Diego Marconi è ordinario di Filosofia del linguaggio a Torino. Membro influente delle Società di filosofia analitica italiana ed europea. In “Il mestiere di pensare” (Einaudi, Torino, 2014), tenta una riflessione meta-filosofica sulla disciplina, lo specialismo ed il professionismo, il ruolo sociale del filosofo. Marconi parte da una tesi a cui vuole opporre una anti-tesi. La tesi è espressa non da un filosofo ma da un grande pensatore di scienza, Freeman Dyson[1]. Dyson si domandò polemicamente: quando la filosofia ha perso mordente? E si rispose sostenendo che ciò era avvenuto da quando era diventata un disciplina accademica a sé stante, gli ultimi capolavori del pensiero furono quelli di Nietzsche ma nei nei dipartimenti di filosofia, oggi, non c’è posto per il “mistico”. Probabilmente Dyson non trova un filosofo migliore di lui, altrettanto sovversivo e propenso alla metafisica cosmologica.
Ma fa bene Marconi a prendere questa tesi generica perché egli “sente” che essa rappresenta un sentire più vasto, quello di chi avverte che la filosofia contemporanea ha smarrito il suo oggetto primo. Marconi che tra gli altri ha studiato con W. Sellars[2], riporta la definizione che questi diede dell’oggetto filosofico primo, non l’unico, ma quello sostanziale: “o la filosofia è il tentativo di < capire come le cose, nel senso più ampio possibile del termine, stanno insieme, nel senso più ampio possibile del termine >[3] oppure non è.”[4].
Personalmente, come già espresso qui, al posto degli “o – o”, propendo per gli “e – e” e correggerei quanto riportato non proponendo un aut-aut (…o è…o non è). La filosofia ha almeno tre grandi tradizioni: quella del pensiero dedicato a diverse questioni (filosofia morale, etica, teologia, estetica, etc.), quella del pensiero che controlla le forme di pensiero dedicate a diverse altre questioni (filosofia della storia, della scienza, del linguaggio, della mente, etc.), quella del pensiero che si occupa del Tutto (metafisica, ontologia) ed al contempo di come pensa (gnoseologia o epistemologia o metafilosofia, logica) ovvero quella che si occupa di se stessa in generale. La definizione di Sellars è relativa ad un tipo, quella che ha in oggetto il Tutto, quello che chiamerei <l’oggetto primo> e sulla quale mi domanderei: a) si giustifica questa definizione dell’oggetto primo della filosofia?; b) questo oggetto primo si è davvero perso negli ultimi decenni, da quando esattamente e perché?; c) se si risponde sì alla prima parte dell’ultima domanda, si può e si vuole porre rimedio? e come?.
Dopo aver polemizzato un po’ con Dyson, Marconi individua il punto: si sente la mancanza del filosofo sistematico, del pensatore dell’intero, del “Grande Filosofo”? Ma questo è una specie rara, argomenta il nostro, comparsa nella prima metà del XIX° secolo, perché fare di una minuta specie un genere? Bah, dire che Platone e Aristotele, Tommaso d’Aquino, Cartesio, Spinoza, Kant ed Hegel siano stati un incidente della storia del pensiero mi pare poco avveduto. E mi pare ancor più bizzarro non considerare che questa serie si interrompa all’inizio della seconda modernità. Anzi, per la verità Marconi lo nota e ne fa la ragione per cui scompare la filosofia generale ed il suo posto viene preso da quella frammentata, sempre più specialistica.
Fu la poderosa inflazione di filosofi, di pubblicazioni, di sguardi sul mondo a portare allo specialismo (ma siamo sicuri di non posporre causa ad effetto?) ed alla ridefinizione sociale del filosofo, da genio solitario ed un po’ oracolare, a ricercatore normalizzato in istituzioni, comunità epistemiche, procedure di verità condivise, premi e promozioni, insomma l’epoca in cui pensare è diventato un mestiere ed il filosofo un professionista del pensiero. L’immagine usata altrove è quella che al posto del visionario ideatore di cattedrali, oggi ci sono umili ma forse più concreti artigiani di arredi. Già, ma questo vuol dire che non ci sono più cattedrali o che non sono i filosofi a pensarle? Chi è il datore di lavoro di questi umili artigiani? Possibile definire colui che non si fa queste domande un filosofo, stante che sicuramente è un professionista?
