La gerarchia nei gruppi umani, è funzione della distanza tra il singolo individuo e gli altri, tra il singolo individuo e il problema del Tutto. Vediamo più da vicino le due parti di questo assunto.
1. L’era dei piccoli gruppi. Prendiamo venti-tranta individui che non si conoscono, mettiamoli in una isola deserta (senza telecamere o almeno coscienza che ci siano) e vediamo che tipo di dinamiche gerarchiche compaiono. Probabilmente nessuna. Nessuno cederebbe sovranità di intenzione spontaneamente (decidere in proprio), né, in questi piccoli aggregati, può esistere alcuna coercizione che porti un individuo a sottomettersi ad un altro se non in casi speciali e patologici. In questa condizione, non solo tutti conoscono tutti ma tutti conoscono il Tutto. Il Tutto è l’insieme dei problemi che il gruppo ha come unità, conoscenza dell’ambiente, come sopravvivere, come proteggersi, quale strategia adattativa darsi in quanto gruppo, come suddividersi i compiti. Tutti sanno di questi problemi ed ognuno ha la propria opinione su come affrontarli. E’ assai probabile che la struttura politica che questa comunità si darà, sarà di tipo democratico. Democratico, in questo caso è il sistema con il quale si prendono le decisioni, in cui si manifesta l’intenzionalità del gruppo come se questo fosse un individuo. In pratica, avremo decisioni a maggioranza dopo lunghe discussioni. Le discussioni saranno basate certo sul giudizio personale, ma questo sarà inquadrato entro certi limiti: 1) sapere di cosa si sta parlando (altrimenti si ascolterà qualcuno che ci sembra saperne di più); 2) non essere manifestamente volto all’interesse personale ma a quello generale; 3) essere espresso da individui che nel tempo si costruiscono una reputazione e che prontamente verranno chiamati a rispondere delle loro opinioni ove queste, alla prova dei fatti, si manifestassero erronee. Il rispetto di questi limiti sarà garantito dal controllo di tutti su tutti ovvero dal governo collettivo del rimanere entro questi limiti. Il senso di equità e giustizia, di reciprocità e dedizione alla causa comune, saranno i principi impliciti delle interrelazioni tra individui poiché questi principi sono ciò che farà funzionare il loro gruppo e il loro gruppo è l’assicurazione sulla loro vita individuale. Nel tempo, potrebbero manifestarsi principi di delega di potere controllato, ovvero delega ad un individuo “esperto” o “più idoneo” a guidare il gruppo in una determinata attività. Poiché le attività del gruppo saranno molteplici, molteplici saranno i “capi” a seconda del tipo di attività. Si potrebbe definire questa forma “ad-hoc-crazia” ovvero governo ad hoc rispetto a specifici problemi; il capo caccia o pesca, il capo accampamento, l’architetto, il cuciniere, variamente in versione maschile o femminile, giovane o anziano etc. . E’ questa la descrizione delle società più antiche, quelle dei cacciatori e delle raccoglitrici. Già la definizione mostra di questa complementarietà. I cacciatori certo portavano grandi apporti di proteine e pezzi succulenti di carne da arrostire da cui il loro relativo prestigio sociale.
Relativo, perché il risultato della caccia era incerto mentre il bisogno di mangiare quotidianamente era certo. Ecco allora che la raccoglitrici, provvedevano con una dieta forse meno interessante ma costante. Qualità saltuaria vs quantità certa, forse era questo il mix di sostentamento di questi piccoli ed antichissimi gruppi umani. I giovani avevano forza ed intraprendenza ma anche imprudenza e scarsa esperienza, valori simmetrico inversi a gli anziani, da cui il relativo prestigio di entrambi. Alla bisogna tutti avrebbero potuto far tutto ma perché far male qualcosa che qualcun altro per esperienza o inclinazione, sapeva far meglio? Ma questo “poter far tutto” potenziale, rimaneva importante dal punto di vista del contenuto delle deleghe. Solo chi sapeva di cosa si delegava, era in grado di delegare il migliore, il giudizio presupponeva conoscenza. Non tutti facevano tutto ma sapevano del tutto che delegavano. Questi gruppi, pare siano arrivati alle soglie della stanzialità, al seminomadismo che era una stanzialità itinerante in circuiti. Le stime, parlano di fino a cento o duecento individui per queste unità sociali. Ma forse questa struttura si è spinta anche più in là, lungo tutta la lunga transizione che portò la maggioranza dei gruppi dalla piena stanzialità, al successivo modo di produzione agricolo. Ormai si ritiene che la stanzialità fu un adattamento dovuto al numero degli individui nei gruppi umani. L’agricoltura, o meglio la cura intenzionale della produzione alimentare naturale, dalla cura del selvatico all’orticoltura e solo dopo trapianto di sementi, fu un lungo passaggio conseguente questo primo adattamento.
