KANT E LA VISIONE COSMOPOLITICA.

Cosmopolitismo è in genere definito l’atteggiamento di chi sente civilmente parte del mondo, cittadino del mondo. Ma l’etimologia è un po’ più complessa. Cosmo è inteso come mondo ordinato c’è un mondo ordinato (cosmo) ed un mondo disordinato (caos). La radice di “politismo” è più complessa perché può significare cittadino, così come città (polis) , cose che afferiscono alla gestione della città ed al ruolo del cittadino (politica). C’è dunque un cosmopolita, ma anche istituzioni e pensieri cosmopolitici, così come una cosmopolitica, la politica che rende ordinato (cosmo) il mondo. Tra il primo e i secondi e terzi cambia la prospettiva in quanto ci si riferisce all’individuo (il cittadino del mondo) o al sistema (pensare o fare politica per rendere ordinato il mondo, farlo cosmo).

scritti-politici_9788802083179-220x344La prospettiva dell’individuo, a noi, interessa meno. Interessa nel senso che si può registrare che già nell’Antica Grecia c’era chi spingeva col pensiero ed il sentimento, a non rinchiudersi nell’universalizzare la particolare condizione locale come se quel pezzo di mondo fosse il mondo intero. C’era cioè chi, ieri come oggi, ha consapevolezza che la particolarità è tale, che lo spazio-tempo in cui siamo è solo un di cui di uno spazio-tempo più ampio col quale occorre fare i conti, analizzare e curare le relazioni. Lodevole senz’altro, ma ciò che qui più ci interessa sono gli strumenti concettuali, le idee che possono supportare questo invito a considerare il mondo tutto come un sistema da organizzare ed ordinare, attraverso l’intenzionalità umana organizzata, più collettiva che individuale poiché è questa la naturale condizione della convivenza umana che è la naturale condizione umana tout court. .

Non necessariamente la cosmopolitica è antinazionale. La nazione è una entità che può esser considerata irrelata, ed allora abbiamo contrapposizioni, guerre ed un mondo in definitiva caotico o relata (ad altre nazioni ed all’ambiente che condividono) ed allora abbiamo progetti di consessi inter-nazionali, federazioni, confederazioni, regolamenti giuridici sovra-nazionali ma contrattati tra le stesse nazioni, cioè attraverso l’interrelazione politica. Che l’esito della cosmopolitica sia l’Uno mondo è da intendersi in due modi possibili, una unica nazione-mondo che sarebbe altamente improbabile, instabile e che è molto oltre i nostri orizzonti storici o un sistema ordinato e coordinato (un cosmo) di nazioni in reciproca interrelazione codificata. Quest’ultima è l’idea prevalente che guida Kant nelle sue riflessioni politiche.

Erroneamente si è iscritto Kant al primo partito. Sia in Idea per una storia universale in un intento cosmopolitico (1784), sia in Per la pace perpetua (1795), Kant si occupa di cosmopolitica ovvero delle ragioni e dei modi attraverso i quali le nazioni, gli stati, potrebbero uscire dalla loro condizione di minorità (il modo hobbesiano del tutti contro tutti) per accedere ad una condizione di ragione (un cosmo ordinato fatto del tessuto delle interrelazioni pacifiche tra loro). Il primo scritto è una riflessione propedeutica al secondo che propriamente è lo schema di un possibile trattato giuridico realista, non una fuga nel migliore dei mondi possibili secondo una etica sognatrice. Soprattutto il secondo, è riesumato anche editorialmente, ogniqualvolta scoppia una guerra di una certa rilevanza. Si ricorre al saggio (Kant) che ammonisce su i difetti della guerra ed i pregi della pace, come si ricorre ai consigli della nonna, consigli di cui ci ricordiamo solo dopo aver compiuto una qualche effrazione, una sorta di retroattivo ammonimento etico che ci faccia sentire un po’ colpevoli ma poi non tanto perché si riconosce prontamente la propria colpevolezza. Salvo poi continuare a fare quello che si è sempre fatto.