Secondo il nostro, esistono tre diverse tradizioni che tentarono e tentano di porre rimedio alla perdita di generalità: una sorta di storicismo filosofico che però rinuncia al pensiero generale in prima persona, una ermeneutica che sviscera l’interpretazione dei concetti ma che rinuncia al pensiero generale in prima persona , la filosofia analitica che dimentica autori e storia e si concentra su i “problemi filosofici” per cercare di risolverli, problemi circoscritti a piacere ed approfonditi come un “tuffatore delio”[5]. Naturalmente anche l’analitico rinuncia al pensiero generale in prima persona sul Tutto, poiché “su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere“. Tre strategie del punto di vista sul particolare, visto che siamo troppi, si pubblica troppo e tenendo famiglia dobbiamo pur portare uno stipendio a casa, condizioni che escludono in via di principio il “generale”, vago, inconcludente e magari in contrasto con i principi dei datori di lavoro, quella “libera muratoria” da sempre dedita a costruire cattedrali.
Il dio di Nietzsche se non è morto è ben conciato, ma al suo posto è apparsa la religione del capitale, come intuì per tempo W. Benjamin[6]. Oggi le cattedrali si sono trasferite al mercato, il migliore dei mondi possibili e gli officianti il culto, danno pane e lavoro ai pensatori, spesso in cambio di una dedizione completa ad arredare le ampie navate costruite con ardore scientifico o comunque allontanando lo sguardo dalle cose viste dall’alto e per intero. Già questa dislocazione del luogo di culto e lo slittamento dell’oggetto stesso del culto meriterebbe riflessione profonda.
Marconi non si nasconde alcuni difetti dello specialismo e dei suoi tecnici: quando parlano non si capisce molto di cosa stiano parlando perché debbono dare il retroterra per scontato, riferendosi a colleghi coinvolti allo stesso livello di profondità delle analisi, cosa che li rende indecrittabili ai profani; gli oggetti della loro ricerca possono sembrare del tutto privi di interesse e peso, poiché questi non condividono lo stesso orizzonte epistemico; persi nelle oscurità del concetto atomico (non divisibile e non connesso), dell’intrico di rimandi storici, del sezionamento della logica col linguaggio o del linguaggio con la logica o di entrambe con l’algebra, rischiano di perdere il loro stesso “senso”, ragion per cui si perdono nella selva oscura. Ma se si ci fa guidare dalle coordinate certe della cartografia ufficiale per cui il sapere prodotto deve essere: a) utile; b) vera conoscenza (utile a chi? vero per chi e rispetto a cosa?); non c’è da temere e ci si può salvare. Può sembrare che questa ricerca non serva, ma tanta ricerca scientifica apparentemente non serve a niente. Può sembrare che sia inutile, ma tante discipline reinventano concetti già noti in filosofia, ripensano un già pensato con grave spreco di energia intellettuale e lucidità (vero), magari solo perché la filosofia non sa comunicare i suoi guadagni. L’incapacità comunicativa (una sorta di versione forte del calzolaio con le scarpe rotte, specie nella versione filosofo analitico che praticamente non fa altro che domandarsi come diciamo le cose, salvo poi non saper “comunicare” ciò di cui si occupa) è la contro-tesi, la diagnosi con cui Marconi, intende rispondere a Dyson.
Precisa la critica dell’intellettualismo continentale, autori “sintatticamente complessi, densi di riferimenti eruditi, di allusioni per addetti ai lavori, di termini colti, di concetti oscuri introdotti senza spiegazione alcuna”. L’ elitismo dei filosofi continentali è in effetti irritante ed ancor più quel senso sacrale del sacerdozio della sapienza che usano spesso come forma ammantante un contenuto vago, se presente. Per altro anche loro, sembrano più preoccupati di comunicare tra loro nei vari dialetti filosofici delle remote valli epistemiche a cui appartengono. E si noti che nella tradizione continentale, generalizzando, oltre lo spregio per la comunicabilità, l’argomentazione e la giustificazione, non è che si mostri una maggiore dedizione all’oggetto primo. Tra psicanalisti mancati, ermeneuti, esteti, grammatici, le fondazioni sono anche qui sul metroquadrato di ampiezza. Semmai, a differenza degli analitici, c’è un po’ più di umano, di riferimento a qualcosa di più urgente, parziale ma reale.