2. L’era dei grandi gruppi stanziali. Gli antropologi, dopo questo primo dei tre tipi schematici di società umana, prevedono un secondo assetto che introduce il principio di gerarchia semplice, il chiefdom o letteralmente dominio del capo. Qui il capo è capo per tutte le cose, non capo ad hoc, quindi perde il carattere di capacità intrinseca al singolo problema dato e diventa un generalista la cui unica vera capacità è l’essere capo. La gerarchia corta e variabile, diventa allungata e fissa. Probabilmente all’origine anche questo “capo” era un delegato ad-hoc e probabilmente non era un individuo, almeno in prima istanza, ma un gruppo di rappresentanti gruppi secondi, ad esempio il capo-famiglia, il più anziano o più speso la più anziana (visto che le donne tendono a vivere di più), i capi clan che formavano un consiglio dei capi, i maggiori produttori di sussistenza (cacciatori, allevatori, agricoltori, artigiani) interpellati per questioni ad hoc. Forse questi gruppi di prima élite eleggevano poi democraticamente un capo che era più un delegato al coordinamento,che non un plenipotenziario. A questa figura si riferisce l’espressione primus inter pares. Si tenga conto di questa democrazia delle élite perché la ritroveremo anche in tempi successivi.
Le élite delle società più complesse saranno tutt’altro che democratiche nel loro governo della massa ma per gli stessi principi della democrazia dei piccoli gruppi, è facile siano democratiche tra loro, al loro interno. Altresì, questi “capi” singolari o plurali è probabile fossero revocabili e la loro posizione non era ereditaria. In un secondo tempo le élite diventarono chiuse e il potere condensandosi in sempre meno mani, venne trasmesso tra pari (magari con qualche lotta di successione o addirittura favorendo la successione con l’omicidio) o addirittura a discendenti all’interno della stessa famiglia. Già a questo primo stadio di complessità che corrisponde a gruppi umani già di una certa consistenza e già da tempo stanziali, notiamo due fatti che riconducono al nostro assioma iniziale.
Non tutti conoscevano bene tutti, c’era un raggio di intimità che disegnava gruppi probabilmente famigliari, gruppi stanziali originari versus quelli che affluirono dopo, gruppi che vivevano più vicini o la cui attività specializzata era comune e diversa da quella degli altri. Ma soprattutto non tutti più sapevano del Tutto. Gli agricoltori nulla sapevano di caccia e di allevamento e viceversa, gli edili e gli artigiani poco sapevano di sussistenza, chi giungeva da fuori di recente nulla sapeva delle tradizioni stratificate e trasmesse oralmente, chi aveva abitudine al contatto esterno (altri territori, altre comunità) perdeva contatto con tutte le specificità interne alla comunità. Per colmare questo buco di conoscenza, questa alienazione dal Tutto, per dare un senso prestabilito a ciò che cominciava a sfuggire, compare la trasformazione degli sciamani in sacerdoti, fu questa la prima comparsa di un processo impersonale, quella narrazione condivisa che poi chiameremo “immagine di mondo“, che sostituiva la relazione diretta e la conoscenza allargata. Questo stadio, poiché corrisponde ad aggregati umani più grandi, è anche quello in cui compare una sistematica frizione tra tribù contigue, dispute territoriali, concorrenza per le risorse, sgarbi reciproci. Queste società più grandi e quindi più complesse, nonché stanziali, diventano anche molto più sensibili a quei cambiamenti climatici che modificano l’economia di sussistenza. Questo turbamento sociale produce lo scontro più o meno sistematico e con esso una nuova specialità: il guerriero.
