“Il totale è maggiore della somma delle sue parti”. Questo enunciato è spesso citato come il paradigma orientante una visione che viene detta alternativamente -olistica-, o -complessa-, come se i due termini fossero equivalenti definizioni di una stessa cosa, cosa che non è. Non saprei dire chi l’abbia formulato così, originariamente[1]. Così formulato, l’enunciato prende un inevitabile sapore paradossale. Il paradosso val bene come apertura per una attenzione, destabilizza il circuito logico di modo da lasciarlo aperto in quel –non ho capito-, che appunto “apre” a successive indagini, precisazioni, approfondimenti. Sempre che ve ne sia volontà, cosa che spesso non accade.
Il sapore paradossale sta nella frizione tra forma e contenuto. La forma di questo enunciato è quella matematica tra i cui fondamenti logici inaggirabili sta il fatto che il totale è sempre la risultante di una addizione, se si fa una somma. Affermare il contrario, suona appunto come provocazione, come paradosso sconcertante. Il contenuto invece dice che questa semplice addizione di costituenti, non porta a definire il tutto di cui fanno pur parte, manca qualcosa. In pratica si vorrebbe dire che l’intero non è un totale, l’intero non può essere oggetto di operazioni matematiche quali l’addizione o meglio, che l’addizione non è una procedura che dà il senso costitutivo di un intero poiché non addiziona tutto ciò che lo determina e/o perché non tutto ciò che lo determina è addizionabile.
L’enunciato ha quindi il sapore di una scoperta iniziale per la quale si invitava a non approcciare gli interi come totali. Gli interi (che sono l’oggetto privilegiato dello sguardo “olistico” ed in quanto sistemi, di quello “complesso”) non sono oggetto di composizione matematizzabile. Esso quindi, nei tempi in cui fu coniato, non era un paradigma, non era una asserzione fondativa nel senso produttivo, ma era una distinzione, un allarme, una segnalazione di eccezione: attenzione! a gli interi non si applica la matematizzazione!
In effetti, la sua versione paradigmatica esiste ed è lontana nel tempo. Risale ad Aristotele, nella cui Metafisica Libro H 1045 a 9-10, troviamo buttato lì: “…il cui intero è qualcosa di più delle parti”. Ciò a cui si riferiva Aristotele era “…tutte le cose che hanno molte parti, e il cui insieme non è come un ammasso”. Non essere un ammasso significa che le parti sono poste in relazione reciproca, sono un sistema, una struttura, una organizzazione, un organismo, una architettura e per un sistema, certo è che l’analisi delle parti non risolve la conoscenza di tutto ciò che lo fa essere tale, appunto perché manca qualcosa, mancano le relazioni. A meno di non analizzare come parti anche queste relazioni e il loro risultato, cosa che la nostra immagine di mondo non è portata a fare per come si è evoluta la storia dei concetti e delle procedure analitiche che la compongono.
Nel passaggio dalla vaga enunciazione aristotelica e l’apparentemente più precisa enunciazione moderna, dal dato di fatto sull’intero, siamo passati alle provocazioni per dissonanza logica tra interi e totali. Da una ontologia, siamo passati ad una critica epistemologica. Ma una critica epistemologica parte già assumendo di fatto, l’imperio di una visione del mondo, gioca -diciamo così-, in difesa. Avanza timidamente, riserve sulla verità usando il linguaggio e quindi la logica, della visione del mondo che s’intende criticare, non oppone il fondamento di un’altra visione di mondo, ma si limita a dubitare della perfetta estensione di quella dominante. La contestazione di verità non è come sembra, sul fatto che le somme portino o non portino a totali ma sul fatto che tutto ciò che è composto di parti, sia sempre definibile un totale. Per questo l’enunciato “il totale è più della somma delle sue parti” non è un paradigma.