Non meno precisa la facile critica del filosofo mediatico, non il serio divulgatore, ma l’opinionista del tutto senza aver minima cognizione del tutto. Mancano i divulgatori seri ed alla schiera dei Warbuton, Okasha, Varzi, Casati (ma anche Ferraris o D’Agostini) a cui lo stesso Marconi si unisce, continuando il volumetto con delle brevi presentazioni delle tradizione analitica e lo sviluppo di alcuni concetti della tesi principale, oltre all’irrinunciabile incursione sul – salviamo la verità-, tema a cui il nostro ha dedicato un’altra fatica[7] e che vede una recente, sincronica mobilitazione della scuola torinese, ammesso si possa definire tale.
Torniamo alla nostre domande iniziali. La prima è: è giustificato che la filosofia abbia il suo oggetto primo nel <capire come le cose stanno assieme (nei sensi più ampi possibili)>? Possiamo cercare la risposta postulando che ciò che ci sembra la situazione principale[8] è un Io che pensa e che si trova circondato, nello spazio, come nel tempo, da Mondo. Prima di questa c’è stata e dopo di questa ci sono state e ci saranno altre situazioni, ma ognuno di noi è primariamente interessato a questa. Nel Mondo ci sono tutte le cose tra loro inestricabilmente intrecciate e l’Io stesso è una di queste cose che, oltretutto, apporta al catalogo del mondo, non solo se stesso come uno, ma il proprio universo interno. Lo stesso fanno i suoi simili, simili con i quali stabilisce anche l’esistenza sociale di altri oggetti ed eventi, simili con i quali condivide ontologicamente l’ansia del futuro. Questo è il Tutto. Chi altro pensa questo Tutto e il come pensa chi pensa questo Tutto[9], stante che è la cosa che più ci interessa dal punto di vista della nostra esistenza, della sua estensione, della sua qualità?
Lo fa la scienza? La scienza non è certo scienza del Tutto (di quella che abbiamo definito, “situazione principale”), sarebbe un controsenso (scienza come conoscenza chiara e precisa delle leggi del comportamento di determinati oggetti). Vi sono innumerevoli oggetti che non hanno quelle leggi chiare e precise e se ne hanno, esse si sovrappongono in maniera tale da rendere quasi inutile pensare di calcolarle (incomprimibilità dell’algoritmo complesso). La scienza fa un ottimo lavoro, ma su una porzione di Mondo. E oltretutto, di questa parte del catalogo, la scienza ci dice il com’è? non il cos’è? Inoltre, la scienza, non è interessata a capire come i suoi oggetti stanno insieme a costituire una parte di Mondo, in cui ci sono molti altri oggetti e soggetti. Infine, pare poco incline a discutere del cosa si deve interessare, visto che questo è deciso a monte da chi la finanzia e che non è più possibile fare scienza da casa come Galileo o Newton o Faraday. Secondo Heidegger, la scienza non pensa. Non credo si possa essere così drastici, certo però non lo fa sempre e soprattutto lo fa all’interno di confini paradigmatici precisi e dandosi oggetti altrettanto precisi, in genere isolati dai contesti e spesso fortemente idealizzati. Non è un difetto in sé, sono le semplici restrizioni congenite alle sue condizioni di possibilità ed è soggetta, come chiunque altro, ma data la stretta dipendenza dal potere economico e politico anche di più, alla condizioni di bassa emancipazione dell’attività umana di pensiero.
Lo fa la religione? La religione non è scienza e contrariamente a quanto si pensi o si sia pensato, anch’essa non si occupa del tutto in quanto Tutto. Ad esempio, il suo ontologico dissidio con la scienza già dice dell’ampia porzione di Mondo, di cui la religione non solo non può occuparsi, ma che rifiuta spesso perché in contraddizione con i suoi assunti fondativi. La religione ha messo a posto il suo punto di vista sulla situazione principale, postulando il “terzo uomo” (o terzo ente), il garante dell’Io e del Mondo e della loro relazione di modo che dalla sua ipotesi di esistenza si possano trarre tutte le determinazioni che altrimenti sfuggono se si rimane nella situazione principale data, irrimediabilmente “relativa”. Essendo una costruzione dogmatica, è molto efficiente, ma poco realistica. Ha avuto, ha ed avrà una sua funzione, ma lontana da quella che qui stiamo cercando.