Dalla bulimia del possesso di prestigio e ricchezza delle élite, prestigio e ricchezza che son poi le ragioni per cui un gruppo umano domina sull’altro, all’interesse del capo a dominare porzioni sempre più grandi di popolazioni e territorio, sino alla necessità dei guerrieri ad avere qualcosa per cui guerreggiare pena la perdita del loro stesso ruolo sociale ed esistenziale, il tutto coadiuvato da sacerdoti coinvolti nella difesa della supremazia dei propri dei-narrazioni, inevitabilmente veri tanto quanto quelli degli altri irrimediabilmente falsi, tutto spingeva alla guerra. E con questa, la saldatura dei guerrieri e dei sacerdoti con le élite di governo. Questa triarchia ha forte comunanza d’interessi nell’espandere il dominio che porta ricchezza e prestigio, dominio che tanto più si amplia tanto più rende complessa la società quindi tanto più lontano tutti da tutti e dal Tutto, tanto più in grado le élite di esercitare il divide et impera interno e dare il proprio corso interpretativo all’interesse del gruppo poiché unici in grado di interpretare il Tutto in nome e per conto di tutti. Paura del nemico, degli spiriti, delle punizioni, dell’esclusione sociale tengono buoni i tutti smarriti, subalterni e sempre più ignoranti. L’ordine gerarchico sulla complessità sociale crescente trionfa dappertutto, ovunque nello spazio-tempo della geostoria umana si volga lo sguardo, è una costante.
3. L’era degli Stati, dei Regni, degli Imperi. Si arriva così alla terza forma che non è altro che l’evoluzione per quantità e solo dopo per qualità, degli ultimi stadi della precedente, lo Stato. Dello Stato, colonna vertebrale è la burocrazia, la parte centrale al servizio dell’autorità ultima ma più che altro a servizio dell’intero sistema. La rete dei poteri delegati per territori e per funzioni (militare, economico-commerciale, religiosa) è lo scheletro articolato, l’élite di comando risiede nella scatola cranica, è chi decide dell’intenzione di gruppo. Nello Stato le distanze tra cittadini sono dilatate al massimo e la condivisione di conoscenza del Tutto ridotta al minimo. Ogni cittadino è iscritto in una specifica funzione ma le funzioni non intercomunicano se non attraverso la struttura ossea dello stato. Ogni funzione organica ha organi e sistemi che la connettono a rete al suo interno e con tutte gli altri organi-funzione. Le funzioni organiche sono i processi, i sistemi a cui danno vita sono sottosistemi del sistema generale, la logica di funzionamento degli organi è presidiata da élite che rimandano ad una gerarchia delle élite interna alla gerarchia sistemica generale.
I processi sono impersonali come ad esempio lo scambio mercantile, la stratificazione sociale, la cultura di massa e quella degli ambiti specifici, la stessa divisione del lavoro e delle conoscenze. Il rapporto tra gli individui ed i processi è di sola sudditanza, nessuno ha individualmente la possibilità di rifiutare o modificare i processi se non ponendosi ai limiti o oltre ai limiti del sistema sociale, al prezzo quindi dell’autoesclusione dalla socializzazione. Questa esclusione è la più antica ed estrema forma di sanzione sociale: emarginazione nei casi più lievi, ostracismo nei casi più gravi. Il gruppo che protegge l’individuo sanziona i ribelli con la revoca della protezione.
Questi processi “s’impongono” come strategia adattativa e quindi vengono introiettati come “bene comune”. L’ordine funzionale è desiderato da tutti e il disordine temuto da tutti. Ogni qualvolta nella storia si crea una piccola breccia del sistema dominante, consegue una inflazione di disordine e prontamente la ferita viene saturata non solo dalle élite ma da tutti, poiché essi diventano dipendenti da quell’ordine, anche quando questo non è esattamente nel loro pieno interesse. Sebbene gli umani siano enti autocoscienti, i processi gerarchici nei quali sono chiamati ad interpretare la parte prevedono la scelta di un limitato o nullo range di possibilità, questo li fa assomigliare ad insetti eusociali, automi a cui è richiesto di interpretare un parte già scritta e prevista dal funzionamento del Tutto. L’impersonalità di questi processi ha fatto scoprire alla filosofa H. Arendt che, ad esempio nel caso del nazismo, il “male” era un prodotto banale, figlio non del Grande Malvagio ma del processo impersonale guidato da una immagine di mondo condivisa. Ogniqualvolta, anche nelle cronache recentissime, si indaga su i corredi delle guerre, si scopre sempre lo stesso catalogo di inspiegabili inumanità fatto di bambini trucidati, violenza sessuale, tortura, godimento sadico nell’infliggere dolore, sospensione delle funzioni empatizzanti dei neuroni specchio. In questi casi infatti non abbiamo più persone ma im-persone ovvero processi che impongono la s-personalizzazione.
