Da “Che cos’è la filosofia antica?” di P. Hadot, Einaudi.
Pierre Hadot (1922-2010) è stato uno studioso e filosofo francese, la cui attività di ricerca si è concentrata sulla filosofia antica, in specie ellenistico-imperiale. La sua convinzione principale era che nelle concezioni della filosofia di allora , vi fossero due livelli intrecciati ed indissolubili dell’essere filosofo. Il filosofo era colui che viveva una vita filosofica, immerso nella quale, produceva un discorso filosofico. Parafrasando Gandhi, il filosofo si sforzava di essere già in atto, la visione del mondo che promuoveva pensando. Sin da Talete di cui abbiamo ricordato un aneddoto qui, forse ancor prima con i Sette Sapienti e poi comunque con Eraclito, con le varie scuole (Pitagora, eleati, Platone, Aristotele) fino alla svolta ancorpiù marcatamente esistenziale data dai cinici, dagli stoici, dagli epicurei, dagli scettici, dai neoplatonici (ma vale anche per gli ermetici, i caldaici, i taoisti, i primi discepoli di Confucio ed i gimnosofisti indiani prima e più di tutti gli altri), essere e pensare erano una stessa cosa (Parmenide), poiché propri di una stessa persona.
Hadot confrontò con Foucault la diversa opinione sul quando questa vocazione unitaria ad essere e pensare di essere, si fratturò. Secondo Foucault cominciò con la modernità e con Cartesio. Foucault pensava che secondo Cartesio “per accedere alla verità è sufficiente essere non importa quale individuo capace di vedere ciò che è evidente … l’evidenza si è sostituita all’ascesi”. La verità come perno della ricerca filosofica, quando si affermò come elemento della sole ragione, perse la necessità di coerenza con l’esistenza, era il cogito a fare l’essere. Hadot invece propendeva per l’idea che quando il cristianesimo si sostituì interamente a qualsiasi altra possibile etica, sottrasse in un certo senso l’etica alla filosofia che a quel punto, divenne esegesi dei testi, commento teorico, idea mossa e non motrice, filosofia ancella della teologia[1].
Ma c’è forse un terzo elemento, una ragione di contesto, da considerare oltre a quelli del primato dell’esistenza o della ragione. Ce lo ricorda lo stesso Hadot citando la famosa Lettera VII di Platone (p.269) nella quale il nostro dice di non voler sembrare uno di quei filosofi che chiacchierano e basta e di aver voluto sempre testimoniare la coerenza tra il dire e il fare, come mostravano i suoi reiterati tentativi di applicare il proprio credo filosofico-politico che lo mossero più volte verso Dionigi a Siracusa. Questa nota platonica dice di una dimensione del mondo umano che tipica dell’antichità, rimaneva in un certo senso vera anche nel primo medioevo ed è riferita ad un valore sociale oggi del tutto trasformato: la credibilità nella comunità.
Le comunità umane erano piccole e la credibilità del dire era direttamente testimoniato dalla persona e dall’opinione integrale che gli altri ne potevano avere per conoscenza diretta o quasi. C’era cioè, il problema della reputazione, una reputazione attinta direttamente dalla conoscenza diretta della persona il cui dire veniva giudicato assieme al suo fare. Questo stesso aspetto era alla base dell’etica della polis democratica, tutti sapevano di tutti e la parola spesa in assemblea o l’atto compiuto nel governo, erano immediatamente addebitati come credibilità o meno, dell’essere politico di quell’individuo. La stessa procedura dell’estrazione a sorte delle cariche che a noi sembra così bizzarra, si fondava sul fatto che ogni incaricato di svolgere servizio pubblico era sotto il giudizio diretto della cittadinanza e quindi ognuno faceva veramente del suo meglio per non esser malgiudicato dai concittadini. Si poteva al limite tollerar l’incapacità ma non certo la malafede ed a sua volta, l’incapace non aveva alcuna remora a farsi aiutare per non vedersi addebitare colpe che ne minassero la considerazione sociale. Stante queste coordinate, non c’era effettivamente alcun problema a dare le cariche per estrazione, anche perché duravano un anno e non erano ripetibili. Questa reputazione era un capitale cumulabile ma se dissipato era per sempre perduto e se la reputazione precipitava nel negativo, poteva portare all’ostracismo. L’ostracismo era la massima pena sociale: l’espulsione dalla comunità. Oggi la nostra reputazione pubblica è un habitus anche del tutto estraneo al nostro essere profondo, la si tratta come nel marketing si tratta un brand, come un abito che ha il potere di fare il monaco e come gli abiti è oltretutto soggetta alle mode, alle stagioni, all’intervento manipolatorio degli “stilisti della reputazione”.
