Nel domandarsi “Qu’est-ce qu’une Nation?”, l’abate Sieyès rispondeva: una nazione è –un corpo di associati che vivono sotto una legge comune e che è rappresentato da uno stesso corpo legislativo-. E’ questa una definizione che potremmo definire funzional-giuridica ma è anche la definizione che porta a sovrapporre, fino a farli coincidere, i concetti di nazione, popolo e quello di stato. Nella definizione di Seyès, lo stesso corpo legislativo altro non è che una Costituzione, un contratto fondante una collettività che in esso si riconosce. La collettività che in esso si riconosce è un popolo e questo popolo è la nazione. E’ più o meno questa la via lungo la quale s’incammina anche Jürgen Habermas secondo il quale esiste un popolo o più popoli ed esiste il loro convenire su un libero contratto sociale, una Costituzione. Seguendo questa via potremmo usare il rasoio di Ockam, ovvero non moltiplicare senza necessità gli enti e concentrarci sullo stato da una parte ed il suo popolo (magari fatto di diversi sottosistemi, quali genere, anagrafe, classi sociali, ma anche etnie) dall’altra e cominciare a liberarci del concetto di nazione. Il concetto di nazione come poi vedremo, discende da quelli di di gens, genos, stirpi, ethnos, natio, una lontana storia che prima ancora prevedeva le tribù ed i clan ed in definitiva, la discendenza di sangue. Questo appartenere ad una discendenza, al progredire del tempo e della consistenza demografica, tende ad allontanarsi da una ipotetica prima essenza originaria per divenire un significato socialmente costruito, quindi del tutto relativo.
La questione della nazione è molto più controversa di quanto non appaia seguendo l’asciutta definizione dell’abate Seyès. Poiché la nazione sottintende il concetto di popolo è questo che dovremmo precisare. Cos’è un popolo? Si potrebbe dire che un popolo è un aggregato umano ordinato da uno o più principi, quindi un sistema di individui che ritengono di avere qualcosa in comune, la cui definizione ne precisa la differenza rispetto a ciò che non vi è incluso (si potrebbe dire: la cui definizione è discriminante). Per definire questo o questi principi ordinanti sono stati presi, nel tempo, diversi elementi.
1) POPOLO e TERRA.
Il più antico è senz’altro quello di luogo, di terra. Un popolo è l’insieme di coloro che vivono nel territorio x. Probabilmente all’origine, questa definizione era data dagli altri, da coloro che vivevano in y e così nominavano coloro che stavano in una altra, ben precisa parte, della geografia locale. Quelli della collina, quelli del fiume, quelli del bosco, quelli della montagna, quelli dell’isola. La geografia è un sistema di concetti che al contempo chiude, nel senso che precisa e discrimina, ma che non chiude mai in assoluto. La visione geografica del mondo al tempo delle tribù nomadi non era quella del tempo delle tribù stanziali e quella del tempo dei satelliti non è quella del tempo delle tribù. Se prendiamo il punto di vista satellitare, tendiamo a continentalizzare i popoli, se prendiamo il punto di vista tribale stanziale avremo uno scenario molto più piccolo suddiviso per fatti geografici anche molto minuti (oltre alle caratteristiche territoriali, si useranno anche i quattro punti cardinali che sono relativi al punto in cui si definisce il centro ). In generale si può dire che al crescere demografico corrispondono diverse (e sempre più larghe) definizioni di popolo. Il criterio geografico è quindi un criterio del tutto relativo ed è poi quello che più di altri impone l’elasticità del concetto di popolo (razza-etnia). Non a caso è proprio questo mancanza di terra ad aver solidificato e reso anelastico il concetto di popolo (etnia-razza) per gli ebrei. Le identità popolo-terra sono quindi relative al tempo della storia ed alla consistenza demografica del popolo che s’identifica con quella porzione di terra.
2) POPOLO ed ETHNOS.