La filosofia nacque non sappiamo quando. Può darsi che alle origine ci fosse solo religione e proto-scienza, magari amalgamate in forme bizzarre come metafisica descrittivo-poietica. Credo però (ma non posso dimostrarlo) che con la nascita delle società complesse, circa 10-12.000 af, si siano formati interrogativi non riducibili alle pertinenza della religione e della proto-scienza. E credo che, al tempo e non prima, si siano formati interrogativi su cose che prima non c’erano, come la società, la convivenza e le sue regole, la relazione umana continuata, la relazione con la natura, con le altre genti, la giustizia, l’etica del comportamento, la politica, come comporre la diversità delle opinioni, l’autocoscienza esistenziale e tanto altro ancora. Con i Greci la filosofia s’infilò tra gli oggetti troppo stretti della scienza e quelli allargati sino ai limiti della più spericolata fantasia della religione e cominciò a porsi le domande sulla situazione principale ed al contempo su come si pensa a tutto.
Oggi questa situazione principale ha raggiunti livelli smisurati ed incalcolabili di complessità. La scienza si è ramificata entro i suoi fondamenti paradigmatici rimanendo fedele al principio di selezione e restrizione dei suoi oggetti, condizione essenziale per il suo esercizio. La religione ha perso molta della sua precedente credibilità per altro mal riposta, restringendo vieppiù anche lei i suoi oggetti, l’etica, la morale, le ipotesi sovrasensibili ed escatologiche e poco altro. Lo spazio per comprendere Io e Mondo, inclusi gli atteggiamenti scientifici e quelli religiosi, nonché quelli di tutte le singole discipline che si sono frapposte tra scienza e religione, ognuna dotandosi di una propria epistemologia e di una propria ontologia, tutte definite dalla particolarità del loro oggetto (solo l’economia, solo la società, solo la psiche, solo il cervello, solo il linguaggio, solo il diritto etc.), ciò che è il Tutto ed il come lo pensiamo, la “situazione principale” chi lo può e deve pensare, stante che è la cosa più importante che c’è, almeno dal nostro punto di vista?
Questo Oggetto di tutti gli oggetti, si è perso nello sguardo filosofico e da quando? Diciamo che non è stato mai completamente la centro di un interesse filosofico, vieppiù che le cose si sono fatte più complesse. Anche tenendo conto del lungo ingombro che la religione ha rappresentato, almeno sino ad Hegel incluso. Dopo Platone ed Aristotele, Tommaso lo ha fatto ma secondo il paradigma religioso, Spinoza, Kant e da ultimo Hegel, hanno seguitato l’incerta tradizione. Ma anche altri tra i moderni della prima fase da Cartesio ad Hobbes, sino a Schopenhauer e financo Nietzsche anche se con una metafisica negativa, hanno portato il loro contributo. Vi sono poi stati contributi certo importanti nella filosofia del XX° secolo, ma sempre ritagliati su qualche porzione del Tutto. Cosa ha provocato questa ritrosia a cimentarsi “anche” con l’Oggetto primo?
Vi è stata, a mio avviso, la concorrenza di tre fattori principali, uno interno alla disciplina, due esterni. Quello interno è dovuto ad una crisi ontologica del modo di pensare occidentale. Hegel è l’ultimo a provare ad inquadrare l’Intero, ma lo fa sulla scorta di invisibili condizionamenti dovuti alla tradizione, al luogo ed al periodo storico al quale appartiene. Alla fine, la materia è lo Spirito, la forma è la dialettica, il sinolo è la Fenomenologia e l’Enciclopedia. Ricordiamoci che Hegel chiude l’Enciclopedia con la citazione della Metafisica di Aristotele, lì dove facoltà umana pensante riflessiva “pensiero che pensa se stesso” (l’autocoscienza) e dio (lo Spirito Assoluto, il Motore Immobile o sostanza prima) si danno la mano. Bella cattedrale ma religione vecchia[10]. Nessuno è mai riuscito a costruire alcunché con l’hegelismo, se non critica. Gli esiti di sterilità e l’inspiegabile finale totalizzante della cattedrale hegeliana, hanno provocato tra l’altro, una reazione uguale e contraria, di rifiuto apriori dell’esercizio architettonico nel pensiero. La “specie” hegeliana ha de-posizionato (posizionato negativamente) il “genere” sistematico.