imagesInfatti, la riflessione cosmopolitica kantiana è rimasta pressoché solitaria. Non risulta esserci una ampia pubblicistica non sentimental-retorica che si faccia domande e cerchi possibili risposte al problema della convivenza umana planetaria, se non il filone del pensiero economico che già nel XVIII° secolo pensava che una rete aperta di scambi tra entità private, fosse di gran lunga (e per l’economia e per la pace) preferibile alla rete continuamente interrotta e frammentata dell’atteggiamento mercantilista. Ma questa idea non ha nulla a che fare con la cosmopolitica poiché dissolve la politica in quanto dissolve lo stato-nazione quale soggetto ed oggetto del problema delle piene interrelazioni ordinate (cosmo) tra pari soggetti politici, tra poleis. Per intenderci, l’internazionalizzazione e poi globalizzazione economica, peggio ancora finanziaria, ha a che fare con la cosmopolitica meno di quanto non abbiamo a che fare i campionati mondiali di calcio. In questi ultimi infatti, liberi soggetti sportivi stato-nazionali, si incontrano in modo codificato per fare una competizione regolata da leggi, al fine di primeggiare e divertirsi. E’ un fare una cosa assieme, un gioco, una modalità che costruisce cosmopolitica tant’è che le rissose poleis greche sospendevano le loro interminabili reciproche guerre, proprio per fare i Giochi olimpici, una interrelazioni codificata del fare qualcosa assieme di pacifico, addirittura di ludico. L’internazionalizzazione economica ha qualcosa a che fare con la cosmopolitica sebbene qualcosa di meno importante di quanto non sia la condivisione ludica. Avere molteplici scambi delle eccedenze e delle mancanze infatti, crea dei presupposti di relazione tra entità stato-nazionali sebbene vi sia un gran differenza tra il livello giuridico-politico che coinvolge appunto gli stati e quello economico-finanziario che coinvolge aziende, enti, imprenditori e lavoratori individuali. Questo secondo piano finisce col sovrapporsi al primo e mentre il primo è politico, il secondo ha tutt’altra logica, fatto per il quale si crea una interferenza di logiche che se da una parte produce un po’ di cosmo, dall’altro spesso produce molto più caos. Sopratutto quando l’aspetto giuridico dei patti è ordinato dagli interessi degli attori privati e quelli pubblici si limitano a ratificarli in nome e per conto. La globalizzazione poi, ovvero la saldatura in un unico meta sistema della rete degli scambi economico-finanziari tra soggetti privati è il massimo produttore di caos, è l’apoteosi della riduzione della complessità di una comunità riunita in stato, alla piazza del suo mercato. Ma è poi anche la distruzione della piazza del proprio mercato poiché questo è affogato in un metamercato apolide, cioè senza polis. E’ quindi la risposta sbagliata ad una domanda giusta.

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cover-universo-kantiano-bIn Idea per… del 1784, Kant cerca di verificare le condizioni di possibilità di una filosofia della storia. La storia, per come la intende Kant, è storia dell’essere umano in quanto genere e l’essere umano è essenzialmente (per essenza) razionale. La razionalità è propriamente la differenza che segna il genere, altrimenti co-segnato da molti altri caratteri (tra cui l’irrazionalità) in comune con molti altri generi o specie. Tale razionalità è la sua natura nel senso che la natura ha impiantato questo gene nella sua costituzione e così facendo ha determinato se stessa in quel genere. Lo sviluppo storico allora, è il percorso di piena espressione di questa natura, l’uomo tenderebbe naturalmente (per ragioni costitutive) a dispiegare, dopo molto complesse e tortuose strade affrontate a variabili velocità e pieni di ripensamenti ed errori, a seguire questa piena espressione. Più precisamente, l’uomo sarebbe veicolo magari inconsapevole, del dispiegarsi di questa finalità immanente alla sua natura. Poiché questo intento della natura muoverebbe ad un finale che è l’unione civile di tutti gli uomini per ragioni che poi vedremo, una filosofia che orienti il discorso storico a cercare le tracce di questo sviluppo, sarebbe conforme a gli intenti della natura stessa. Inoltre, poiché questo è l’intento della natura che presto o tardi si realizzerà, pare cosa utile fornire a gli uomini che saranno, il romanzo storico, una fenomenologia dello spirito razional-cosmopolitico, che racconti il suo sviluppo da questo punto di vista. E’ questa, in sostanza, la Nona tesi, quella che chiude e giustifica l’intero discorso che ora seguiremo dall’inizio.