Connesso all’elemento geografico di popolo che abita una terra, c’è il concetto di etnia e quello assai controverso di razza. Del concetto di “razza” si può tentare una definizione provvisoria di questo tipo: tutti coloro che morfogeneticamente si assomigliano poiché condividono una certa omogeneità genetica distintiva. La prima parte della definizione è formale, ad esempio quelli con la pelle di un certo colore o con tratti fenotipici di un certo tipo, relativamente comuni (colore o taglio degli occhi, altezza, colore capelli etc.). Questa definizione è vaga ma ha la forza di corrispondere in genere ad una sua geografica. Coloro che vivevano in un certo territorio, ad esempio una penisola o una isola di certe dimensioni o una pianura cinta da montagne difficili da attraversare o una più vasta area ma dal clima non invitante (non si sono mai visti ad esempio meridionali invadere settentrionali se non per migrazioni moderne in cerca di lavoro) hanno avuto nel tempo, maggiori interrelazioni tra loro di quanto non abbiano avuto con quelli intorno alla loro culla geografica. Questo li ha portati a condividere un certo patrimonio genotipico che si manifesta in una certa omogeneità fenotipica. Questi tratti fenotipici comuni , espressione di un sottostante corredo genetico, hanno un qualche significato adattativo locale e sono in genere tra le forme geniche più recenti tra tutte quelle che ci compongono. Ma nella seconda parte, la dove la definizione genetica ambisce ad essere non formale ma sostanziale, troviamo due problemi che ci sono noti oggi e non ci erano noti quando nel XIX° secolo, dall’incrocio tra certa cultura romantica e certa cultura positivista, con abbondante spargimento di antropologia fisica elementare, nascente linguistica, frenologia, craniometria, poste al servizio di un uso disinvolto della storia ed all’urgenza di definirsi in rapporto ad un mondo che stava accelerando improvvisamente le sue dinamiche (ed la cui alcune nazioni europee reagirono inventando fatti fondazionali inesistenti), nacque il controverso concetto di razza. Il primo problema è che anche ammettendo l’esistenza di un certo patrimonio genetico comune da questo non è possibile estrarre un comune modo di essere. Il comportamento culturale non risponde al dettato genetico in forma riducibile. Il secondo problema che oscura anche il primo è che, stante il fatto che il perdurare di certe caratteristiche morfogenetiche esteticamente evidenti (colore degli occhi, dei capelli, forma del cranio) non dice del perdurare di un intero stesso completo corredo genetico (tutti i popoli dell’estremo nord del mondo hanno gli occhi piccoli ma tra cinesi, siberiani, eschimesi ed islandesi non vi è alcuna comunanza culturale o comportamentale), è proprio il completo corredo genetico a risultare un cocktail indistinguibile se non per sintesi molto ma molto generiche. E’ stata la genetica delle popolazioni promossa da L. Cavalli Sforza a dimostrare che nel generale, siamo tutti imparentati con tutti. Secondo lo stesso Cavalli Sforza, in realtà l’unica vera leggera distinzione possibile è tra il popolo del continente africano e tutti gli altri. Le vie dell’eredità genotipica sono assai tortuose, almeno quanto le vie che nelle decine e centinaia di migliaia di anni hanno percorso i nostri nomadi avi. Ma non sembrano avere alcuna significanza per definire un “popolo”, poiché i geni come la terra, non discriminano.
