terrorismo dell’indignazione in regime di monopolio delle emozioni. A questa macchina pervasiva ed infernale, alcune menti di sinistra non resistono per mancanza di tempo negli approfondimenti, mancanza di lucidità, cedimento emotivo, confusione categoriale, debolezza in quell’autocontrollo che salvò Ulisse dalle sirene. Ne viene fuori la perversa introiezione di una mistica della libertà astratta che confonde Tienanmen con Robespierre, la teologia dei diritti umani con Toussaint Louverture, la democrazia delle élite con quella della Comune, la rivolta anti-fiscale con l’anarchismo generico, il dissidente filo-occidentale, filo-capitalista, filo-neo-liberale con l’eroe delle barricate d’Ottobre, le portaerei che stavano per bombardare Damasco con la Potemkin, Hayek con Bakunin, il pauperismo di certo conservatorismo religioso e medioevaleggiante con la decrescita, lo Stato sociale col Leviatano, il Dalai Lama e Deng Xiaoping con Davide e Golia, la globalizzazione con le moltitudini insorgenti. E se nel frullatore del confondimento cascano da Harvey a Foucault, figuriamoci gli altri.
La sinistra occidentale, si mostra acriticamente prima occidentale e poi sinistra (talvolta) mentre dovrebbe riaffermarsi sinistra e basta. Sembra del tutto sfuggire la matrice imperial-coloniale dell’Occidente, una matrice che non è un accessorio, un epifenomeno come i pennacchi di San Marco, ma un costituente ontologico di necessaria funzionalità per il sistema. La lotta di classe sembra esser stata assorbita dalla lotta tra le nazioni, in omaggio ai principi della competizione planetaria e financo di una certa subliminale retorica dello scontro di civilizzazioni. Un femminismo asimmetrico simpatizza per le Femen e non s’avvede degli stupri etnici dei liberatori dei vari dittatori. Si confondono i Trattati di libero scambio come un omaggio a gli interessi delle multinazionali quando sono la formazione di un accoppiamento strutturale tipo NATO economica, operazione di ben più gravide conseguenze quali la difficile reversibilità. Non ci si avvede dei pericoli concreti di un terzo conflitto mondiale, magari atomico e sebbene motivi per riprendere e serrare le fila dei movimenti per la pace abbondino anche più di quanto si verificò con la guerra irachena, si palesa una inquietante “sinistra imperiale” che gioisce per la Libia, la Siria e chissà se anche per l’Ucraina. Paralizzati dalla paura di vedersi contrati dall’accusa di comunismo e sovietismo con tutto ciò che questo comporta per la sensibilità della libertà, della giustizia, della democrazia, del pluralismo, ormai valori introiettai in quanto “occidentali”, certa sinistra si fa più realista del re, perde il coraggio dell’autonomia, diventa succube del titillamento emotivo manicheo e semplificante che i bombardieri multimediali del Grande Fratello dei Valori, ammanniscono h24. Proprio cadere vittime di semplificazioni è forse il dato più grave, poiché come nota intelligentemente qui Freccero, mano a mano il mondo si fa più complesso, la narrazione pubblica mainstream si fa mano a mano sempre più sincopata, manichea, impressiva, ultra-semplificata. Va de se che in questa divergenza “l’intero” si strappa in coriandoli di senso e di conseguenza il “vero” perde ogni condizione di possibilità.
C’è da dire che Losurdo è un finissimo conoscitore della mentalità liberale[6] il che, lo dico per esperienza diretta, è un titolo di merito assoluto. La fatica emotiva che compie lo studioso nel doversi sorbire pagine e pagine di teorizzazioni provenienti da menti aliene così come capita quando si deve leggere da B.Constant ad F.Hayek, per non parlare degli anglosassoni che ad un certo punto sono anche divertenti tanto quanto sono talvolta assurdi, è un prezzo che si paga alla necessità di compenetrarsi nell’altrui logica, nella conoscenza approfondita dell’Altro. A questa conoscenza senza dubbio sofisticata, Losurdo ha accoppiato una non meno brillante conoscenza della nuova comunicazione, della psicologia argomentativa delle nuove tecniche di persuasione, della nuova capacità di colonizzare non solo l’immaginario come afferma Castoriadis, ma l’inconscio, la sala macchine da cui le emozioni dirigono i confini della ragione e la cifra dei giudizi. E questo secondo merito è per altro cosa abbastanza rara nella tradizione marxista contemporanea anche se è presente in altre impostazioni di pensiero.