Il filo conduttore che Kant presuppone essere il compimento di un pieno sistema cosmopolitico, è da ricercare nei comportamenti a grana grossa ovvero quelli del genere umano e non del singolo, quelli statistici e non quelli individuali, quelli generali e non particolari. Kant si esprime similmente allo Smith della Ricchezza della nazioni quando dice “I singoli esseri umani ed anche i popoli interi … mentre perseguono il proprio intento, ciascuno secondo il proprio disegno e spesso l’un contro l’altro, precedono inavvertitamente come seguendo un filo conduttore, secondo l’intento della natura che è a loro stessi sconosciuto e lavorano alla sua promozione, cosa di cui, anche se fosse loro nota, importerebbe loro ben poco”. copQuesta concorrenza inconsapevole dei singoli atti alla creazione di un disegno macroscopico, in Smith, è l’essenza della provvidenziale “mano invisibile” del sistema economico basato sulla libertà del perseguimento dell’egoistico interesse, mentre per Kant (e poi per Hegel della Filosofia della storia che è fortemente indebitata con questa idea kantiana, “l’astuzia della ragione” hegeliana è una versione dell’astuzia della natura kantiana)  è il dispiegamento di alcuni presupposti che la natura ha impiantato nell’agente umano. Questa idea sembrerebbe profilarsi come un determinismo ed in effetti Kant fa riferimento a Keplero e Newton, quindi ad un modello di legge di natura ma come poi vedremo, Kant è ben consapevole del fatto che l’essere umano non è un corpo minerale e che quindi la legge di natura che in fisica è certa e prevedibile, nelle cose umane va cercata nel macro, nel generale, nell’andamento statistico, in forme cioè -imprecise eppur direzionate. Imputando la ragione all’uomo, la natura ne ha circoscritto le possibilità e per quanto dotato di libero arbitrio, di contraddittorietà, di cecità al generale stante la sua natura intrinsecamente particolare, il suo movimento storico non potrà uscire come percorso tendenziale dagli argini di ciò che la natura gli ha imputato essere, per cui presto o tardi, giungerà ad alcuni esiti conseguenti quella condizione di possibilità. La dicotomia caso-necessità per Kant, non è ridotta ai suoi estremi, il corso zigzagante della legge naturale nell’uomo è una casualità causale che prima o poi, giungerà comunque al suo fine (Prima tesi), fine che verrà perseguito dal genere e lungo il corso quasi infinito di diverse generazioni, non dall’individuo immediato (Seconda tesi).

Nella Terza tesi, Kant sottolinea questa apparente incongruità per la quale ognuno di noi, nella propria contingenza storica, sembrerebbe avere il solo ruolo di correre una frazione di una interminabile staffetta di cui solo gli ultimi, chissà quanto lontano nel tempo, godranno i benefici. C’è qui quel sentimento quasi religioso, di appartenenza ad una umanità generale che trascende gli orizzonti culturali, geografici e temporali ai quali ognuno di noi è legato. Questa religione non è codificata, non ha testi, templi e sacerdoti, eppure è la più naturale possibile e forse un giorno, diverrà trasparente anche a coloro che si affannano a trovare distrazione nell’ Uno speciale, quando non ci sono altro che uomini naturali, i Noi che siamo stati, siamo e saremo.