Il concetto di etnia parte già più vago e con meno pretese sostanziali e fa coincidere prima la culla geografica con la genealogia (che poi sarebbe il meccanismo esteriore che perpetua la trasmissione di un certo corredo genetico) e su questo blocco aggiunge strati culturali fatti di lingua, religione, modi di vivere ed intendere la vita, il tutto sedimentato nel tempo tanto da divenire “tradizione”. Dovremmo quindi andare a testare la consistenza di questi singoli item per confermare la possibilità di esistenza del concetto ma dobbiamo subito dire almeno un paio di cose. La prima è che se usiamo il concetto di discendenza dobbiamo limitarci ad osservare tribù o clan. Già l’unione di clan quale si cominciò a realizzare con le prime società complesse annulla la mono-discendenza di “sangue”. La seconda è che, la consistenza della supposta “tradizione” appare molto spesso retro-determinata. Si tratta de “L’invenzione della tradizione” così ben indagata nel libro curato da E. J. Hobsbawm, tipici casi di costruzione sociale dell’identità (si veda anche “Comunità immaginate” di Benedict Anderson) rafforzato dal richiamo ad una continuità passata che o è inventata di sana pianta (ed è istruttivo leggere con quale malleabilità logica ci si convinse nella Guerra Civile inglese di essere i fisici eredi del popolo eletto di Palestina o in Francia di provenire dalla diaspora troiana o noachide, fatto quest’ultimo a cui si appellarono anche i germani) o è resa modello manipolando storie ben più complesse ed imperfette nel significato. Quando addirittura non è un “orientalismo” o un cosiddetto “effetto pizza”, cioè un feedback loop ermeneutico. C’è poi da dire che l’entità storico-politica più antica del pianeta, la Cina, nasce e rimane nel tempo del tutto multietnica; così come la più antica d’Europa, la Svizzera, è multilinguistica (e multireligiosa). Stessa condizione condividono gli stati basati su ampi territori quali gli USA, l’India, il Canada, la Russia, il Brasile e la gran parte dei paesi africani. Il mondo musulmano non conosce la partizione etnica. Ma su questa via s’incammina anche l’Europa dove la Francia ed in parte la Germania, Londra e più indietro l’Italia sono , ma sempre più saranno, società miste. Se la razza è risultato quindi un concetto inesistente, l’etnia ha da verificare la propria consistenza che però non sembra poter uscire dal registro della -relatività a determinate condizioni-. Vediamo quali.
3) POPOLO e LINGUA.
Prendiamo in esame la lingua. Tra lingue e geni i rapporti sono assai stretti per il semplice fatto che entrambe possono essere ritenute sottocategorie del principio geo-storico-culturale. Ovvero, la stratificazione storica delle stanzialità, delle mobilità e delle interrelazioni corrisponde ad una possibile stratificazione culturale-linguistica che riflette tassi di minore o maggiore omogeneità genetica. Il tutto è non vincolato ma spesso limitato a grandi linee, dalla morfologia geografica. Anche un caso apparentemente semplice come la Gran Bretagna, ossia della lingua inglese, semplice perché è una isola e non un continuum come il sub-continente, ha visto l’affermarsi di un primo strato celto-gaelico su cui si è sovrapposto uno strato abbondante di latino, su cui si è sovrapposto uno strato multiforme di dialetti angli, sassoni, juti e vichinghi, di danese ed infine di francese. Questa è la lingua inglese. I ceppi linguistici europei prevalenti sono quello delle lingue romanze (neo-latine come il portoghese, lo spagnolo, il francese, l’italiano ed il rumeno), quello delle lingue germaniche (tedesco, olandese, danese, norvegese, svedese ed in parte l’inglese) e quello delle lingue slave. Vi è poi una frangia non indo-europea rappresentata dalla radice ugro-finnica che unisce inaspettatamente due popoli oggi non limitrofi come gli ungheresi e i finlandesi, mentre il greco, le lingue baltiche e l’albanese che invece sono indoeuropee non sono assimilabili ai tre ceppi principali. La faccenda linguistica è tremendamente complicata e anch’essa molto relativa. Ad esempio per il problema del rapporto tra lingua e dialetto. Gli italiani pre unificazione ad esempio non si può dire che avessero una lingua comune (l’italiano odierno basato sul fiorentino del ‘300, secondo Tullio de Mauro, era parlato da solo il 2,5% della popolazione peninsulare nel 1861) ma un substrato profondo di dialetti derivati da una lingua-strato precedente (l’indoeuropeo). Chi scrive ha l’età per ricordare la trasmissione televisiva “Non è mail troppo tardi” (1959-1968) in cui il mitico maestro Alberto Manzi fece non poco per la diffusione omogenea della nostra lingua, quasi novant’anni dopo che si era formata l’unità politica formale. Il rapporto dialetto-lingua non è poi così diverso da quello lingua-ceppo linguistico nel senso che coì come si sintetizzarono le attuali lingue europee dai dialetti, si potrà ben sintetizzare una meta-lingua interna ad un certo ceppo partendo dalla lingue attuali. La lingua unica non è un pre-requisito vincolante, in Cina si contano più di 50 etnie per più di venti lingue; In India più di 1600 dialetti discendono da più di venti lingue ufficialmente ammesse a derivazione di quattro principali e distinti (cioè non reciprocamente intellegibili) ceppi linguistici. L’unità linguistica spesso non è un punto di partenza nella formazione dei popoli, ma un punto d’arrivo, la lingua centrale poi non è detto sia quella locale. Infine le lingue, nel tempo, cambiano. Geografia, genetica, etnia, lingua, sembra che si trovino solo elastici elementi relativi per definire il popolo di una nazione.