Il secondo e terzo motivo sono parti di una unica ragione storica che vede gli anglosassoni dominare il mondo, incluso quello occidentale e la sua mentalità. S’intenda hegelianamente il fatto, ovvero se ciò è ciò che è successo, è perché vi sono ragioni necessarie sia così stato, è stato perché ha funzionato ed ha funzionato meglio di ciò che non è stato. Ci può dispiacere, possiamo e dobbiamo criticarlo, sanzionarlo nel giudizio se vogliamo, ma dobbiamo sempre ricordarci la sua natura di -fatto-, si è prodotto quel fatto perché non c’erano e non si sono create sufficienti condizioni di possibilità perché si manifestasse un altro fatto o una alternativa di fattualità. Se si fosse portato avanti lo sguardo sull’Intero, magari si sarebbe potuto capire meglio perché così è andata, perché cià ha portato due guerre mondiali, perché dopo una breve stagione di pace e prosperità, stiamo di nuovo facendo passi indietro a grandi falcate. Comunque, il relativo successo di questo ordine politico-economico-militare ha sovrainteso e rinforzato, col suo successo evidente di fatto che funziona e funziona relativamente “bene”, le altre due cause.
La prima delle quali è stata la progressiva affermazione della scienza, come sapere adattativo. Ha migliorato la longevità, la forza militare delle nostre nazioni che così hanno nutrito il nostro livello di vita (salvo qualche danno collaterale), la produzione poietica di ognicosa, la prevedibilità di alcuni eventi, la conoscenza ai fini della manipolabilità della natura, ma anche quella finalizzata a se stessa come nel caso del cosmo (oggetto tra i più antichi dell’umana interrogazione) e molte altre cose. Questo è diventato un “modello”. La filosofia ha assunto due atteggiamenti sbagliati, rispetto a questa storia di successo. L’ha esaltata sino a farla diventare un modello per se stessa, non vedendo l’eterogeneità ontologica che separa l’oggetto scientifico da quello filosofico, almeno per le più vaste regioni di quest’ultimo, regioni ampie e complesse che ospitano cose ed eventi non matematizzabili, determinati da cause plurali e talvolta composte di linee talmente fini e sovrapposte da sembrare “caso”. All’opposto l’ ha censurata, negandola, dileggiandola dall’alto di una superiorità rancorosa e del tutto insostenibile, ha reagito concentrandosi su porzioni di Mondo sempre più piccole e fuori della portata della scienza per salvaguardarsi il territorio di minima riproduzione, in attesa di tempi migliori. Una grande parte della filosofia del XX° è esercizio sopraffino di analisi critica, ma non è che con l’esercizio destruens, appare per miracolo un qualche costruens. Questo è uno dei tanti lasciti perversi della fede irrazionale nel movimento dialettico hegeliano. Si badi il fatto che questo ritirarsi sdegnoso non è solo stato motivato dall’invasività scientifica, ma anche dalla diaspora di tanti saperi che hanno -giustamente- lasciato la filosofia per darsi un proprio statuto autonomo, secondo il modello attrattivo e sempre più influente della scienza. Così psicologia e psicoanalisi, sociologia, antropologia, linguistica, economia, diritto, “scienze” politiche ed altre ancora.