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La cultura della complessità ha una sua importante attualità. Essa è ormai sviluppata estensivamente in quasi tutte le discipline. Lì dove ancora c’è resistenza, è ahinoi proprio in filosofia. Lo stesso E. Morin che è considerato par exellence “il” filosofo della complessità”, ha condotto nel suo lungo ed appassionato lavoro, più che altro una critica epistemologica e solo in vecchiaia si è rivolto all’etica. E’ invece ora che si fondi una precisa ontologia della complessità, che la visione del mondo complessa si doti di una sua metafisica di riferimento.
Tracce di questa possibile fondazione, oltre che in Eraclito e più in generale nei cosiddetti pre-socratici, le troviamo nello stesso Aristotele. Il fondamento della metafisica aristotelica, com’è noto, è la sostanza. Su cosa lo Stagirita intendesse per –sostanza– sono stati scritti trattati su trattati, senza per altro venirne a capo in maniera definitiva. Probabilmente una certa nebulosità del concetto è dovuta alla natura esoterica degli scritti che ci sono pervenuti. Una traccia un po’ più sicura delle altre, la troviamo in Metafisica, in uno della cosiddetta -triade di libri sulla sostanza-, nel libro Z, 17, 1041b, 11-28, lì dove c’è il famoso esempio della sillaba. La sillaba non è solo le lettere da cui è formata, BA non è identica alla comprensione di B ed A, nell’unirsi in unità, B ed A danno vita ad un intero che più delle sue parti, anche nel senso che questo non è -riducibile- a quelle. Separando le parti costituenti, si perde la sillaba, l’oggetto non è ontologicamente scomponibile[2] senza perderne l’essenza ovvero il suo –essere-. Aristotele argomenta che questo qualcosa che si produce nella sillaba come un -di più- della sue parti componenti, non è un elemento, né un composto ulteriore di elementi anche perché così di procederebbe all’infinto, spia sicura di procedimento aporetico. Aristotele conclude che non essendo un elemento ulteriore, questo “qualcosa” sarà la causa propria per cui una sillaba è una sillaba e questa è secondo lui la fatidica “sostanza”, causa prima dell’essere. Sulla natura sfuggente di questa causa si potrebbe ulteriormente argomentare addentrandosi nell’ermeneutica aristotelica fitta di labirinti composti di materia e forma, cause efficienti e finali, potenze ed atti, ma non è questo il nostro scopo. Preferiamo rimanere sul punto di quel qualcosa che fa di un possibile, un qualcosa. Questo è ciò che fa l’intero che “emerge” dall’interrelazione delle parti[3].
Questo qualcosa è la relazione, la relazione tra le parti. A e B sono due cose distinte, se le interreliamo in AB e BA avremo due sillabe diverse, ognuna intero più delle sue parti, cioè sillabe e non lettere, l’una diversa dall’altra a seconda di come si relazionano le parti. L’ontologia della complessità prevede un elemento non cosale costitutivo, oltre alle cose, gli enti, il loro modo di interrelarsi. L’interrelazione delle parti è ciò che da vita a quella che Aristotele chiamava -eidos-, -forma-.
La relazione è una categoria tanto in Aristotele, quanto in Kant. E’ cioè un modo dell’essere, non è elemento costitutivo dell’essere. L’ontologia complessa invece, pensa l’essere come una relazione[4], sia una relazione interna alle sue parti, sia una relazione esterna dell’essere come uno che si rapporta al suo molteplice esterno. L’essere è un –essere una relazione–[5].
Così come noi strutturiamo il pensiero antico in base ai nostri pre-giudizi ed alle nostre pre-comprensioni, anche gli antichi erano condizionati da invisibili paradigmi. Così in Aristotele non troveremo mai qualcosa che ci dica chiaramente che la sostanza è una relazione (dice in realtà l’esatto contrario, la relazione è la categoria meno dotata di essere, sebbene nel vocabolario aristotelico non esista il termine sostantivato -relazione- ma quello più limitato di preposizione “rispetto a…”, “in rapporto a…”) anche se la pluralità di aspetti e di modalità nelle quali essa si estrinseca, indica già implicitamente che deve esserci una rete di aspetti e significati che portano al concetto unitario. Troviamo però la critica, a volte feroce, al matematismo e geometrismo accademico, schemi a priori che secondo Aristotele non potranno mai capire cos’è la sostanza, come i nostri occhi non vedono le code a bassa ed alta frequenza dello spettro elettromagnetico. Così la relazione tra idee (forme-eidos) e materia, tra essere e divenire, tra sopralunare e sottolunare, tra potenza ed atto, tra presupposto e fine, tra universale ed individuale, tra concetto-parola-cosa, tra anima e corpo, uno e molteplice etc..