I sottosistemi, famiglia, scuola, azienda, esercito, chiesa, gruppo politico, sono celle in cui è divisa l’architettura sociale, in cui l’individuo è l’interprete dei processi che quei sottosistemi prevedono. Le élite locali sanno sempre e solo del Tutto di quel determinato sottosistema e fungono da guardiani di quel processo, Le élite generali sono i guardiani ed i gestori del gioco principale che quella società si è trovata a giocare. Furono militari per lungo tempo, poi religiose nel Medioevo, poi industrial-commerciali nella prima modernità e finanziarie di recente (ma il dominio delle élite produttive o di quelle finanziarie, nel sistema moderno, è turnario). Nella modernità, élite generali sono anche quelle politiche in simbiosi prima con quelle commercial-industriali, oggi con quelle banco-finanziarie. Il modello complessivo è frattale. Vi è un sistema generale scomponibile in sottosistemi afferenti, un processo generale (essere/divenire) scomponibile in sottoprocessi componenti, una élite superiore che domina le élite inferiori che dominano le singole individualità poiché governano i processi e i sottosistemi nei quali queste sono ordinate. Il modello è una federazione delle funzioni (impersonali) e delle loro élite, non certo degli individui che vi sono compresi.
Nelle società sopratutto occidentali contemporanee, il modello si è ulteriormente complessificato poiché ogni singolo Stato non è più un a sé dotato di auto-sovranità ma si è infilato in reti di logiche superiori che lo fanno diventare sottosistema. Diventare sottosistemi di sistemi più ampi aggrava la distanza tra i componenti ed aggrava in maniera esponenziale il problema della conoscenza e quindi controllo del Tutto. Ciò coincide con l’aumento di eteronomia e diminuzione di autonomia. Questa grande complessità funziona solo con processi sempre più impersonali, in cui il Tutto è irriflesso, in cui nessuno sa più dire cosa e chi sia causa di fatti ed eventi.
Il Tutto è ormai diventato puramente esoterico, tanto più grande il suo corpo organico-funzionale, tanto più piccola, remota ed imperscrutabile l’élite che tenta di controllarlo. Come notava Bobbio (Tacito prima di lui, Chomsky dopo di lui), tanto più grande e complesso l’impero, tanto più imperscrutabili ed inconoscibili gli arcana imperii, tanto più lontano dalla democrazia ci troviamo poiché il Tutto diventa trascendente. L’élite ultima (o prima) certo può contare su competenze e risorse, sullo schema a piramide per cui esse sono collegate a strati di élite sottostanti, ma per incommensurabilità tra la complessità della faccenda e le capacità umane, le élite sono in fondo non regali ma sacerdotali. Le élite regali sono le élite ultime, quelle che agiscono con intenzione, per sé e nel pieno controllo del sottostante. Monarchie assolute, dittatori, tiranni, proprietari d’azienda sono di questo tipo. Le élite sacerdotali sono le élite penultime, quelle che agiscono con intenzione, non solo per sé ma nell’interesse del processo di cui sono il clero, c’è un Dio sopra loro. L’impero la cui logica è trascendente diventa quindi pienamente trascendentale e la conoscenza dei suoi processi, teologia pura. Questo Dio è un processo impersonale che chiamiamo “modo di stare al mondo”. Il “modo di stare al mondo” occidentale è quello di ordinare la società facendola giocare al gioco della produzione e scambio, mentre le élite giocano nel Casinò del Far West dove contano dollari e pistole. I primi sono convinti di vivere in un mondo reale ed educato, nel pieno possesso delle proprie facoltà intenzionali, osservanti i dogmi che vengono inculcati con premi e punizioni quando in realtà sono le comparse del film i cui registi si disputano i passaggi di sceneggiatura tra lanci di fiches, tavoli rovesciati e sfide a duello tra bande nella pubblica via. L’intellettuale funge da pianista del bordello mentre il sacerdote consola il pubblico-comparsa attonito, promettendo per “dopo” un’altro film più bello, visto che questo che stanno girando è assai bruttino.