La seconda è conseguenza della precedente ed arriva proprio lì dove incontriamo lo specialismo. Non aver saputo fare i conti col concetto di verità[11] (la “verità”, dopo Nietzsche, Marx e Freud, doveva essere un concetto da riformare pesantemente, così non è stato) ha creato una situazione in cui i saperi disciplinari hanno, ognuno, prodotto un proprio sapere di verità orientato al Mondo e potenziato da varie forme, più o meno riuscite, di analogia scientifica, vero fattore truth maker. La filosofia si è dilaniata tra la divisione imperante del lavoro in istituzioni sempre più orientate dal mainstream scientizzante ed economante[12]; i fallimenti delle proprie narrazioni spesso del tutte gratuite; la logica geo-storica delle idee (i “francesi” sono stati mantenuti in vita da una intera, orgogliosa nazione, spesso a prescindere il contenuto del loro pensare e dire, non sempre comprensibile); l’impossibilità di dire qualcosa di veramente nuovo ed interessante, non potendosi più occupare di quelle tante porzioni dell’essere che fanno il Mondo, porzioni ormai appaltate ai vari sguardi disciplinari; la riproposizione reiterata della scuola del sospetto in varie salse o trincerandosi dentro la non meno angusta e sterile sequenza dei post-di-tutte-le-cose, con sistematica alzata delle arcate sopraccigliari scettiche.
La filosofia non ha accettato lo smascheramento delle presunzioni di verità. Non ha fatto altro nel tempo che produrre verità condizionali, “come…se”, “se…allora”, ma ammantandole di assoluto e quando ha scoperto la sua vera natura relativa, è caduta in una crisi esistenziale, financo ontologica. Se avesse conseguito alla presa di coscienza, l’accettazione invece dello scoramento nichilista e della rimozione, oggi saremo in altra situazione.
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La filosofia non è morta, come dice lo stesso Marconi, morirà l’uomo prima che muoia il suo interrogarsi sul Tutto. Vive solo una fase Scolastica e come gli scolastici tardo medioevali, non ci si accorge che, questione di poco, una Peste Nera verrà a chiudere una epoca per aprirne un’altra. Il lavoro specifico non è inutile, ma perde molto del suo significato accanto a quella che molti avvertono come una “mancanza”. Forse Marconi dovrebbe rendersi conto che prima di comprare un libro sulla differenza tra analitico e sintetico o tra tridimensionalisti e quadridimensionalisti, le persone avrebbero urgenza di leggere qualcuno che spieghi in che epoca siamo capitati, perché, come tirarci fuori da quella che sempre più sembra la “tempesta perfetta”. Credo si senta la mancanza di un nuovo pensiero sul Tutto. Dispiace che non ci sia questa consapevolezza autocritica, dispiace i pensatori non siano allarmati ed allarmanti, dispiace che chi ha tempo e modo di nutrire la mente, non la usi per aiutare i simili ad emanciparsi dalle eterne catene. I tempi meriterebbero un rilancio delle grandi domande, nuove cartine geografiche, esploratori coraggiosi, inventori e creativi dell’idea, critici con sogni costruttivi, qualche utopista e qualche arrabbiato non da cartolina come Zizek. Ci vorrebbe una bella distruzione creatrice. Forse la distruzione c’è già stata, è la creazione che tarda.
Come porre rimedio? Può darsi si debba far appello perché, non tutti, ma almeno qualcuno torni a progettare cattedrali. Non disposizioni sistematiche e normative del dover essere questo o quello, ma condizioni di possibilità. Le cattedrali in fondo erano chiese, le chiese luoghi di culto, prima ancora, la chiesa era la comunità dei credenti. Ma l’origine è l’ecclesia, l’assemblea del popolo della democrazia ateniese. Chi progettò l’ecclesia non prescrisse cosa vi si dovesse dire, si occupò solo della condizione di possibilità di dialogare e decidere assieme. Forse ci manca un Clistene o un Solone. Già, Solone, sinonimo di colui che “sa del tutto”… .
Perdere di vista il Tutto, significa rimanere servi, in condizione di eteronomia. E’ vero che il volume complessivo delle idee e dei fatti è enormemente aumentato nell’ultimo secolo, solo la popolazione umana è aumentata di quasi un fattore quattro e con essa l’interrelazione tra le parti, quindi la complessità generale. Certo questo Tutto non è più quello della piccola Atene in cui una mente aggregante un piccolo sistema collettivo di pensatori come l’Accademia o il Liceo, poteva occuparsi di fisica e metafisica, ontologia ed etica, politica e biologia, cosmologia, linguaggio e logica, tutte alle prime armi. Ma è un fatto che nessuna istituzione umana legata all’interesse del contingente (un contingente che fa parte di una ben precisa forma che ha in essenza la divisione del lavoro), spingerà mai il pensiero a discutere questa condizione, così come è un fatto che questa è precisamente la nostra condizione, la nostra situazione principale.
