(L’articolo si sviluppa in due parti, questa è la prima.)
In quella rivoluzione epistemologica che fu la nascita e lo sviluppo della fisica quantistica avvenuta nel primo ‘900, s’incontrano due operatori logici applicati a due diversi principi. I due operatori logici sono “o – o” ed “e – e” [l’applicazione degli operatori “e”, “o”, a due termini, che ne determina la congiunzione o disgiunzione]. Per “operatore”, s’intende un dispositivo che dà forma allo sviluppo logico.
L’operatore “o – o” ha la sua più antica versione, tra quelle a noi conosciute, nel Principio di non contraddizione. Esso afferma che di un ente non è possibile predicare l’affermazione e la negazione al contempo, ovvero la sua realtà ed il suo contrario, ovvero apporvi predicati in contraddizione validi in uno stesso istante. Aristotele, almeno inizialmente, lo riteneva un principio ontologico relativo all’essere, libero da ogni predicato e/o attributo. Il principio si limita a vietare l’attribuzione di concetti contrapposti –in uno stesso istante– allo stesso soggetto ma non stabilisce cosa dobbiamo o possiamo ritenere “contrapposto”. La regola disgiuntiva, nella sua forma pura “o – o”, è un puro principio di esclusione di una attribuzione di verità che risulterebbe contradditoria. Senza l’ osservanza di questa regola, non vi sarebbe differenza e quindi non si produrrebbe informazione (ex falso sequitur quodlibet).
Nella fisica quantistica, il principio disgiuntivo ispirò la formulazione di un importante principio applicato alle regole di funzionamento della meccanica dei quanti. Del Principio di indeterminazione di W. Heisenberg (1927), venne proposta una prima versione in una lettera che W. Pauli[1] scrisse allo stesso Heisenberg un anno prima. In essa si diceva: “Posso guardare il mondo con l’occhio -p- e posso guardare il mondo con l’occhio -q-, ma se voglio aprire tutti e due gli occhi allo stesso tempo, divento pazzo”[2]. La nota di Pauli[3] divenne poi il noto Principio di Heisenberg per il quale di una stessa particella non si possono conoscere contemporaneamente posizione e velocità con la stessa precisione.
Il Principio è stato variamente accompagnato dai concetti di “inesattezza”, “incertezza”, “imprecisione”, “sfocatura”, indeterminatezza”. Il Principio di indeterminazione di Heisenberg ha avuto una vasta e longeva notorietà anche al di fuori della fisica quantistica e per diverse ragioni. La prima è che esso ben esemplificava la stranezza generale della logica quantistica, un dominio di fenomeni decisamente “esotici” che sembrano originare da regole sconosciute nel nostro mondo macroscopico. La seconda è che precisava che questo dominio, pur interno alla fisica ed anzi con qualche diretto genetico “più fondamentale” visto che si occupava del mondo primo, quello dell’ immensamente piccolo, non aveva logica in comune con quello macroscopico conosciuto con le leggi di Newton. La terza è che falsificava la presunzione di assoluto del determinismo che aveva portato il marchese di Laplace, sulle orme delle leggi della meccanica newtoniana, a profetare la piena e perfetta conoscibilità del tutto oggi, ieri e domani, in base appunto alla conoscibilità di moto e posizione di ogni sua minima parte. La quarta è che implicitamente falsificava anche il riduzionismo poiché se sezioniamo il mondo per corpi possiamo certo applicare le leggi di Newton, ma se lo sezioniamo a livello di quanti, no e non è quindi possibile desumere l’una realtà dall’altra in base a gli stessi principi.