I cristiani introdussero la confessione, la penitenza, il Purgatorio e con essi, l’implicita possibilità di dire una cosa e farne un’altra, salvo poi pentirsene ed espiare. Era questo necessario per gli standard esageratamente alti dell’etica cristiana, altezza che creando una distanza tra norma e comportamento, tra divino ed umano, dava senso specifico al ruolo di una Chiesa che si faceva tramite ed indulgente compensazione, tra la bassezza terrena e l’altezza celeste.
Da questo punto di vista, l’etica antica era presa molto più sul serio. L’infrazione etica era da evitare a priori ed era praticamente inemendabile, l’attenzione era quindi molto più vigile ed il controllo sociale su questa coerenza, un ulteriore motivo di serietà ed attenzione. Infine, la scoperta della società avvenuta con la Rivoluzione francese e tutto il portato di convinzioni su quanto il nostro essere individuale sia da influenzato a determinato proprio dal contesto sociale nel quale siamo immersi, portò ad una definitiva scissione e finale de-responsabilizzazione della coerenza individuale tra essere-dire e fare. L’appuntamento all’essere migliori, veniva rimandato all’avvento di una società migliore. L’etica della falsità cristiana con la scusa delle “comprensibili” contraddizioni salvo “pentimento”, l’avvento dell’etica dell’apparenza dei borghi e della sua classe mercantile, la presa di coscienza del potere che hanno le strutture sociali su quelle individuali, si chiusero in cerchio, separando definitivamente l’essere dal pensare di dover essere.
= 0 =
La filosofia è una pratica: nella filosofia antica, in linea generale, l’elemento ampiamente comune di base, era il distacco tra Io e Mondo, un distacco controllato che a sua volta donava il controllo sul proprio essere nel Mondo. L’ascesi (esercizio) era una pratica che donava il dominio di sé nella lotta incessante che voleva strappare il sé dal dominio che vi esercitava il Mondo. Dell’ascesi faranno parte gli esercizi fisici e spirituali che poi troveremo ampiamente in uso in tutta la successiva tradizione, una tradizione che forse è antica quanto l’uomo. Distacco dal mondo poteva compiersi a vari gradi, di minima, si trattava del semplice fare due dell’uno come quegli esercizi di stretching che tendono a scollare le vertebre per recuperare articolazione e quindi agilità. Solo scollando Io dal Mondo (non alienarlo ma porlo alla giusta distanza per avere una relazione consapevole) si potevano creare le condizioni per il recupero di potere dell’Io sul Sé, per poi utilizzarlo nel Mondo, non per estraniarsene come la tradizione mistica a lungo continuerà a fare seguendo la più antica tradizione sciamanica. L’ascesi si praticava ponendo soprattutto il corpo come oggetto dell’Io, imparando una sovranità consapevole. Ne conseguiva il controllo dei sensi, il controllo del corpo, della respirazione, del regime alimentare, veglie e digiuni. I contatti con la tradizione indiana, probabilmente, furono d’insegnamento sin dalla prima antichità, sin dal –VI° secolo. Da notare che questo ritirarsi dal Mondo, ritiro che poteva manifestarsi in vari gradi, per occuparsi del Sé, è comune a tutta l’antica sapienza, cinese, indiana, iranica, greca. E’ probabile che il famoso “conosci te stesso” malinteso come semplice introspezione, significasse proprio il primo e necessario recupero della sovranità di se stessi.