Porre rimedio, potrebbe cominciare dal porsi questo problema. Aristotele dava del sapiente una definizione in sei punti, di cui il primo era il -chi-: “…conosca tutte le cose, per quanto ciò è possibile: non evidentemente che egli abbia scienza di ciascuna cosa singolarmente considerata”. E’ difficile e chissà, potrebbe anche essere impossibile, ma è necessario provare. Gli amanti di sophia, questa setta della religione dell’umano, dovrebbero a nostro avviso, riprendere a porsi il problema del loro ruolo, delle architetture entro le quali esercitano la funzione, cacciare i mercanti dal tempio, rivedere alcuni riti, riformare i testi, discutere daccapo i loro stessi dogmi, tornare ad occuparsi della condizione generale del pensiero che deve –anche, ed oggi, soprattutto– tornare a pensare la situazione generale.
Prima che arrivi la peste, magari.
[1] F. Dyson è un fisico-matematico particolare. Ha una visione dello scienziato come “sovversivo”, “Il mondo ha sempre bisogno di eretici per sfidare le ortodossie prevalenti” [Freeman Dyson (8 August 2007). “Heretical Thoughts about Science and Society”. Edge. Retrieved 2007-09-05] e una propria visione metafisica che assomiglia alla Grande catena dell’essere versione anassagora-aristotelica.
[2] http://it.wikipedia.org/wiki/Diego_Marconi
[3] W. Sellars, La filosofia è l’immagine scientifica dell’uomo, Armando, Roma, 2007.
[4] D. Marconi, op. cit., pg.16.
[5] Metafora forse ironica, pare usata da Socrate a commento della difficoltà di intendere la profondità presunta di alcuni passi dell’opera di Eraclito, su cui un anonimo interlocutore gli chiedeva un giudizio.
[6] W. Benjamin, Il capitalismo come religione, Il nuovo melangolo, Genova, 2013
[7] D. Marconi, Per la verità, Einaudi, Torino, 2007
[8] Il Lebenswelt o Mondo della vita, nei suoi molteplici significati.
[9] La seconda parte di questa definizione del filosofo immaginario è in effetti, in vario modo indagata sia dagli analitici, sia dai continentali. La nostra tesi è che è la prima, ad esser del tutto assente. Tra le altre, esistono due visioni dei rapporti tra ontologia e metafisica. Una, diffusa sopratutto tra gli analitici e definita da W.O. Quine è quella per cui l’ontologia dice cosa c’è e la metafisica che cos’è (come si faccia a stabilire cosa c’è, senza una idea apriori del cosa è ciò che c’è non è chiaro). L’altra prevede che l’ontologia si occupi degli enti, la metafisica dell’essere in generale.
[10] L’accusa di antichismo, il fatto che molta filosofia continentale stia ancora ad Hegel e Marx, Nietzsche e Freud, che pur ragguardevoli giganti del pensiero, sono “il proprio tempo appreso col pensiero” (da cui consegue che, appunto, è pensiero del XIX° secolo e quasi un secolo e mezzo è passato da allora, un secolo e mezzo con non pochi fatti di rilievo gigantesco), è di solito rivolta dagli analitici appunto, ai continentali. Deve essere presa come battuta polemica, una “interpretazione” o rileva un fatto? Quanto a lungo si vuole negare i fatti, in Europa? Leggere Zizek che “riscopre” Fichte, è avvilente. Ognuno di noi si issa sulle spalle dei giganti e su molti temi, i giganti primi sono addirittura gli antichi Greci. Ma dopo aver dato lo sguardo, si potrebbe anche proferire qualche nuovo pensiero, no?
[11] E’ questo un tema super-massivo, a cui dedicheremo prossimi articoli. Personalmente non credo esistano tante verità vere e non credo che il fatto che la maggior parte siano dei “come…se”, ci impedisca di continuare a ragionare “come…se” fossero vere. Ma la questione è assai complicata e merita un suo spazio.
[12] Chiedo scusa per l’orripilante neologismo
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