E’ l’aver scambiato l’utile procedura cognitiva della dialettica diairetica, per una percezione concreta dell’essere in quanto tale, l’ulteriore problema. Problema poi incancrenito da Hegel. Quello dello Stagirita non è un monismo certo, è una critica continua del dualismo platonico, è la prospettiva di un pluralismo che avrebbe potuto giungere a pensare esseri per relazioni, a loro volta impegnati in relazioni. Esseri incomprensibili sia per il riduzionismo idealista che per quello materialista, poiché la relazione non è una idea ma un fatto concreto ed al contempo non è materiale (o spesso così non sembra) ma fenomenico. E’ un ἐόντα (-evento- in greco antico epico-dorico-ionico) e non un όντα (-essere-).
Nel mondo materiale, la relazione è spesso veicolata da forze o da energia ed il concetto di forza ed energia (in senso fisico e non spirituale) è piuttosto tardo nello sviluppo della nostra concezione del mondo. Un maestro della fisica e del suo pensiero, R. Feynman, nelle sue Lectures on Physics (Vol I, p.4-1) ricorda con onestà che “E’ importante tener presente che nella fisica odierna, noi non abbiamo nessuna conoscenza di cosa l’energia sia”. Sappiamo abbastanza (o almeno abbiamo tale credenza) come si comporta, i suoi effetti, ma cosa sia in sé per sé, no. Lo stesso per quelle che chiamiamo “forze” che forse sono nome fenomenico della stessa cosa sottostante ciò che chiamiamo energia. Aristotele introdusse per primo il concetto di energeia come quel qualcosa che portava la potenza (dynamis) ad essere in atto (entelecheia). Da Aristotele a Thomas Young che è il primo ad usarlo in forma moderna nel 1807 corrono più di due millenni, due millenni di ontologia metafisico-cosale, per questo il concetto non esiste nella nostra immagine di mondo. Per questo per frequentarlo bisogna andare nelle estreme periferie del pensiero, avanzate (teoria del campo quantistico) o folkloriche (filosofie orientali e pseudocienze).
Nel mondo delle idee, la relazione intesa come formante un sistema, appare con Galileo ma non è pensata riflessivamente. Passando per Newton (System of the World, 1728) ricompare con l’architettonica kantiana ma in fondo alla prima Critica, quando il lettore ed anche lo studioso è sazio ed esausto. Occorre aspettare F. de Saussure perché si presenti con chiarezza la nozione di sistema, che poi verrà intesa in forma ibernata come struttura. La forma, il vero principale candidato al titolo di sostanza piena di Aristotele, è la struttura che relaziona queste parti, la sua organizzazione, la sua funzione, è struttura e processo. Questa interpretazione non era però possibile prima che si formassero i vari concetti componenti l’idea di sistema materiale ed immateriale. Quest’ultimo poi ha fino a poco tempo fa (ma per certi versi ancora oggi) ha corso il serio rischio di significare “spirituale” poiché la diade è una fisica fatta di solida e tangibile materia e una metafisica fatta di idee ed intangibili procedure logiche, tertium non datur. Così l’energia e ciò che lo scambio di energia lega in un circuito sistemico, hanno uno statuto ambiguo, che non si è saputo per lungo tempo come collocare. La mente ad esempio, è un sistema formato da energia e difatti il suo statuto tra cervello ed anima, è ancora ritenuto ambiguo. Si noti che la mente è un fatto, l’ambiguità deriva dalla nostra incerta comprensione derivata da una anelastica categorizzazione.