4) POPOLO e RELIGIONE.
In Europa, l’aspetto religioso ha a lungo incendiato le relazioni e le auto-definizioni dei popoli a partire dal XVI° secolo. Oggi in Europa siamo ortodossi, cattolici, variamente protestanti, quindi genericamente “cristiani”, qualcuno autoctono si è convertito all’islam, altri vi appartengono in quanto migranti, ci sono pure buddhisti, parecchi atei (che hanno fatto o meno outing) ma in linea generale, la religione ha perso il suo fattore discriminante ed identitario, o meglio… . Quello che agisce ancora (ed è perfettamente normale che agisca) è il principio di differenza. Cattolico o protestante era un elemento forte di differenza nel XVI° secolo. Poi ognuna delle due interpretazioni si è assestata in un determinato territorio, ha stabilizzato il suo potere di condizionamento su certi popoli, ha trovato utile convivere con l’altro ed entrambi si sono poi trovati assai relativizzati in un generale movimento di secolarizzazione, se non di agnosticismo (o addirittura di ateismo non cosciente) che ha reso l’Europa, una delle terre meno distintamente religiose del pianeta. Il principio di differenza invece ritorna quando il confronto si ripropone tra sistemi non commensurabili come tra cristiani e musulmani ma sempre e solo dove si creano certe ben precise condizioni di frizione. Quindi anche questo non è un assoluto, è un relativo alla attuale fase storica. Quando fra cinquanta anni il numero di arabi ed africani migrati in Europa sarà molto più consistente, chissà forse assisteremo ad una alleanza dei credenti (siano essi cristiani o musulmani) contro i non credenti. Musulmani, ebrei, copti, ortodossi, cattolici, protestanti a volte hanno convissuto senza problemi, altre volte no. Altrettanto le decine religioni indiane e così in Cina. Il confine della differenza è mobile e quindi anch’esso variamente interpretabile, ma soprattutto la differenza religiosa genera frizioni al variare delle condizioni storico-culturali e non in sé per sé.
All’aspetto religioso ed a quello linguistico corrispondono anche gli aspetti storici, culturali, di tradizione ovvero le possibili definizioni di popolo come gruppo umano omogeneo che ha avuto in comune una certa storia, che ha certe tradizioni, che ha un certo modo di vivere e di interpretare il mondo. La tradizione è una estensione temporale lungo la quale vige la persistenza di taluni usi, costumi e credenze comuni Questi parametri hanno vigenza frattale ossia possono porzionare i popoli arrivando a distinzioni quali quelle tra romani e napoletani, tra i padani e i siciliani, tra scozzesi ed inglesi, tra francesi e tedeschi, tra latini ed ex barbari, tra settentrionali di ogni ordine e grado e meridionali, tra occidentali ed orientali e via di questo passo. Ricordo che un giorno in un aeroporto americano ho fraternizzato calorosamente con un francese (francesi con i quali i rapporti in genere non sono mai immediatamente fraterni), condividendo giudizi divertiti su quanto fossero “strani” gli americani. Quel giorno mi sono sentito orgogliosamente europeo e credo pure il mio occasionale amico francese.