La quinta era che il mondo ci appare secondo quali categorie usiamo per la sua conoscenza come per altro aveva annunciato Protagora duemilatrecento anni prima (forse anche Eraclito), principio di relatività che annienta l’oggettivismo. In un certo senso anche il postulato kantiano sull’inconoscibilità della cosa in sé e della sua esclusiva conoscibilità “per me” (in base alle sensazioni che la fa percepire in relazione alla costruzione della mia ragione) ricorre alla stessa convinzione, così come poi farà abbondantemente anche l’ermeneutica ed il decostruzionismo sul piano interpretativo ed il costruttivismo su quello proattivo. Questa quinta conseguenza è anche di massima importanza per la -non contraddizione- perché ci ricorda che siamo noi e la nostra forma culturale generale a definire cosa è una contraddizione. La “non contraddizione” da Aristotele in poi, definisce solo che se una contraddizione è tale (ovvero “ci pare tale”), essa non può essere ricomposta ad unità, né ha gradi intermedi di verità (concetto proprio del principio di non contraddizione ma rafforzato poi anche da quello di terzo escluso[4]). Infine, la sesta ed ultima conseguenza, era anch’essa molto importante poiché annullava una persistente dicotomia, almeno sul piano ontologico[5] , quella del dualismo soggetto ed oggetto. Il semplice compiere l’atto di osservazione, modifica ciò che osserviamo e quindi i due termini sono reciprocamente coimplicanti.
La valenza del Principio di Heisenberg è però strettamente relativa al dominio quantistico e non fornisce leggi generali valide ognidove. Anzi fu proprio lo scorporare la meccanica quantistica dal dominio della meccanica newtoniana a sancire che le interpretazioni di questa come verità assoluta erano insostenibili. La fisica quantistica stabilisce un dominio diverso da quello macroscopico e come asserisce che le leggi di questo non valgono in quello, così all’inverso. Del resto anche la relatività di Einstein sebbene in maniera ben meno radicale, definisce un dominio di leggi fisiche non comprese nel corpus newtoniano e così anche la Termodinamica con la sua meccanica statistica, la sua freccia del tempo ed il concetto di irreversibilità. Se però la meccanica quantistica non dice direttamente molte delle cose che le si attribuiscono come valide su piani generali, si può però sostenere che alcune le dica anche se per via indiretta. La sua stessa esistenza relativizza la conoscenza fisica al dominio che si prende in esame ed il fatto ciò avvenga nella regina delle scienze dure (la fisica appunto) e quindi nel cuore delle stesse scienze dure, ha comunque un significato forte. Il determinismo ed il riduzionismo sono al massimo utili forme operative di indagine e possibili utili descrizioni in certi ambiti ed a certe condizioni ma non sono un senso unico. Sopratutto essi hanno preciso costo cognitivo che scambia semplificazione con precisione. Almeno anche a questo livello dell’osservazione del mondo fisico (il microscopico estremo) si ripetono concetti già noti in filosofia e gnoseologia (in ingl. epistemology) creando un dialogo tra domini della conoscenza ritenuti, a torto, incommensurabili. Si fornisce una importante nuova versione di epistemologia che risulterà molto influente anche in altre discipline, almeno come possibilità. Inoltre se mettiamo accanto il dominio dei quanti con quello dei corpi, dobbiamo registrare la conferma del principio di complessità che afferma che il totale è più della somma delle parti e comportamenti di tipo B possono emergere da un sottostante dove invece vigono regole di tipo A.
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L’alternativa al principio di esclusione ovvero all’operatore “o – o” è il principio di inclusione ovvero l’operatore “e – e”. L’ipotetico relazione tra inclusione ed esclusione è essa stessa oggetto del Principio di non contraddizione se ci riferiamo all’ontologia ma non lo è se ci riferiamo alla logica. Tale principio si potrebbe definire un solvente delle contraddizioni ovvero il non accettare come definitivo ed insolubile il carattere contradditorio di talune coppie di concetti quali: natura – cultura, razionale – emotivo, cervello – mente, corpo – mente, materiale – ideale (e reale – ideale), determinato – indeterminato, olistico – riduttivo, generale – particolare, scienza – filosofia, libertà – uguaglianza, individuo – società, logos – mythos e quella molto celebre di tesi – antitesi che ripropone stilizzata la stessa struttura della dicotomia in quanto tale etc. A rigore, se quello di esclusione è un principio ontologico e logico, quello di inclusione è solo logico.