Aristotele scopre questa rete che connette l’essere, perché era un biologo. La biologia è la disciplina che ha nei suoi apriori la relazioni, il sistema, il divenire, l’adattamento o fine. Un terzo dei suoi scritti erano dedicati a fondare questa disciplina sconosciuta ai tempi, scritti che ragionavano su di una enorme mole di dati presi in prima persona e presi come esperienza travasata nel dialogo con decine e decine di macellai, allevatori, pescatori, agricoltori, medici, -manipolatori dell’essere-. Questa originaria intuizione aristotelica si perde nella metafisica perdente. La sua opera scompare per secoli, poi riemerge nelle interpretazioni neo-platoniche e musulmane, poi viene addirittura vietata la lettura e divulgazione di Fisica ed addirittura di Metafisica con due decreti del 1210 e 1215. Viene poi rimasticata da Tommaso e di nuovo avversata dal neo-platonismo rinascimentale. Finisce come esempio negativo nelle dispute tra domenicani continentali e francescani (platonici) anglosassoni che chissà se lo hanno mai letto. Da quell’originaria damnatio memoriae, il suo pensiero sarà per sempre ostracizzato dalle visioni del mondo a matrice anglosassone che rifiuteranno in toto il suo concetto di causa non conforme alla causa baconiano-humiana e stritoleranno la causa finale sospettata di animismo mistico, nei compattatori concettuali dell’eliminativismo e del riduzionismo. Poi però (l’immagine di mondo è un mondo assai complesso e tutt’altro che lineare), quando interpreteranno Darwin, non avranno remore a dare all’ente biologico non solo la finalità di perpetuare la specie, ma addirittura di compiere una “evoluzione”, rispetto a cosa non è chiaro. L’individuo non ha fini, ma i suoi geni sì, che dire? Ritrovare il -motore immobile- in Dawkins è paradossale solo per chi non ha confidenza con l’intricato mondo delle immagini di mondo.
Aristotele ha anche detto un sacco di cose non condivisibili, ma non più di quante ne abbia dette Platone. Differisce sensibilmente però l’approccio ermeneutico, implacabile col primo, molto ma molto indulgente col secondo. Come abbiamo lungamente argomentato in precedenza, il fatto che alcuni “comunisti” lo rivendichino come padre lontano, mostra l’inclinazione paradossale che la selettività concettuale, comporta. Una revisione dei fondamenti metafisici occidentali, potrebbe trarre molto giovamento da una ri-meditata riflessione sul pensiero di questo fisico-metafisico greco, primo cultore dell’interdisciplinarietà[6]. A partire dall’evitare quel totale che esprimendosi con categorie matematiche, già in partenza, non apre a pensare “quel qualcosa” che è un più delle sole parti, ossia –l’intero-.
Una metafisica della complessità potrebbe partire da qui. Quell’essere che si dice in molti modi, è tra gli altri, Essere come intero composto da tutto ciò che è, ed essere quanto a ente, a sua volta composto di parti. La sostanza dell’Essere e dell’ente, è la relazione delle loro parti e nel caso dell’ente, le relazioni possibili ed attuali che ha col suo esterno, ovvero ciò che lo fa essere ciò che è, un intero e non un totale. La filosofia della complessità –che è l’oggetto principale della ricerca che qui conduciamo– è una filosofia degli interi, il cui motto di origine aristotelica “l’intero è qualcosa più delle parti”, ci consiglierebbe di ripensare all’ontologia della sostanza relativa, come auto-fondazione.
[1] Pare avvenne nell’ambito della psicologia della Gestalt (dalla sua fondazione filosofica in C. von Ehrenfels che la deriva da A. Meinong nel suo studio sulle relazioni che giungono a “complessioni” termine oggi desueto, ma forse da riconsiderare, intorno al 1890) , ma non credo sia mai stata fatto un serio scavo archeo-logico sul concetto.