5) POPOLO COME IDENTITA’ nella RELAZIONE.
Forse per sentirsi un popolo, occorre trovarsi davanti ad un “altro” popolo che fa scattare il principio di differenza e questo fa scattare quello di identità. Per avere un “noi” ci vogliono “loro”. E’ questo il più relativo dei principi relativi fin qui presi in esame ma è probabilmente quello che li governa tutti. Popoli, nazioni e stati, nella dinamica storica, sono sempre il frutto di una relazione, di un confronto con un “altro” popolo, una “altra” nazione, un “altro stato”. Si definiscono cioè per opposizione, assumono l’identità attraverso l’ipostatizzazione di una o più comuni peculiarità (effettive, inventate, provvisorie o da costruire col tempo) differenzianti. Questo processo di formazione dell’identità tende invariabilmente ad esagerare le differenze come fu nel caso degli antichi greci vs barbari. Ci vollero i barbari perché si sentissero “un popolo” le più di mille poleis greche. La filosofia pre-socratica ad esempio, si basa spesso su una rielaborazione di temi medio-orientali/orientali che sono più antichi e quindi nell’archeologia dei concetti sono genetico-generativi della successiva speculazione greca. Questa ipostatizzazione, che sia a base geografica, etnica, linguistica, religiosa, storico-culturale è sempre relativa, relativa a condizioni storiche ovvero al fluire del tempo che cambia la consistenza demografica, le relazioni con i vicini (lo stesso concetto di “vicino”), il concetto di massa critica di coloro che trovano utile unirsi piallando le differenze interne per esaltare la differenza esterna, utile in quel momento a costituirsi come Uno vs Altri.
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In conclusione possiamo dire che “popolo=nazione” è un soggetto assai problematico da definire se non in senso relativo. Le forze formanti i popoli, ovvero la geografia, l’etnia, la lingua, la storia, la cultura e la religione vengono mosse e tra loro diversamente interrelate a definire il loro sempre momentaneo concetto di popolo in funzione del rapporto tra una o più variabili interne ed una esterna. Variabili interne, condizionate da un motore poco considerato in genere, quello demografico. Nel tempo, diventano “romani” prima gli abitanti di un piccolo paesino, poi tutti gli abitanti di uno dei più vasti imperi della storia. Celti e Franchi si uniscono (usando per altro una terza lingua, il latino) per fare il primo grande stato-nazione europeo: la Francia. Celti si mischiano ad anglo-sassoni, vichinghi ed a molti altri per fare gli inglesi, mentre i britannici (irlandesi del Nord, gallesi, inglesi, scozzesi) rimangono uno stato (del tipo “regno”) più che una nazione. I mille popoli d’Italia si unificano ed impiegano decenni prima di intendersi reciprocamente, cosa che qualcuno pensa non sia ancora pienamente avvenuta. I popoli sono in genere un composto culturale più o meno amalgamato dentro un crogiolo che è poi ciò che da effettivamente vita alla loro possibilità di formarsi. Si formano per un po’ e poi si amalgamano (più o meno facilmente o a fatica) con altri con i quali ritenevano impossibile amalgamarsi poiché spinti in un nuovo crogiolo come accadde ad inglesi e scozzesi nella Gran Bretagna e questi con gli irlandesi nel Regno Unito. Fino ad oggi questa spinta in un nuovo crogiolo è stata data o da una più o meno violenta invasione degli uni su gli altri o per sintesi politica stabilita da una élite che ha deciso utile o necessario, riferirsi ad un dato, preciso, territorio (il “crogiolo”). Ciò che sembra muovere la formazione di nuovi crogioli è il rapporto tra, da una parte la relazione territorio/risorse-popolazione e dall’altra la configurazione dell’ambiente circostante ovvero altre formazioni territorio/risorse-popolazione che possono minacciare o impedire lo sviluppo e l’ampliamento della