Le strategie per risolvere le impostazioni contradditorie (o ritenute tali) sono di vario tipo. Una, già accennata in nota, è quella di ridurre la dualità al piano descrittivo, eliminandola dal piano ontologico. Una seconda è quella di ridurle ad un termine medio dal quale originerebbero per estremizzazione bipolare. La terza è quella di mettere uno dei due termini (o entrambi) in sospetto di autogenerazione. Un esempio di cos’è un concetto autogenerato è l’infinito (come il “nulla” o “assoluto”). L’infinito esiste ad esempio nel processo di causazione e nella numerazione matematica. In quest’ultima non vi è legge che vieti di aumentare o diminuire di +1 o -1 la precedente cifra e quindi il processo non avendo termine (fine) è in-finito. Così con l’applicazione della domanda “da cosa proviene questa cosa?” che porta al regresso ad infinitum della ricostruzione causale. Entrambi i casi sono applicazioni riflessive del concetto a se stesso (l’infinito dei numeri è il numero dei numeri, l’infinito causativo è la causa di ogni possibile causa). Come già noto (dal paradosso di Epimenide cretese o del mentitore a quello di Russell , alle antinomie kantiane) laddove si intervenga a predicare “tutto”, “totalità” o “mondo” (che è un tipo di tutto nel senso di totalità assoluta), la riflessività comporta paradosso. Più in generale però, lo definiamo autogenerato perché è proprio della nostra mente poter pensare il contrario di qualsiasi cosa. Molte volte questo contrario esiste (o meglio esiste qualcosa che possa interpretare il ruolo di contrario), ma molte volte ci si propone solo perché lo possiamo pensare ma non è detto che tutto ciò che possiamo pensare, esista[6] (per altro anche molto di ciò che esiste non possiamo pensarlo altrimenti non scopriremmo mai niente di nuovo, qui vale il “ci sono più cose in cielo ed in terra, Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia“). L’infinito è un concetto inverificabile/infalsificabile nella realtà e c’è il sospetto esso esista solo nella pensabilità ovvero in una Ragion Pura non limitata (come è in quella applicazione riflessiva delle categorie che produce antinomie indecidibili secondo Kant), in questo senso lo diciamo -autogenerato-. Ne segue che il razionale –non- è sempre reale e quindi il “logico” ha raggio più ampio dell’ontologico e tra i due non vi è perfetta corrispondenza. La quarta è quella di invalidare entrambi i termini della dicotomia affermando che essi ipostatizzano componenti di un diverso sottostante (più ampio di quanto non copra l’estensione sommata dei due termini e quindi diverso dal secondo caso) o soprastante. Il logos di Eraclito, il Dio della coincidentia oppositorum di Cusano, la sintesi nella dialettica hegelo-marxista e le logiche infinitiste operano questa relativizzazione.
La quinta è quella che opera nella logica fuzzy, ovvero istruire gradi intermedi di verità ( una sorta di lungo termine medio composto dai vari gradi di composizione percentuale di compresenza dei due termini ritenuti opposti). Tutte queste strategie (tranne forse la terza) portano alla complementarietà ovvero il rifiuto del principio di esclusione. La dicotomia sarebbe null’altro che una doppiamente parziale descrizione di una unità, una parziale descrizione che appare contradditoria ma non lo è definitivamente ed in senso assoluto.
Anche l’operatore “e – e” ha dato vita nella meccanica quantistica ad un principio, il Principio di complementarietà di Niels Bohr e come quello di indeterminazione anch’esso è del 1927. Questo principio usa l’operatore “e – e” per dire che nella meccanica quantistica, le osservazioni mostrano a seconda delle condizioni di osservazione, “o” l’aspetto particellare, “o” l’aspetto ondulatorio di ciò che si osserva. Entrambe queste manifestazioni sono realtà del rapporto tra l’osservatore e l’osservato, la disgiunzione dicotomica è ricomposta in una unità molteplice, variabile al variare delle condizioni della relazione. Esse sono due descrizioni complementarie del comportamento di una stessa cosa (che implicitamente si dichiara di non conoscere come nella kantiana “cosa in sé”) che diversamente si manifesta se messa in contesti diversi. Questo principio ricorre alla sesta strategia tra quelle illustrate precedentemente. Erroneamente, questo principio è stato interpretato come una sfida al principio di non contraddizione. L’errore deriva dal sottovalutare il fatto che il divieto di doppia determinazione contradditoria del principio si applica “allo stesso istante” mentre la possibile doppia osservazione (particella – onda) è condotta in istanti diversi.