Le disposizioni naturali di cui l’uomo è dotato debbono quindi subire un costante e lento sviluppo, il motore di questo sviluppo, che non si dispiega da solo, è l’antagonismo. Dal polemos eracliteo, all’egoismo conflittuale prima hobbesiano poi smithiano, alla dialettica hegeliana, alla lotta di classe marxiana, molti sono i filosofi che hanno visto nella naturalità del conflitto antagonista, un motore produttore di dinamica. cop (1)La Quarta tesi parte con una definizione antropologica di uomo che ha una sua notorietà: l’insocievole socievolezza. E’ però curioso come questa definizione che chi scrive trova molto lucida, non abbia avuto molta fortuna. In filosofia politica, esistono due anime fondate su visioni antropologiche semplificate e bi-polarizzate: i liberali anglosassoni che pensano l’uomo sia di natura insocievole e solo per costrizione opportunistica obbligato a fare società, i socialisti-comunisti che pensano l’uomo sia di natura socievole e solo per costrizione data dai regolamenti economici che regolano la piramide del potere basata sulla distorsione data da gli interessi di classe, esso di ritrova poi nel conflitto. La disposizione ad associarsi per Kant, non ha nulla di opportunistico nel senso di Hobbes ma è:  “… perché in un tale situazione (l’essere umano) sente più se stesso come essere umano, cioè avverte lo sviluppo della sue disposizioni naturali”. Ma questa stessa disposizione naturale si manifesta assieme ad una pari e simmetrica inversa, l’affermazione della propria volontà e l’indisponibilità e subire quella altrui. E’ da questo contrasto, da questa dialettica non normalizzata basata su polarità entrambe naturali, che scaturisce il movimento umano che però è anche il motore allo sviluppo delle sue potenziali facoltà. “L’essere umano vuole concordia; ma la natura conosce meglio cosa è buono per il suo genere; essa vuole discordia”. Vano quindi è dibattere sul fatto che l’uomo sia così o così, l’uomo è sia così che così, egli rimbalzerà continuamente tra le due condizioni e con esso tutto il sovrastante sociale a cui da vita nelle interrelazioni coi consimili, sino a che, progressivamente, non arriverà a dominare, mediandola con la ragione, questa conflittuale dialettica costitutiva. L’idea di una reciproca interferenza limitate ma anche costruttiva tra due principi eleva Kant ad un piano di complessità che il riduzionismo imperante nella nostra tradizione non seguirà.  L’uomo non è degenerato da una naturalità perfetta ancorché perduta à la Rousseau, l’uomo è destinato a raggiungere l’equilibrio delle forze che lo compongono e per questo destino occorrono due cose: tempo e ragione.

Questo compimento che è l’argomento della Quinta tesi è visto nella società civile fondata sul diritto concordato tra tutte le parti, che regoli tutte le istanze e metta ordine a tutto il potenziale disordine del conflitto naturale. Lì si manifesta la piena libertà che non è la libertà unilaterale individuale che è solo metà della questione, ma la libertà possibile nel novero della libertà possibile di tutti. Ma questo non è affatto facile, anzi è esso stesso oggetto di quel compimento che oltre a tempo e ragione diffusa, richiederà molti tentativi ed errori per risolvere il problema che è anche il problema della costituzione di un potere che amministri questa giustizia concordata, ma che a sua volta sia un potere limitato da un altro potere e così via, senza fuggire nell’idealizzazione di un ultimo potere perfettamente giusto e sopra le parti poiché sopra le parti ci sono solo altre parti. Il problema quindi sarà come le parti si amministrano da e tra loro.

cop (3)La stessa identica dinamica riguarda i corpi stato-nazionali a cui gli individui danno vita. Sia Hobbes che Locke, dopo aver illustrato la loro versione interpretativa del come si giunse dalla stato di natura a quello civile, convennero che questo era valido solo per le singole società umane e che queste fossero però “ovviamente” destinate a rimanere tra loro nello stato di natura, cioè l’un contro l’altra armate e belligeranti. Kant segue invece un filo del ragionamento che sembra simile ma è diverso poiché per lui è la natura stessa dell’uomo a portare dopo lungo permanere nel conflitto a trovare il regolamento necessario a normarlo, tanto all’interno delle singole società statali, quanto all’esterno delle interrelazioni tra le singole società statali. Ed è da sottolineare come Kant segnali che la stessa ironia disincantata con la quale l’abate di Saint-Pierre o Rousseau commentavano questa possibilità, derivava dal loro vedere solo il loro immediato storico, non il processo. Molto spesso, la modellistica politica non tiene conto del tempo per la sua realizzazione e lo fa perché parte da una superficiale o distratta definizione delle condizioni di possibilità, così quell’insensata e romantica passione per quell’oplà storico che è nel concetto di rivoluzione o quell’altra insensata passione per le norme dei trattati come se la scrittura su carta, così come le parole che dalla mente giungono alla carta, producessero realtà di per loro. Su questo aspetto dinamico, progressivo, costruttivo ed intenzionale del processo, Kant verso la fine della Settima tesi, dice qualcosa di importante. Noi siamo civilizzati, circondati da un effimero benessere se comparato a quello delle generazioni precedenti, esaltiamo l’onore ed il decoro esteriore, ma non siamo ancora moralizzati. Noi non produciamo altro che una condizione di -rumorosa apparenza e miseria brillante-. “Miseria brillante” come definizione della condizione moderna mi sembra una bella definizione. Così sarà fino a che gli stati impiegano tutte le loro forze per le loro vane e violente mire espansionistiche e non solo distolgono forze ed energie nella coltivazione dello spirito dei propri cittadini, ma li privano di ogni appoggio per questo intento. Noi potremmo aggiungere che addirittura contrastano attivamente questo processo poiché le élite che sono in carico di gestire il sistema traggono la loro condizione privilegiata dalla sua stessa esistenza e riproduzione.