Il simmetrico inverso di questo stato di cose dominato da gerarchie sempre più complesse e sempre più impersonali è riportare tutti a contatto diretto con tutti e riportare il Tutto a conoscenza dei tutti.
4. La comunità democratica. Le comunità umane saldate dal contatto reciproco, quelle in cui le distanze fisiche tra le parti componenti (gli individui) sono ridotte al minimo, sono i sistemi più naturalmente democratici, quelli in cui la democrazia è imposta come regola da tutti perché è nel naturale interesse di tutti badare ai fatti propri dove i fatti propri non sono il recinto privato degli affari personali ma tutti i fatti che determinano la nostra condizione esistenziale e sociale, fatti che ci riguardano perché ci determinano.
Tra i vari istituti democratici alle base della democrazia ateniese, dal diritto di parola pubblica in assemblea (isegoria), all’uguaglianza di fronte alle leggi (isonomia), all’uguaglianza davanti alle decisioni (isopsefia ovvero la famosa “una testa – un voto”), al salario di partecipazione tanto per la partecipazione all’assemblea, quanto per l’investimento di tempo privato in attività pubblica in favore dell’autogoverno della comunità (istituto introdotto da Pericle quando la democrazia si aprì ai più bassi strati sociali), all’ethos che spingeva alla partecipazione attiva ed alla presa di responsabilità, al dialogos che era norma dell’interrelazione umana pubblica, c’era anche la parresia, La parresia era l’identità tra pensiero e parola, l’onestà intellettuale, la franchezza, dire ciò che si pensa, la coerenza, l’intenzione manifesta. Oltre a gli altri istituti, nei sistemi umani grandi e grandissimi in cui si perde il contatto e la conoscenza reciproca, la parresia è quella che soffre maggiormente poiché lungi dall’essere un predisposizione naturale umana, essa vige nella misura in cui gli altri ci controllano e ci contestano le eventuali effrazioni a questo codice. Più in generale, questo punto fa parte di un argomento che potremmo chiamare “la reputazione” conosciuto anche come “onore”. Nei piccoli gruppi la reputazione è controllata dagli altri e non è manipolabile poiché è immediatamente e da tutti verificabile direttamente. Se la reputazione non è controllabile essa è facile preda di manipolazione e la falsa reputazione porta il governo di tutti a diventare demagogia, governo dei peggiori a cui prontamente qualcuno opporrà come soluzione il simmetrico contrario, il governo dei migliori ovvero l’aristo-crazia o governo delle élite[1].
L’istituto politico della modernità contemporanea più vicino alla possibilità di avere gruppi umani in contatto diretto, sarebbe una democrazia diretta e partecipata delle comunità, dove “comunità” non è un qualsivoglia gruppo umano ruotante intorno ad un particolare interesse comune come il luogo di lavoro o come è su Internet, ma il gruppo umano che ruota intorno al fondamento esistenziale comune, lì dove si vive, dove c’è casa-famiglia-amici, cioè il territorio specifico. Tali comunità dovrebbero esser assemblate in sistemi meta-comunitari del tipo federale. Potrebbero esserlo dentro un contenitore coincidente con lo stato-nazione o dare vita a contenitori federali più ampi. Ma è bene tener conto che l’architettura funzionale dell’agire politico è solo una precondizione, una condizione di possibilità che è bene avere ma su cui non si può contare passivamente come di una forma che esprime per forza un certo contenuto. L’istituto sistemico basato sull’apporto individuale alle scelte è solo una precondizione delle condizione più importante: la possibilità reale e la capacità di dare apporto individuale alle scelte collettive ovvero sapere dei tanti argomenti che riguardano la vita collettiva associata ed aver capacità di esprimere il proprio giudizio sul bene comune. La democrazia reale è sempre stata molto difficile da raggiungere ma dove la si è raramente provata, spesso, ha mostrato di essere un istituto tutt’altro che facile e altrettanto spesso è degenerata o in demagogia, in confusione paralizzante o in facciata formale dietro alla quale le élite etero-dirigevano i processi reali. Non basta poter decidere, occorre anche il saper prendere decisioni informate. Che la democrazia non sia “facile”, spesso non è considerato. Che di per sé sia solo una pre-condizione, che richieda molteplici istituti socio-economico-culturali per funzionare e che il suo primo compito dovrebbe essere riprodurre se stessa (ovvero migliorarsi, ampliarsi, costantemente), anche. Che a fronte di queste difficoltà oltre a quella principale di esser stata sistematicamente boicottata e fisicamente impedita dalle tante élite che hanno interpretato l’universale gerarchico, valenti studiosi sorridano dicendo “non funziona e non funzionerà mai”, scoraggia.