N. Bohr più che un fisico era un filosofo secondo Heisenberg ma del resto, da Boltzman a Plank, dallo stesso Heisenberg a Bohr, da Schrodinger ad Einstein, tutti i grandi fisici di quel periodo, scrissero sulla loro visione del mondo. Reclamavano lo statuto di scienziati e non certo di metafisici, ma erano consapevoli che la loro ricerca sul mondo produceva una visione e dopo i due principi Heisenberg – Bohr, anche che la loro visione produceva il modo di essere di quel mondo su cui ricercavano. Celebre sarà l’incursione operata da Schrodinger nella biologia, con un ciclo di conferenze tenute nel 1943 nel suo auto-esilio dublinese (Schrodinger scappò dalla Germania nel ’33 sebbene non fosse ebreo). Quelle conferenze presero poi forma in un delizioso libricino[7] nel quale l’autore della funzione d’onda che poi è la formulazione più usata dell’equazione base della meccanica quantistica, anticipa la logica delle ben successiva scoperta del DNA (1960). Anche Bohr fece delle incursioni nel mondo della vita ed in una di queste, volendo spiegare la struttura del suo Principio di complementarietà, applicò la dicotomia disgiuntiva al fatto che se s’intende il corpo come un sistema di molecole in interrelazione lo si può ben smontare in queste componenti costitutive per vedere cosa sono e come funzionano però questa osservazione sradica l’osservato dal suo contesto e si perde così il senso dello scopo dell’esistenza di molecole ed organi, che è poi produrre la vita[8]. Altresì se si vuole osservare la vita nella sua totalità organica, non si giungerà mai a contatto con le molecole che rimarranno inconosciute e con esse il funzionamento del corpo che vive. Ne consegue che il corpo vivente non può esser compreso se non nella collezione dei due “o – o”, quindi secondo la logica complementare dell’ “e – e”. Più tardi ed in altro convegno, usò lo stesso schema della complementarietà per la dicotomia ragione – emozione. La complementarietà stava nel ritenere necessarie entrambe le osservazioni, quelle di livello micro e quelle di livello macro, il sistema e le sue parti, l’Uno ed il Tutto. Se la cosa in sé ci sfugge e sempre ci sfuggirà, si collezionino quante più osservazioni da diversi punti di vista e con diversi tagli per almeno intuirne la struttura ed il significato. Sicuramente quello che non bisogna fare è usarne uno solo e da questo parziale presumere di poter arrivare al totale.
[1. Segue]
[1] W. Pauli usò una volta l’espressione “neanche sbagliato” per commentare l’immaturo lavoro di un suo allievo. L’espressione divenne celebre come segno del carattere totalmente inconsistente di una teoria. Oggi è anche il titolo di un bel libricino sulla Teoria delle stringhe: P. Woit, Neanche sbagliata, Torino, Codice edizioni, 2007
[2] Citato come nota 6 a pg. 150 di: D. Lindley, Incertezza, Eiunaudi, Torino, 2008
[3] Lo stesso Pauli poi produsse sempre nell’ambito della meccanica quantistica un altro principio ispirato dall’operatore logico dell’esclusione, il Principio di esclusione appunto. Esso si applica ai soli fermioni (es: protoni, neutroni ed elettroni).
[4] La logica fuzzy invece si basa proprio su i gradi intermedi di verità.
[5] Esiste una altra forma della relazione soggetto – oggetto che è quella del dualismo descrittivo. Il dualismo descrittivo non dice che le cose sono duali, le presenta e le tratta come due per ragioni di descrizione. Un dualista descrittivo può ben essere un monista ontologico.
[6] Esempi tipici si possono trovare nella Dialettica trascendentale, che è proprio produzione di dicotomie della ragion pura, nella prima critica kantiana. Sempre Kant definiva un altro dei concetti auto-generati, il Nulla, come “concetto vuoto senza oggetto”.
[7] E. Schrodinger, che cos’è la vita? Milano, Adelphi,
[8] Non vorrei sbagliare ma questo argomento venne in origine usato da G. B. Vico nella sua critica al riduzionismo cartesiano.