Questo aspetto ci interessa in funzione di quel vago e confuso modello che chiamiamo democrazia. Pochi considerano che la democrazia è fatta di democratici ed è quindi vincolata a ben precise condizioni di possibilità, sia di tipo strutturale, sia di tipo varietale. La formazione democratica dovrebbe al contempo battersi sia al suo esterno per allargare e perfezionare le condizioni di possibilità nelle quali dovrebbe poter operare, sia anche al suo interno, retroagendo su i suoi stessi componenti. Se i singoli componenti una organizzazione democratica non hanno una cultura democratica, se le prassi di una organizzazione che si batte per la democrazia non si sforzano di essere quanto più realmente democratiche, non sarà dal cavillare su i codicilli di una Costituzione che sorgerà una democrazia.  Dai sofisti a gli enciclopedisti a Condorcet, da Rousseau a Kant a Dewey, si sa che la prima intenzione di una politica umana, dovrebbe avere in obiettivo la formazione culturale ma questo punto è spesso poco meno che una doverosa citazione retorica nella politica recente e contemporanea. Basta vedere gli intellettuali “progressisti” che uso fanno del linguaggio per capire quanta poco sincera tensione vi sia a capire e far capire. Non così Kant di cui si narra che la sola occasione in cui saltò la famosa e regolare passeggiata delle cinque del pomeriggio fu proprio perché rapito dalla lettura dell’Emilio di Rousseau, proprio un trattato sull’educazione.

Inoltre va segnalato, che mentre Hobbes e Locke pensavano di esser giunti alla fine di chissà cosa con la loro società civile, tanto quanto Hegel alla fine dell’inveramento dello Spirito assoluto, Kant sa che siamo ancora ai primi passi, che molto tempo ci sarà prima che si passi dal formalismo della società civile alla sostanza della società morale, fatta da individui dotati di mente e volontà autonoma, accordate. La scolastica del commento, presenta Kant, a volte, come un illuminista invasato convinto del migliore dei mondi possibili quando invece è difficile trovare un filosofo più lucido e sferzante sulla nostra presunzione di essere il frutto culminante della civilizzazione e più realista sulla difficoltà di ogni vero progresso.

cop (2)Kant, nell’Ottava tesi,  è ben consapevole del fatto che noi (il noi del XVIII° secolo che a gli effetti di questo discorso non è molto diverso dal noi contemporaneo) siamo appena all’inizio di questo percorso che solo in futuro diventerà “momento così lieto per i nostri discendenti”.  Però, sebbene   “ai nostri governanti mondani non rimanga denaro per istituti pubblici di istruzione ed in generale per quanto concerne il bene comune, perché tutto è già messo in conto in anticipo per la guerra futura..” qualcosa di positivo s’intravede già. Secondo il nostro, la guerra diverrà non  troppo in là, una impresa così artificiosa, così incerta nell’esito effettivo per tutti i contendenti e così spropositatamente onerosa e creatrice di debito inestinguibile, da perdere molte delle sue ragioni.

Inoltre, partendo dal “nostro continente” cioè l’Europa, si renderà sempre più visibile la condizione complessa ovvero la concatenazione di tutti con tutti tanto da creare treni di effetti per ogni seppur minimo movimento locale, così da render sempre più attuale una concezione di diritto cosmopolitico ad ordine di un bene comune dai contorni geografici sempre più continentali. A chi sorridesse a queste parole nell’attimo in cui al discorso letto si affianca l’immagine di Mario Draghi ed Angela Merkel,  ricordo che si parla di processi di lunga durata e che anzi, tanto più erroneo e scombinato si organizza un primo cieco tentativo, tanto più razionale diverrà il secondo e forse il terzo. Certo, se non si ha la fede kantiana nel bene umano futuro, la condizione presente è gravosa e financo disperante ma dovremmo far pace col fatto che di semplice ed immediato c’è solo il discorso, i fatti concreti e complessi, necessitano di tempo per esser eventualmente prodotti. Proprio questo “far pace” col realismo costruttivo (col concetto di tempo) ci aiuterebbe a sviluppare culture e prassi atte a cambiare intenzionalmente il mondo ed il nostro modo di abitarlo, anche perché, altrimenti, rimarrà per sempre divisa la realtà di un mondo disordinato ed ingiusto da una parte e chilometri e chilometri di scaffalature su cui riposano libri e libri che lo sognano ordinato e giusto. E’ questa mancanza di realismo del tempo, uno dei sintomi tipici del morbo che affligge la nostra idealistica metafisica influente.