Concludo questa seconda parte del nostro discorso dicendo che personalmente concordo più o meno con quasi tutto ciò che qui abbiamo riportato come contenuto della fatica editoriale del nostro e manifesto anche un certo entusiasmo per tesi che non è facile reperire nel dibattito pubblico come l’indignazione per gli stati canaglia del Golfo o la perplessità per come si analizza e giudica la Cina in certi ambienti di pensiero che dovrebbero essere un po’ più accorti nel parlare di cose che forse non si conoscono così bene come l’assertività di certi giudizi pretenderebbe. Un certo “occidentalismo” aleggia anche in menti insospettabili[7]. Il libro è per lo più una ragionata analisi critica dello stato del potere imperiale e neocoloniale a guida americana in cui si fa emergere l’assurdità di una sinistra spesso embedded il flusso dei giudizi mainstream, più a destra di molte fonti giornalistiche e teoriche che di sinistra non sono. Una sinistra arruolata in questo nuovo monoteismo dei valori che è il corpo portante di un’occidentalità assediata, un’occidentalità che diviene sempre più rabbiosa, rissosa e canaglia viepiù perde le condizioni di possibilità che ne hanno fatto il successo degli ultimi due secoli.
Detto ciò, però, riprenderei l’interrogazione principale: perché tutto ciò? Perché proprio qui, nel fatidico spazio – tempo in cui una sinistra dovrebbe trovare le sue migliori condizioni di possibilità, si manifesta invece un buco ontologico, una assenza?
A questo interrogativo cercheremo risposte nella prossima parte.
[1] D .Losurdo, La sinistra assente, Carocci, Roma, 2014
[2] C. Preve, Storia critica del marxismo, La città del sole, Napoli, 2007
[3] Lettera ad A.Ruge, Marx-Engels, 1955-1989, vol. I, p.345
[4] Mi sembra che Preve imputi questa mancanza in Marx, al fatto che troppo presto abbandonò l’elaborazione filosofica del suo pensiero. La biografia intellettuale del tedesco, conferma che dopo gli studi in Germania, egli fu ben presente nel nascente movimento politico, soprattutto nel soggiorno francese e che intellettualmente, fu rapito dal percorso di svelamento dell’economia politica che però, contestualmente, egli dovette studiare a fondo nel soggiorno londinese. Il tutto, avendo poi in proprio elaborato i fondamenti dell’analisi sociale da cui la successiva “sociologia” ed essendosi impiegato nella ricerca storica ed antropologica, oltre a rimanere in contatto con le vicende del nascente movimento comunista. Infine, continuò a svolgere l’attività giornalistica e quella di polemista in lotta con tutti i diversi punti di visti che un movimento politico-ideale produce soprattutto al suo impetuoso inizio.
[5] Ci si riferisce all’annosa questione della gestione post-mortem del lascito intellettuale di Nietzsche che alcuni (da M. Montinari in poi ed a partire dalla raccolta postuma “La volontà di potenza”) ritengono esser stato manomesso dalla sorella che aveva forti simpatie ed interessi con il nazismo. Da ciò la “leggenda nera” sul tedesco che una ermeneutica più ragionata ha cercato di dissipare. Nietzsche è un caso assai complesso de “il vero è l’intero”, tant’è che abbiamo un Nietzsche anarchico, uno aristocratico, uno addirittura metafisico (secondo Heidegger), uno di sinistra ed uno di destra e diversi altri. La forma espressiva ad aforismi, come spesso accade in questi casi, aiuta il formarsi di questo caleidoscopio dell’interpretazione che però è anche dilatato dal doppio percorso parallelo tra lo svolgimento della riflessione nel tempo e il crescere del disagio psichico dell’autore.
[6] D. Losurdo, Controstoria del liberalismo, Laterza, Roma-Bari, 2005
[7] La questione dell’occidentalismo meriterebbe una trattazione a sé. Credo che però ci sia una semplificazione, un occidentale -a mio avviso- non può che essere occidentalista. Il problema è riferirsi ad una forma chiusa, unica e monopolista del concetto. Penso cioè che la sinistra delle nostre parti, dovrebbe rivendicare un suo occidentalismo e non far finta di essere un universale che non è (tra l’altro, la pretesa universalistica in sé è uno dei fondamenti del canone occidentale dominante), da cui la ricaduta sistematica in un occidentalismo in cui non dovrebbe essere. Questa mancanza di una lucida autonomia concettuale, di una posizione che impone i concetti e non si fa dilaniare nei dubbi sullo schierarsi su coppie dialettiche imposte dai croupier del gioco, è un di cui del più generale tema che tratteremo in questa analisi a tre puntate.