La democrazia delle conoscenze. Eccoci dunque al secondo punto del nostro assioma iniziale, al rapporto tra il singolo individuo ed i problemi del Tutto. Il Tutto ateniese era già complesso essendo la città abitata da più di 120.000 individui e sebbene gli aventi facoltà di dirsi cittadini fossero solo 30-40.000 e ricordando che la città era in realtà un piccolo stato. Non solo tutti più o meno conoscevano tutti, ma tutti erano facilmente in contatto con buona parte dei problemi del Tutto, la giustizia, la difesa, scopi ed organizzazione della marina, il commercio, le alleanze. Ma anche nelle ridotte dimensioni del caso ateniese, tra gli istituti fondativi di una buona democrazia, si prevedeva la paideia, ovvero l’insieme dei comuni elementi culturali che costituivano la dotazione formativa e conoscitiva degli individui democratici. In un cero senso, prima ancora dell’eguaglianza sociale degli individui dovrebbe coltivarsi una certa forma di uguaglianza delle conoscenze. Nel dibattito filosofico ad esempio, si è soliti parteggiare per Socrate e Platone nella loro critica alla sofistica, ma il problema filosofico vero è: “perché l’istituto dell’educazione di massa (pubblica, obbligatoria e gratuita) hadovuto attendere il marchese di Condorcet ovvero il XIX° secolo ?”. Se la democrazia è l’istituto della scelta collettiva dei singoli individui comunitari, non bisogna solo coltivare la possibilità di scelta, ma anche e soprattutto la capacità di scelta, altrimenti l’istituto non funzionerà.
E’ l’asimmetria delle conoscenze a creare le élite, fu questa l’ineguaglianza originaria che si produsse alla nascita delle prime società complesse.
L’enorme complessità delle rete che collega le società del mondo e intesse le società stesse, il poco tempo a disposizione per prolungare l’apprendimento oltre i due decenni della giovinezza, il sequestro dell’attenzione umana nel lavoro, nell’organizzazione domestica e nell’auto-stordimento d’evasione, la frammentazione dei saperi in rigide discipline non intercomunicanti, l’ossessione specialistica e la proliferazione di linguaggi tecnici, la funzione “pifferaio magico” dei generici leader d’opinione, la malsana educazione ad occuparsi solo di frazioni di realtà e la disabitudine ad interconnettere queste frazioni, il veicolare il dibattito pubblico su format passivi o quando attivi limitati nello spazio-tempo, sono tutti processi tesi ad impedire a tutti, la visione e quindi il giudizio informato sul Tutto.
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Infine: dalla gerarchia, alla democrazia. La gerarchia è una delle forme che può strutturare le unioni degli individui umani, facendoli diventare grandi sistemi funzionali. Sistemi famigliari, aziendali, politici, economici, culturali si saldano nella rete di tutte le reti: la società gerarchica. Essa assolve al compito di unire ordinatamente individui non in grado di unirsi senza intermediazione, difficoltà dettata dalla dimensione del sistema. La presenza e la rigidità del sistema gerarchico è inversamente proporzionale alle dimensioni del gruppo umano da ordinare. La gerarchia assolve altresì alla mancanza dell’intelligenza collettiva. Alla mancanza di forme di intelligenza condivisa ovvero costruita dal dialogo e l’interrelazione tra individui, si fa fronte con una intelligenza impersonale. Questa prende il contenuto di una immagine di mondo fondata su dogmi rinforzati da tradizioni, continuamente ribaditi dai sistemi formativi ed informativi, mentre prende la forma dalla duplicazione della forma gerarchica nell’accesso alle conoscenze e nella delega sistematica all’autorità nell’uso della propria ragione che ha poco spazio, poco tempo e pochi veri elementi di conoscenza su i quali esercitarsi.