Di questo auto-centrismo (fare centro su di sé), faceva parte anche la localizzazione temporale, ricordarsi sempre di essere nel presente, anche per evitare che il pensiero del futuro trasmettesse il turbamento per l’incertezza o promettesse più di quanto non fosse in grado poi di mantenere e quello del passato pesasse con gli inutili rimpianti, vincoli immaginari che consumavano energia vitale inutilmente. Soprattutto evitare di pensare alla morte fino a che si è vivi. Il vivere sempre il presente come non ci fosse un futuro, tendeva a responsabilizzarsi sull’essere-qui-ed-ora, riappropriandosi di un Sé altrimenti ostaggio delle emozioni del vivere in altri tempi, in altri mondi. Spalmarsi su tutti i tempi, avrebbe prodotto perdita di energia vitale per affrontare il presente.
L’esame di coscienza era una auto-analisi tesa ad aumentare l’auto-coscienza e quindi la responsabilizzazione ed il controllo si Sé. L’auto-giudizio oggettivava il Sé all’Io, aumentandone la consapevolezza ed il dominio. Inoltre rendeva percepibile il rapporto tra Io e Mondo, oggetto di una continua valutazione che aumentava la possibilità di poter controllare questa relazione problematica a volte, anche solo per il fatto di subirla senza la dovuta coscienza. E’ questo anche il tribunale interiore di Kant. Questo esercizio è anche utile per evitare di proiettare continuamente il Sé sul mondo senza coscienza, cioè di prendersela col Mondo solo per il fatto che esso spesso ci rispecchia, confondere il riflesso per un oggetto.
La fuoriuscita dall’Io era anche l’assunzione come oggetto della relazione Io – Mondo, come se si avesse un punto di vista terzo. Lo sguardo dall’alto era il tentativo di recuperare un punto di vista quanto comprensivo possibile. La percezione e l’osservazione della natura era l’esercizio di rompere la percezione fuorviante del solo mondo umano per recuperare anche gli aspetti biologici del vivere, spesso confusi dietro quelli sociali. Oggi potremmo dirlo, il punto di vista da lontano, ovvero quello che non scende nei particolari ma attraverso dei generali è in grado di meglio cogliere l’intero. Quando si vedono consimili a testa bassa, per ore ed ore chini su qualche apparato che connette al flusso continuo di eccitazioni, sollecitazioni, impressioni, finte emozioni, finte amicizie, finte notizie e su tutto, vortici caotici di opinioni su tutto ed il suo contrario, ci si domanda se questa distrazione di massa sia un caso o una necessità dell’attuale modo di stare al mondo occidentale. Un consumismo sfrenato di imput che non lascia spazio ad alcun output. Del resto tenere gli individui a testa bassa, rapiti dall’ebrezza dell’auto-sollecitazione è il modo migliore di evitare che qualcuno la testa la alzi e magari la usi.
Il filosofo che si sottoponeva all’autocontrollo dell’ascesi, diventava un agente spirituale, il cui prototipo era quel Socrate che continuamente dialogava e si interrelazionava con gli altri uomini. L’ascesi filosofica non era estraneità sociale come poi sarà nel misticismo religioso, il filosofo è uomo la cui missione è tra gli uomini, ma che parte da se stesso per i suoi progetti di trasformazione. La rinuncia alla vanità era il rifiuto dell’inessenziale. La rinuncia alla ricchezza materiale era il rifiuto di essere ordinati da una eteronomia alienante da sé, concetto già ben chiaro sin dai tempi di Aristotele se non prima. L’utilizzo attivo e ricco di problematica consapevolezza della parola il primo strumento di lavoro. Antifonte che era un sofista, svolgeva attività terapeutica, curando i dolori umani con le parole ed interpretando i sogni, la fondazione di una longeva tradizione che arriva fino ai nostri giorni con la psicoanalisi.
