Ayelet Shaked è la giovane parlamentare israeliana che si è distinta, nei giorni scorsi, per il suo accorato incitamento al genocidio delle madri palestinesi che producono ed allevano –serpenti– che poi vanno ad ingrossare le fila dei “terroristi” di Hamas. Abbiamo anche visto una maglietta che incita a sparare alle madri palestinesi ricordando che con “1 shot”, si ottengono “2 kills”, una sorta di prendi due e paghi uno. Questi discorsi eccitano le nostre barriere etiche, “come si fa a dire cose del genere’?” si domandano i civili occidentali inorriditi dal riproporsi dell’eterno fantasma della follia ferina che già ben conobbero in prima persona non più di sessanta-settanta anni fa proprio a casa loro, in Europa.
A noi interessa evidenziare un aspetto concreto della faccenda. Non si fanno discorsi pubblici come quelli della Shaked e non si mettono magliette come quelle riportate se non c’è una seppur minima cultura condivisa sull’argomento in questione. Questo messaggio del far saltare non i tunnel ma gli uteri da cui proviene il flusso ininterrotto dei serpenti palestinesi, deve avere un suo retroterra concreto ed infatti lo ha ed è forse la cosa più concreta a cui prestare attenzione nel farsi una idea dello stato attuale dell’eterno problema israelo-palestinese.
Israele ha una superficie pari a quella della Toscana solo che: a) la Toscana, a parte qualche altura è praticamente tutta abitabile mentre il 50% del territorio di Israele è deserto; b) in Toscana vivono 3.75 milioni di persone, in Israele 8.000 milioni (in crescita). Se sommiamo anche il West Bank e Gaza i numeri portano ad una superficie complessiva non molto superiore a quella della Sicilia che però ha 5 milioni di abitanti contro i 15 milioni dell’instabile mix israelo-palestinese. Israele e territori palestinesi sono rispettivamente il 21° ed il 7° paese per densità abitativa della classifica mondiale. Ma palestinesi e comunità haredim ebraica (gli ortodossi vestiti di nero con cappello a larghe falde e ricciolini di capelli che pendono ai lati del viso) hanno tra i più alti tassi di fertilità al mondo. Se i palestinesi pompano la bomba demografica con la riproduzione, gli israeliani lo fanno similmente con gli haredim e dai tempi di Ben Gurion, elargendo sussidi alla procreazione che integrano con l’importazione di coloni, molti dei quali è probabile non siano neanche ebrei propriamente detti. Ci si aspetta così che nel 2016 forse i palestinesi supereranno gli ebrei, ma gli ebrei potrebbero aver un ritorno di fiamma al 2020. L’esito complessivo che questa corsa alla dimensione darà per certo a metà secolo, più di 20 milioni di persone, molte delle quali giovani e pugnaci, stipate su una superficie abitabile grande come la Calabria. Sempre che il precipitare della situazione non convinca al ritorno i riservisti di entrambi i gruppi che sono complessivamente circa 12 milioni sparsi per il mondo.
La corsa alla dimensione è la strategia storica di entrambi i contendenti che competono per il diritto unilaterale o quantomeno maggioritario ad esercitare la sovranità su un lembo di terra piccolo e neanche troppo ospitale, vista la storica penuria di acqua e la relativa fertilità di molte aree del suo suolo. Così, la strategia bellica è il riflesso di quella demografica, nel senso che punta al terrorismo da entrambe le parti. Terrorizzare chi c’è affinché se ne vada e oltre a rendere la vita impossibile a coloro che già ci sono per farli andare via, disincentivare le intenzioni di coloro che dovrebbero venirci a stare. La per noi orribile contabilità dei morti civili o militari o miliziani che siano non ha alcun effetto reale sul problema, la logica è quella di ucciderne uno per educarne cento (o mille o diecimila), più che morti e feriti, si cercano profughi e rinunce all’insediamento. Buttare giù ospedali ed asili nido, piuttosto che disturbare il traffico aereo civile da e per Tel Aviv non sono accidenti marginali ma core strategy.