In breve: in un sistema umano di grandi dimensioni, gli individui diventano funzioni fisico-chimiche del corpo e le élite diventano l’unica sede dell’analisi e dell’intenzione. Questa metafora molto usata (da l’Hobbes del Levitano in poi) è la classica falsa analogia poiché differentemente da atomi, molecole, cellule, formiche, ingranaggi e puleggie, gli individui umani sono naturalmente dotati di intenzionalità. L’intenzionalità che scaturisce dal patrimonio personale e collettivo del sapere utilizzato da procedure di pensiero che chiamiamo intelligenza, è (in senso aristotelico) “essenza umana”. L’essenza è la definizione e la nostra definizione quanto a specie, è specie“sapiens” del genere “homo”. Eppure la gerarchia che informa la vita umana collettiva da soli 5/6.000 delle decine di migliaia di anni di vita della specie e del genere, è il sistematico sequestro di questa essenza. E’ l’alienazione coattiva che espropria l’individuo della sua ricchezza cognitiva in favore dell’iper-accumulazione delle conoscenze e delle intenzioni dentro processi impersonali, curati e diretti da élite a loro volta “sacerdoti del processo”.
La gerarchia ha avuto meriti funzionali adattativi nelle ere semplici, pur al prezzo di una sistematica alienazione dalla nostra essenza umana. Ma nell’ era complessa essa diventerà disfunzionale, disadattativa. Nell’era complessa, tutto sarà assai mutevole, richiederà continuo adattamento, reazioni veloci, disponibilità ad inventare e provare per tentativi ed errori, esplorazioni degli spazi di possibilità, coraggio ed autonomia, cooperazione e solidarietà, creatività, elasticità, resilienza, ripartizione diffusa delle molte difficoltà che si incontreranno nel processo adattativo al nuovo modo di essere del mondo, richiederà continuo travaso di conoscenze e riformulazione costante dell’immagine di mondo. Questo elenco di caratteri ha la sua perfetta negazione nel sistema gerarchico-elitario ed ha la perfetta espressione nel sistema cognitivo umano. Più adatta ai tempi che ci vengono incontro, sembra essere una democrazia sapiens fatta di più piccoli sistemi tra loro integrati con distribuzione quanto più egalitaria è possibile, della conoscenza. Idealmente, connettere tutti con tutti e dare a tutti accesso e visione del Tutto.
Ciò che ci ha portato ad adattarci per cinque-seimila anni, società gerarchiche sempre più grandi, ci porterà un disadattamento nel nuovo contesto del mondo complesso. Dobbiamo tornare a guardarci in faccia, parlarci, discutere, scambiare informazioni e punti di vista per direzionare intenzionalmente il nostro modo di stare al mondo. Questa è la difficile rivoluzione che ci aspetta.
[1] La democrazia ateniese dei tempi di Pericle è stata a suo tempo mitizzata e poi de-mitizzata. L. Canfora, in particolare, ha svolto un ruolo di approfondimento e precisazione secondo il quale la democrazia ateniese, in fondo era una forma impero governata da un elitismo soggetto alla pubblica dialettica ed approvazione. Qui si rifà anche al giudizio di Weber secondo cui Atene era una gilda che si spartiva il bottino e di Tocqueville secondo il quale era una aristocrazia piuttosto ampia. Certo non si può pretendere che la democrazia nascesse come Atena dalla testa di Zeus già bell’è pronta e comunque da dopo Pericle degenerò e non fu mai più tentata, con pari estensione e convinzione. La democrazia è solo un istituto per la scelta pubblica e la gestione delle scelte. Il corpo sociale che vi ricorre dovrebbe esser soggetto a certi tipi di pre-disposizione su i quali non si è posta la dovuta attenzione. Personalmente, non approvo l’atteggiamento tra il rassegnato ed il fatalista che accompagna il giudizio su questo istituto. La democrazia non è facile ma non è impossibile, è naturale ma non è spontanea nelle società complesse. Verificare che è rara, difficile e non spontanea significa solo che dovrebbe essere oggetto di una attenzione ed intenzione costruttiva meditata. La differenza tra evoluzione ed emancipazione è in questa differenza di atteggiamenti, l’uno pensa che esistano vie semplici, spontanee, meccaniche di progresso, l’altro pensa che esistano vie complesse, intenzionali, faticose. Per gli individui autocoscienti, l’evoluzione è emancipazione.