Uno degli insegnamenti dell’ epicureismo era la valutazione del piacere. Valutazione significa esattamente dare il prezzo al piacere, a che prezzo, rinunciando a cosa per ottenere cos’altro, accettando quale tipo di condizioni e di eteronomia, si può perseguire un dato piacere. Il diritto al piacere ci spinge ciecamente a cercare quella soddisfazione che spesso comporta la nascita di nuove insoddisfazioni, facendoci così diventare da inseguitori ad inseguiti. Dare il prezzo ad un piacere significa recuperare il dominio di Sé non nel senso di una ascesi rinunciataria a priori, ma nel senso di esser coscienti di quale prezzo si pagherà per ottenere quel piacere, di controllare la propria economia del desiderio e non di farsi controllare dal ricatto dell’inestinguibile bisogno senza fondo.
Questo recupero della sovranità dell’Io sul Sé è la saggezza, svalutazione delle cose indifferenti, assenza di inutile turbamento, autonomia, indipendenza di pensiero, di giudizio, di comportamento. Mai raggiungibile ma sempre da ricercare. Questa ricerca della saggezza si è storicamente sviluppata a diversi gradi, dalla totale estraneità, al semplice consapevole auto-controllo, alla messa in trazione con i giusti rapporti della sequenza essere-pensare/dire-fare. Alcuni come Eraclito si richiusero nel rancore per i concittadini irriformabili, alcuni come Socrate ma anche i sofisti o Anassagora o Empedocle agirono nel mondo, molti formarono comunità di simili vivendo il proprio modo di stare al mondo assieme in comunità. La prima scuola filosofica che conosciamo è anche quella che più decisamente si definiva per una serie di precise disposizioni del modo di vivere, la scuola pitagorica. Non sappiamo bene degli eleati, ma comunità filosofica erano l’Accademia platonica, il Liceo aristotelico, la Stoà, il Giardino di Epicuro. Socrate, cinici e scettici rimasero individui immersi nella società e il rifiuto di scrivere il propri pensiero fu in molti casi l’ovvia conseguenza del fatto che la destinazione naturale del pensiero era il dia-logo, il logos tra due.
= 0 =
La separazione alienante: l’occupazione del ruolo della filosofia di vita da parte del Cristianesimo, avrebbe confinato la filosofia propriamente detta, nel solo mondo delle idee e dei pensieri. E’ questo il destino che si compie sin dall’inizio, prima con la patristica e poi con la scolastica, un destino che gli è diventato essenza perdendo il carattere pratico che aveva nell’antichità. Dai manuali delle opinioni, all’insegnamento universitario, la filosofia si è confinata nella pura ragione e i filosofi sono diventati (non tutti) “artisti della ragione” come diceva Kant. A gli antichi, l’idea di ridurre la filosofia all’insegnamento delle opinioni (dossografia) e di verificarne la memorizzazione consegnando addirittura attestati di “filosofo”, sarebbe apparsa assai bizzarra.
L’imperativo medioevale era quello di essere un cristiano, quello moderno di essere un produttore/consumatore, la filosofia è diventata una proprietà di una mente rigorosamente divisa dal comportamento del corpo, prima che Cartesio ne ratificasse la separazione in termini moderni. La coartazione della filosofia serva della teologia è oggi prorogata dalla servitù al mondo dell’economia di produzione e scambio ed al sapere tecnico-scientifico. Gli ultimi assalti frontali sono le pretese di oggettività e scientificità, i test quantificatori, il giudizio in base ad un paradigma di utilità stretta ego-individualistica, la riduzione a filosofia del linguaggio ed alla logica. Nella parole amare di Hadot, il filosofo è diventato “… un funzionario il cui mestiere consiste, in larga parte, nel formare altri funzionari,[….] di formare al mestiere di chierico o di professore, vale a dire di specialista, di teorico, detentore di un certo sapere, più o meno esoterico (249).”. Confucio è diventato un confucianesimo, Platone un platonismo, Marx un marxismo, la filosofia un filosofismo. Alcuni invero resistettero già in passato. Hadot cita Boezio, Alberico di Reims, Dante e Petrarca, Mastro Eckhardt, Erasmo, Montaigne ed in disputa con Foucault, il Cartesio delle Meditazioni. Ma anche e soprattutto Kant e la sua filosofia cosmica, Rousseau, Shaftsbury, Schopenhauer, Emerson, Thoreau, Kierkegaard, Marx, Nietzsche, James, Bergson, Wittgenstein, Merleau-Ponty[2].