configurazione di base. E’ questa che chiamiamo variabile esterna. I popoli si formano per difesa/offesa rispetto ad altri popoli. Su questo strato di ragioni materiali che costruiscono il popolo, si sovrappone l’identità ideale, dalla formazione delle società complesse già 8000 af questo è un costrutto socialmente costruito ed è quindi variabile al variare del tipo di nuova nazione che si vuole-deve costruire. Tutti gli elementi che contribuiscono alla giustificazione di questo nation building sono assai elastici, quindi relativi. Ciò non toglie che questo ente elastico e relativo che è “il popolo” risponda non solo al volerlo o doverlo costruire ma anche al poterlo costruire, cioè a determinate (per quanto anch’esse variabili) condizioni di possibilità. Se non esiste una “essenza irriducibile di popolo”, non tutti gli ipotetici nuovi popoli si possono immediatamente costruire al solo volerlo. Al variare delle condizioni per le quali si è potuto sintetizzare un popolo unendo precedenti definizioni di popoli particolari, quel popolo può dissolversi o ri-sintetizzarsi in nuove forme. Un popolo, a differenza dei diamanti, non è mai “per sempre”, rimane un concetto aperto, malleabile, relativo, ma risponde comunque a determinate condizioni di possibilità.
Per quanto attiene al ragionamento che siamo andati sin qui facendo, i popoli europei, sono formazioni stabilizzatesi tra il XVIII° ed il XIX° secolo in ragione degli equilibri stato-nazionali del sub-continente del tempo. Italia e Germania, gli ultimi a raggiungere la forma stato-nazionale (e forse per questo tra i più esagitati ad esaltarla in forma di “nazionalismo”, nella prima parte del ‘900) risposero allo standard imposto da Francia e Gran Bretagna. Uno standard fatto di economia industriale – popolazione di una certa dimensione (per produzione e consumo) – democrazia rappresentativa e finalizzato alla specifica competizione intra-europea, come poi si rivelò, prima economica e poi armata. Oggi questi equilibri sono reclamati non più da questioni interne all’Europa, ma esterne. Queste questioni esterne sono prioritariamente la collaborazione/concorrenza con altri popoli nella gestione e convivenza del comune mondo, popoli che non si identificano con una nazione “etnica”, ma con uno stato. Stati composti a volte da tanti popoli-etnie, che proprio attraverso questa varietà raggiungono importanti dimensioni che li favoriscono in entrambe le attività e che, al gioco-mondo, impongono una sorta di standard dimensionale.
Per questo motivo, il concetto di nazione è ingombrante, perché tende a ipostatizzare una essenza che a) non c’è se non nei deliri di certo pensiero conservatore tipicamente europeo; b) non favorisce la relazione; c) ipostatizza una forma (visto che l’essenza manca) che ha più o meno due secoli (quelli recenti), in un luogo specifico (l’Europa), quindi molto limitata e quindi molto relativa, nello spazio e nel tempo. Se eliminiamo il concetto di nazione, gli orfani della parte romantico-sentimentale della faccenda (la “Patria”), potrebbero sempre diventare degli habermasiani “patrioti della Costituzione”, difensori del contratto sociale che è poi ciò che realmente è ciò che ci fa stare assieme. Gli antenati, i morti per la storia, la famiglia culturale di lunga durata da cui ognuno di noi proviene possono ben rimanere patrimonio dell’identità personale e di gruppi-culture che non si fanno stato se non assieme ad altri. Invece, per definire l’identità collettiva che coincida con una forma di stato adeguata ai tempi si consiglia, prima di deciderla, di dare una occhiata in giro per capire in che mondo siamo capitati.
Decidere chi è “noi” e chi sono gli “altri” nel mondo nuovo in cui dovremo vivere, non partendo da “noi” ma da “altri” e soprattutto da “mondo”. Da ciò che viene e non da ciò che è stato.
[Terza parte – continua]