Il cuore dell’argomentazione kantiana esposto nella Settima tesi è dunque che la stessa insocievolezza che ha condotto gli umani a patire reciprocamente l’un, lo strabordare dell’altro, tanto da averli infine convinti della necessità della convenzione sociale, li porterà a convincersi di allargare questa convenzione al piano universale. E solo quando i due piani saranno sincronici, essi saranno compiuti in loro stessi e così le condizioni di possibilità per la piena e naturale espressione della cultura umana.  In sintesi : “uscire dalla condizione senza legge dei selvaggi ed entrare in una lega dei popoli in cui ciascuno stato, anche il più piccolo, possa aspettarsi sicurezza e diritti non dalla propria potenza, o dal proprio giudizio giuridico, ma solo da questa grande lega dei popoli, da una potenza unificata e dalla decisione secondo leggi della volontà unificata”.

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Noi oggi ci troviamo in un punto di passaggio storico essenziale per questo percorso di emancipazione umana. Per la prima volta nella sua storia, il genere umano su scala planetaria, si trova in un duplice, inedita, condizione.

Da una parte, la crescita vertiginosa delle popolazione nella seconda metà del secolo scorso, ci ha portato ad un mondo affollato. L’affollamento è la precisa condizione che porta all’urto reciproco, ma anche all’interdipendenza ed alla verifica costante della legge dei treni di retroazioni per la quale, in un tutto interconnesso, la perturbazione locale può diventare facilmente generale amplificando velocemente le propri dimensioni ed intensità. Kant, nella Settima tesi, richiama proprio la teoria del clinamen epicureo a dire del movimento delle collisioni casuali che in aggregato denso, diventa caos. Non solo il semplice aumento di varietà in un contesto finito (il pianeta) porta a questa maggior densità, ma il gioco incrociato degli interessi vitali per gli stati (a loro volta quadruplicati in metà secolo) ovvero energia, materie prime, spazio cioè terra (ed acqua),  questione del bene comune ambientale, sviluppo tecnologico, aumento di quantità e qualità degli scambi commerciali e finanziari, condivisione implicita di una meta-struttura generale sempre più intricata ed interconnettente, ha viepiù saldato tutte le parti in un meta-sistema unico.

Dall’altra, a questa nuova entità viepiù planetarizzata si è cercato di dare un ordine automatico e provvidenziale, tratto dalla fede nel mercato, prima delle merci, poi del denaro in sé per sé. Se la globalizzazione tramite scambio delle merci era già un problema poiché con le merci si importano ed esportano anche uomini e donne, impianti tecnologie ed occupazione, pensiero e culture, leggi e diritti o mancanza delle une e delle altre, modi di vivere ed essere senza che su questi elementi vi sia controllo e consapevolezza, favorendo una sorta di Grande Disordine Globale, tramato da una economia che ha sempre più tiranneggiato le entità più propriamente politiche; quella più recente ed intensa della libera circolazione del capitale è il pieno compimento del tratto più insensato della nostra presunta razionalità. La libera circolazione dei capitali è il compimento dello stato di natura hobbesiano per il quale l’antagonismo di tutti con tutti, trova il suo pieno compimento, una vera follia, una dittatura globale dell’egoismo ciecamente primitivo e barbarico. Non a caso promosso dai popoli antropologicamente più primitivi e barbarici, tra quelli ancora in essere, si conoscano: gli anglosassoni.