Arriviamo così a questa citazione del sociologo francese G. Friedmann: “Molti sono coloro che s’immergono totalmente nella politica militante, nella preparazione della Rivoluzione sociale. Rari, molto rari, sono coloro che, per preparare la Rivoluzione, intendono rendersene degni” (p.265). Di questa filosofia integrale, di questo lavoro sul sé, prima che sul Mondo, non vi sarà più traccia in Occidente. La separazione teoria – prassi non è solo nociva nell’oggetto (il Mondo), lo è ancora di più quando si presenta nel soggetto (l’Io) e lo è perché inevitabilmente il pensiero perde trazione reale e diventa totalmente idealismo, malattia mortale della filosofia poiché ne devia l’essenza in teologia o ideo-logia. Il cambiamento diventa alternativamente o la via interna della cura psichica, meditativa, alimentare, ginnica, come se il problema fosse solo qui o la via esterna dell’ingaggio sociale, politico, culturale, della lotta strutturale e collettiva tutta volta verso il Mondo, come se il problema fosse solo lì.
Lo scadimento che è conseguito a questa alienazione lo abbiamo visto anche qui, dove partendo da una domanda sul perché non ci fossero più filosofi ribelli, c’era chi rivendicava la bontà della riduzione del proprio ruolo a funzionario del pensiero. Da qualche decennio, quasi un secolo, la “svolta linguistica” ha imposto al centro della riflessione filosofica un moderno Trivium logico-linguistico quasi che come ai tempi di Boezio (475-525) gli oggetti più sostanziali della riflessione fossero stati già appaltati altrove: l’etica alla teologia quando non è utilitarismo, la filosofia pratica condensata nel nuovo paradigma economico-politico, la riduzione della metafisica ad ontologia e questa a logica, l’essere umani alla bio-psico-antropo-sociologia, il mondo naturale al nuovo binomio dominante tecnico-scientifico. L’uomo specchio della Natura, come nell’Uomo nero di Sergej Esenin, fuggito dallo scompiglio del mondo, è solo e “… con lo specchio infranto”.
= = =
Filosofia e cambiamento: il discorso sullo statuto della filosofia e del filosofo antico di Hadot, porta una possibile tesi da aggiungere alle undici di Marx su Feuerbach. L’ultima di queste è la celebre: “I filosofi hanno [finora] solo interpretato diversamente il mondo; ma si tratta di trasformarlo” a cui si dovrebbe aggiungerne una ulteriore: “I filosofi hanno [finora] solo interpretato diversamente l’uomo; ma si tratta di trasformarlo” . Ciò che ci dice Hadot e ciò che ci dicono gli antichi è che ogni trasformazione parte da una auto-trasformazione, il trasformatore deve prima trasformarsi. Nei casi di prassi politica organizzata, prassi che ha in vista una sua idea di trasformazione, anche l’organizzazione collettiva di coloro che condividono lo stesso progetto di trasformazione dovrebbe essere oggetto degli stessi criteri trasformativi. Se il primo problema del moderno è la separazione dell’Intero, occorre ricostruire questo Intero nella procedura del cambiamento oppure ogni sforzo girerà a vuoto.
Se è impossibile pensare che un uomo vecchio, organizzazioni vecchie, producano Mondo nuovo, c’è chi obietterà che non si può avere uomo nuovo ed organizzazioni nuove finché il Mondo rimane vecchio. Ma entrambe le considerazioni portano semplicemente allo stallo, al dilemma del Barone di Munchausen che voleva tirarsi su dalla palude, tirandosi per il codino. Nei progetti concreti di trasformazione occorre allora procedere tenendo conto di tre principi da tener ben saldi come convinzione personale e condivisa.