[2] Il procedimento conoscitivo umano è per natura riduzionista. Il riduzionismo è una contrazione di significati, dai tanti, eterogenei e dispersi che ci appaiono non appena approcciamo un qualcosa di intero, si cerca di sintetizzarne pochi se non uno (reductio ad unum), stringendo la dispersione e l’eterogeneità. Il motivo di questo esercizio istintivo della cognizione è dato da ragioni di economia del pensiero (economica dello spazio cognitivo soprattutto processuale) e di limitazione ulteriore dello spazio attenzionale. In complessità, spesso ci si lamenta fortemente del riduzionismo ma sarebbe meglio dire che si critica il modo in cui è operato perché sul fatto che venga operato c’è poco da fare, essendoci ragioni bio-fisiche e non culturali sottostanti. Una prima critica al riduzionismo dovrebbe essere portata differenziando piano ontologico e piano gnoseologico, stante che il secondo non coincide mai con la cosa in sé propriamente detta. A dire che nell’esempio aristotelico della sillaba, la sillaba può esser scomposta gnoseologicamente ma nel farlo si perde l’essenza ontologica, come -uomo- comportando ontologicamente -vita-, se viene scomposto nei suoi organi, perde appunto la vita, che è la sua essenza data dagli organi ma anche dal loro funzionamento interrelato. In pratica, il riduzionismo scorretto separa le parti e dimentica le interrelazioni, quello corretto, le include. [Sul fatto che l’osservazione scomponente ha effetti radicali sull’essenza dell’oggetto di osservazione, prima di Heisenberg, era chiaro anche ad Aristotele che osservava come per capire come è fatto un animale, bisognava farlo dimagrire e poi soffocare ovvero modificare il suo esser vivo, Hist, an. III 2, 511 b 13 sg.; III 3, 513 a 12 sg.]
[3] La faccenda del limite dell’infinita divisibilità, già oggetto del famoso paradosso di Zenone, tramite questi arrivò a Leucippo ed a Democrito con l’idea dell’a-tomos (privo di taglio, non tagliabile, non divisibile). Esiste una prima via argomentativa che è quella della aristotelica sulle differenze tra infinito in potenza ed infinito in atto. Ma esiste una linea argomentativa più semplice ed attinente. Se prendo due atomi di idrogeno ed uno di ossigeno, ho tre atomi. Se li lascio legare tra loro ho una molecola d’acqua. C’è un limite ontologico alla divisibilità molecolare, un limite oltre il quale lascio un dominio (molecolare) ed entro in un altro (atomico). Dal fatto che nella divisione reiterata, si giunga a limiti che lasciano un campo e ne trovano un altro, abbiamo oggi la concezione che oltre un certo limite del microscopico non c’è più materia divisibile ma energia e l’energia va a pacchetti o quanti. Anche lo spazio potrebbe esser fatto a quanti, il che falsificherebbe definitivamente Zenone. In breve: all’ontologia delle cose e dei concetti non si può applicare l’infinita divisibilità, c’è un limite oltre il quale si perde l’oggetto.
[4] L’intero excursus metaforico che va dalle lettere (varietà) alle regole di composizione in sillabe (interrelazioni), Aristotele l’ha probabilmente tratto da Democrito. Fu lui, pare, il primo a notare una analogia tra le due decine di lettere che possono comporre commedie o tragedie e gli atomi come costituenti primi di tutto ciò che è. Più di due millenni dopo, sarà de Saussure a ripetere considerazioni analogiche tra linguaggio e modelli di realtà, dando la prima estesa trattazione della nozione di sistema. In questi due millenni ed ancora oggi, il pensiero si è schierato in maggioranza verso considerazioni essenzialiste, cioè sulla natura in sé delle parti. Una minoranza, su considerazioni formaliste ovvero su come parti indifferenti si connettano in forme. Il fatto che il segreto della natura sia nell’organizzazione è alla base della contemporanea convinzione che l’elemento che “cuce” il tutto, sia l’informazione e catturando il suo “codice”, potremmo ricostruire le stesse funzioni a prescindere dai supporti, questa è la convinzione alla base delle ricerche sull’Artificial Intelligence e Life. Noi siamo convinti diversamente. C’è una natura specifica delle cose che vanno in interrelazione e questa natura condiziona le possibilità di quelle interrelazioni che altresì sono altrettanto essenziali per formare le cose. Una cellula immersa nell’ambiente cerebrale, non è un chip. La riduzione all’informazione è un eccesso.