La globalizzazione delle merci prima e dei capitali poi è stata la risposta sbagliata alla domanda giusta: come stare assieme in sempre di più in sempre meno spazio e con sempre più pretese? E’ stata la risposta di chi vede l’economia e la finanza una guerra condotta con altri mezzi, di chi non cessa di ritenersi in diritto di usurpare il diritto altrui, di chi per ampliare il proprio dominio sulla realtà in forme sempre più deliranti basate su un  concetto di libertà individualistico tendente al solipsismo ed alla sociopatia, usurpa sistematicamente quella di tutti gli altri, di chi aborre la politica, perché aborre la polis e il cittadino poiché ha una storia di caccia e raccolta seminomade in cui ogni clan compete con l’altro e tutti assieme ci si unisce solo per competere contro tutti gli altri e l’unità minima dell’essere è l’individuo patologicamente insocievole, avido, aggressivo. Tutte manifestazioni di una atavica precarietà ontologica che ha segnato indelebilmente quelle popolazioni e loro cultura, divenuta standard occidentale da quando, tramontata l’epoca greco-romana, si passò a quella medioevale-moderna.

Lo stessa confusione tra cosmopolitismo e cosmopolitica assurta a dogma del politically correct astrattamente multiculutrale, ha scaricato su gli individui il dovere di accettare la convivenza coatta con diversità non mediate laddove la mediazione efficiente, cioè quella politica ha del tutto abdicato al suo ruolo, in favore di un astratto mondo-Uno vagheggiato dall’interesse del mercato-Uno.

In breve: noi oggi siamo sul crinale decisivo di una lotta di egemonia tra il sistema vincente ma non più prorogabile basato sul regolamento economico-finanziario quanto a fenomeno ed al dominio occidentale a guida americana quanto a soggetto, da una parte e il possibile recupero del sistema perdente che è però l’unico in grado di ordinare (cosmo) il mondo, il regolamento politico-giuridico liberamente contrattato tra stati vincolati dal principio di reciprocità. Il primo modello è quello dell’Uno e dell’Assoluto, della gerarchia dominante, della semplificazione oltre il possibile, del disordine creato dall’economia messo in ordine dalla guerra che crea però anche condizioni di possibilità per nuovo disordine in una spirale senza fine, né fini apprezzabili . Il secondo modello è quello del Molteplice e del Relativo, del funzionamento reticolare autorganizzato, dell’adattamento all’ irriducibile complessità diveniente, del possibile ordine creato consapevolmente dalle parti secondo la metrica politica e gli strumenti giuridici, un mondo-cosmo basato sul bene comune, cioè multipolare. Uni o bi-polare vs multi-polare, questo il succo della faccenda che ha immediata attualità.

A noi, al nostro fattivo comportamento  rimane la scelta tra il cercare di affiancare l’astuzia della natura con un minimo di intelligenza razionale o se ancora e per l’ennesimo volta, alle sollecitazioni delle astuzie della natura opporremo la nostra stupidità animale strattonata dal nostro insocievole ed avido egoismo ottuso che segna il nostro perdurante stato di primitiva minorità.

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Strumenti:

  1. I. Kant, Scritti politici, Torino , UTET, 2010
  2. G. Marini, La filosofia cosmopolitica di Kant, Bari, Laterza, 2007 (di cui troviamo una recensione qui
  3. A. Taraborrelli, Cosmopolitismo, Trieste, Asterios, 2004 ( cui primi due capitoli si trovano on line, qui
  4. M. Mori, La pace e la ragione. Kant e le relazioni internazionali: diritto, politica, storia, Bologna, Il Mulino, 2008
  5. M. Mori, capitolo Storia in L’universo kantiano, Macerata, Quodlibet (collana Studio), 2010, 465-492

Informazioni su pierluigi fagan

64 anni, sposato con: http://artforhousewives.wordpress.com/, due figli, un gatto. Professionista ed imprenditore per 23 anni. Negli ultimi venti anni ritirato a "confuciana" "vita di studio", svolge attività di ricerca da indipendente. Il tema del blog è la complessità, nella sua accezione più ampia: sociale, economica, politica e geopolitica, culturale e soprattutto filosofica. Nel 2017 ha pubblicato il libro: Verso un mondo multipolare, Fazi editore. Ogni tanto commenta notizie di politica internazionale su i principali media (Rai3, la7, Rai RadioTre Mondo, Radio Blackout ed altre) oltre ad esser ripubblicato su diverse testate on line. Fa parte dello staff che organizza l'annuale Festival della Complessità. Tiene regolarmente conferenze su i suoi temi di studio. Nel 2021 è uscito un suo contributo nel libro collettivo "Dopo il neoliberalismo. Indagine collettiva sul futuro" a cura di Carlo Formenti, Meltemi Editore.
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