Il primo è che le trasformazioni sono processi ed impiegano un certo tempo lungo il quale si procederà da livelli minimi a livelli costantemente superiori. Ogni strategia di cambiamento deve avere ben chiaro, quanto tempo ci si da per ottenere quale risultato, non avere impazienza, avere costanza, verificare di continuo quanto non si è più cosa e cosa non si è ancora per percepire la trasformazione, la sua lenta e difficile dinamica. Prendere il gusto di tornare continuamente all’opera di trasformazione come lo scultore torna ogni giorno al suo blocco di pietra dal quale estrarre la figura, la forma della sua idea.
Il secondo principio è che uomo – organizzazione sociale o politica o culturale o tutte e tre queste cose assieme – Mondo, nelle accezioni più generali, debbono assoggettarsi tutti e tre al processo di trasformazione continuata. Individuo, comunità di coloro che hanno una certa idea della trasformazione necessaria e Mondo debbono mettersi in reciproca relazione trasformativa. Cambiare il Mondo è partire per un viaggio dal quale torneremo del tutto diversi da come siamo partiti o altrimenti, vorrà dire che in realtà abbiamo compiuto un falso movimento, il cambiamento l’abbiamo solo immaginato e non prodotto.
Il terzo ed ultimo principio per mettere in opera il cambiamento tanto dell’uomo, quanto del Mondo, è avere un strategia complessa di riferimento. Non basta una meccanica come nel caso dei presunti poteri creativi della antitesi dialettica, occorre pre-figurarsi l’arrivo a qualcosa, disegnarne il percorso, tenere in conto l’enorme complessità che si vuole mettere in moto. Ritornare continuamente sulla mappa e ridisegnarne i contorni, verificare gli errori, imparare dagli sbagli, tentare una nuova via ogni volta che la vecchia si è rivelata un sentiero interrotto.
Cambiare significa rendersi consapevoli di tutte le relazioni complesse che si vogliono trasformare, darsi il giusto tempo, nell’essere soggetti rendersi oggetti della trasformazione. Partire da se stessi è il modo migliore per iniziare subito il difficile e necessario percorso.
[1] Si tenga conto che Hadot, di famiglia molto cattolica, divenne sacerdote nel 1944, lasciò la Chiesa nel 1952 e si sposò l’anno seguente. Secondo il suo stesso racconto , fu questa una precisa dimostrazione di quella coerenza tra essere e pensare di essere, in quanto non avrebbe mai sopportato di dover amare la sua donna e di dover frequentare la sua amica (filo-sophia) di nascosto. Ce lo rende simpatico ulteriormente, il fatto da lui dichiarato, di non aver potuto accettare l’ostracismo del pensiero del teologo-scienziato Teillhard de Chardin operato dall’ enciclica Humani Generis del 1950.
[2] “Nei tempi antichi, ad esempio in Epitteto, Plutarco, o in Platone, vi è una critica feroce di chi vuole solo “professori” che vogliono brillare con le loro argomentazioni e il loro stile e che sono quindi distanti da coloro che vivono la loro filosofia. Questo stesso contrasto si perpetua nella filosofia moderna. Kant oppone alla “filosofia scolastica” la “filosofia del mondo” che interessa ognuno di noi. Schopenhauer deride la filosofia accademica, che descrive come “scherma di fronte allo specchio”. Thoureau dichiara “Ai nostri giorni, ci sono professori di filosofia ma non filosofi” e Nietzsche scrive: “abbiamo appreso il minimo delle cose che gli antichi insegnavano alla loro gioventù? Abbiamo imparato il minimo tratto di ascetismo pratico di tutti i filosofi greci?”. Bergson e gli esistenzialisti difendono o stesso concetto, quello di una filosofia che non è una impalcatura di concetti, ma un impegno “di” e nell’esistenza”: Intervista ad Hadot di T. Grillet per Nouvel Observateur del Luglio 2008. Da: http://www.filosofiprecari.it/wordpress/?p=1946