Va da sé che questa logica è insensata poiché nessuna tra le azioni condotte, avrà la meglio sull’impeto demografico del nemico e già oggi, la catastrofe ecologica (cibo ed acqua) incombe ancor prima che quella demografica abbia il suo compimento definitivo. Va da sé che un fazzoletto di terra intriso del sangue e dell’odio stratificato in decenni di reciproci torti, abitato da milioni di giovani agitati e rancorosi è la culla di infinite future ed interminabili battaglie.
Il problema israelo-palestinese ha un senso frattale rispetto a quello planetario. Nel suo piccolo come nel grande di cui è riduzione proporzionale, esso presenta gli stessi caratteri: a) più persone di quante ne possa ospitare un territorio; b) insostenibile pressione ecologica su quella stessa terra su cui si vantano diritti formali, ma nessuna vera responsabilità; c) cecità al problema dei limiti; d) incapacità di convivenza; e) corsa alla reciproca distruzione; f) forti diseguaglianze che sono il motore inarrestabile che crea l’impossibilità della convivenza, la vanificazione di ogni discorso su i reciproci diritti, la forzatura insensata dei limiti oggettivi, il collasso militare, economico, culturale, politico, ecologico del bene comune, di quello che etnicamente è lo stesso identico popolo in Palestina e geneticamente sul pianeta.
Presi dalla furia della reciproca contesa, non ci si può certo aspettare un ravvedimento operoso di uno e di entrambi i contendenti della faida mediorientale. Ci vorrebbe un arbitro, ma coloro che sarebbero in teoria esterni al conflitto, sono o tifosi o giocatori dietro le linee. Lo sono gli arabi che non vogliono che vincano i palestinesi ma che non vincano gli israeliani (il che non porta in conseguenza alla vittoria dei primi ma allo status quo dell’instabile), lo sono gli occidentali che tra interessi coscienziali (lavare i sensi di colpa delle secolare persecuzione degli ebrei culminata nella shoah) e materiali (il pied a terre medio-orientale) oltretutto come nel caso statunitense retro amplificata dalla forza delle élite ebraico – americane, agiscono come garanti dell’instabilità eternizzata. Di riflesso lo sono anche tutti gli altri attori geo-politici poiché la contesa geo-politica planetaria si gioca su scacchiere dirette come in Siria, Ucraina o nelle contese sul Mar Cinese, così come su tutte le altre indirette, incluse quelle sulle valute monetarie, sulla competizione tra IMF e nuova World Bank dei BRICS ed i patti di collaborazione economica che vanno e recintare i nuovi aggregati competitivi come l’Occidente del TTIP o il possibile asse russo-cinese.
I richiami astratti ad una presunta “comunità internazionale” lasciano quindi il tempo che trovano in quanto non esiste alcuna comunità tra le nazioni. Se esistesse una comunità, non ci sarebbe quello che c’è in Palestina e viceversa c’è quello che c’è in Palestina come riflesso del fatto che più o meno è questo assetto competitivo, armato, unilaterale, follemente lanciato al diritto mio contro il tuo e di entrambi contro quelli della natura di cui pur tutti dipendiamo, il regolamento del gioco del nostro più generale stare al mondo planetario.
Per gli occidentali sensibili e dalla fondata costituzione etica, c’è il rimedio tampone di inondare Internet di video, messaggi, appelli, testimonianze, cartine geografiche per contrastare almeno l’ indifferenza. Ma si deve altresì ricordare che non si risolverà mai quella partita senza una presa di posizione intransigente che dica del come intendiamo stare al mondo, in un mondo di 7.125.000.000 di ebrei-palestinesi. La nostra Intifada delle idee va condotta contro quei giornali, mezzi d’informazione, gruppi d’interesse, partiti politici, intellettuali, uomini e donne ciechi e senza cognizione delle cause che creano le condizioni perché tutto ciò che ci fa oggi inorridire a Gaza, si ripeterà, ripeterà e ripeterà ancora, sempre più in grande e sempre più irreversibilmente fino a che un qualche collasso non riporterà i pochi sopravvissuti ad un tragico, nuovo inizio. Forse.
Quello che lasceremo succedere in quella terra, sarà quello che noi stessi subiremo nella nostra Terra.