[5] Sul concetto di –relazione-, esiste una certa qual confusione in filosofia. Il primo ad aver provocato confusione fu proprio Aristotele, ma tutta la filosofia greca ha nulla o scarsa attenzione per il concetto. In effetti, i greci non avevano nella loro vita, molta evidenza della problematica della relazione. La conoscenza scientifica del mondo era a gli esordi e la preoccupazione prima era semmai trovare i principi, intesi in forma sostanziale e ideale. Le relazioni umane erano definite etnicamente e per genere (con un certo fissismo). Le relazioni sociali erano gerarchiche e della filosofia democratica (Protagora, Anassagora e forse Democratico) ci è pervenuto nulla o poco. Le relazioni tra poleis erano competitive o assenti. La competizione (che è solo -una- delle forme della relazione e non la più interessante) era la base di una mentalità che alle sue più alte vette, esaltò la dialettica come competizione “polemica”. Le relazioni tra greci e resto del mondo erano razziste (barbari), conflittuali (persiani) o di conquista (Italia meridionale). L’attività di commercio avrebbe potuto suggerire il concetto, ma era una attività svalutata nel pensiero. La dialettica poi, era l’arte di tagliare e solo nel Politico platonico si affaccia -occasionalmente -l’arte della tessitura- (cum-plexus). Aristotele avrebbe potuto interessarsene nell’ambito della forma, ma fallisce l’aggancio anche perché della relazione si dà un significato come ente del pensiero, che porta pericolosamente a gli universali, ai rapporti tra enti (tipo genere-specie) più che allo scambio. Il concetto tarda molto a costituirsi, appare nella scolastica che per prima (Tommaso, Duns Scoto, Suraez) distingue la relazione reale, da quella razionale. Ma nella modernità è ricondotto allo stretto ambito razionale, con Locke, Leibniz, Wolff (“la relazione non aggiunge alcuna realtà all’ente”). Kant ne fa la natura stessa dell’intelletto soggettivo. Solo tra i “periferici” troviamo considerazione per la relazione, in Renouvier che ne fa la categoria fondamentale e Hamelin (che fu suo discepolo) che vi ricomprende l’intera dialettica hegeliana intesa non come contraddizione ma come correlazione. La deriva linguistico-logicicista del Novecento e l’acuirsi della separazione tra scienze e filosofia, obliano definitivamente il concetto e lo stringono nelle scienze dei rapporti (matematica, logica). All’analisi del concetto di relazione, dedicheremo più avanti uno studio specifico poiché la faccenda, al solito, è più complicata di quanto questa breve nota non possa mostrare.
[6] I campi di interesse del pensiero aristotelico [fisica – cosmologia – biologia (di cui è fondatore) – psicologia – metafisica – logica (di cui è fondatore) – etica – politica – arte e linguaggio] hanno una estensione, una profondità ed una molteplicità di pensiero (non è cioè una reconductio ad unum come nei casi scolastici o hegeliani) , che mai più verrà eguagliata, ma più che altro, che mai più verrà pensata come cioè che è l’intero della conoscenza che l’Io ha del Mondo, un sistema, una immagine di mondo. Pensare l’intero è il compito che si danno molti filosofi antichi che chiamarono la loro opera “Sulla natura” (sul Tutto). Democrito ad esempio il cui inizio squillante della Piccola cosmologia recita: “In quest’opera tratto di tutte le cose” ed il cui catalogo delle opere riferito dal solito Diogene Laerzio, non è meno vasto e profondo di quello aristotelico. A coloro che sfidano la comprensione analitica ma soprattutto sintetica dell’Intero, la nostra convenzione culturale contemporanea dona un sorriso di commiserazione, che i pochi pervicaci che tentano ancora l’impresa, per la verità ricambiano.