L’Europa oggi è alle prese con uno di quei tornanti storici che ne modificheranno la forma e la sostanza. Lo stato-nazione europeo è un concetto in crisi.
La nostra tesi è che la sua crisi derivi da un sistema economico internazionale dominato da stati forti. Stati forti sono quelli che hanno un certo peso nello scenario mondiale, peso militare, demografico, diplomatico-strategico, finanziario, produttivo, quindi economico, quindi politico. Gli stati nazione europei vivono di quella stessa economia di cui sono stati lungamente tra i primi attori fino ad almeno 20/25 anni fa, ma in questi 20/25 anni molto è cambiato. Continuare a fare quel gioco economico in questo nuovo quadro, senza avere competitività rispetto ai paesi emergenti, una banco-finanza almeno pari a quella anglo-sassone, aree prospicenti di sviluppo, una demografia in calo, senza peso politico internazionale, con sempre meno specialità produttive distinguenti, senza avere risorse indigene, continuando a farsi concorrenza gli uni con gli altri, significa condannare ogni singolo sistema economico nazionale europeo (a partire dai più deboli) all’irrilevanza ed alla dipendenza. La dipendenza significa perdita di autonomia e perdita di autonomia significa l’annullamento della sovranità. Perdendo sovranità si perde autonomia e perdendo autonomia si perde la libertà.
Vi sono tre irriducibili convinzioni abbastanza generalizzate che dobbiamo analizzare per verificare se il problema posto è posto correttamente, ovvero se il problema è critico per lo specifico dello stato-nazione europeo e se questo dipende in primis da una concorrenza tra stati o se questo stato nazione europeo vive una crisi più generale ed universale che dipende da altri fattori. Le tre convinzioni (che si rimandano reciprocamente) sono: 1) è il concetto di stato ad essere in crisi; 2) soprattutto per via della globalizzazione; 3) poiché questa è il dominio del mercato sullo stato, dell’economico sul politico, del finale dominio totalitario del capitalismo sulla democrazia. Vediamo di chiarirci meglio questi tre assunti generali.
- LO STATO del CONCETTO DI STATO.
A nostro avviso la crisi non è del concetto di “stato”, non esiste alcuna crisi del concetto di stato. Ipotizzare comunità umane regolate da qualcosa che non ne definisca i limiti e faccia coincidere questi limiti con un territorio è del tutto inconsistente, senza senso, senza storia o contatto con la realtà. Molti hanno distrattamente acquisito certa narrazione stereotipata sul mito della globalizzazione, senza attivare il giudizio distinguente. Sono la Cina, l’India, gli USA, l’UK, la Russia, il Brasile stati in via di dissolvimento? Lo sono quelli del Sud America o dell’Asia nel loro complesso? Lo è Israele o il Sud Africa o la gran parte degli stati islamici o quelli dell’Oceania o il Giappone? Non sembra proprio. Solo negli ultimi sessanta anni, gli stati del mondo sono passati da circa 50 a circa 200 e continuano a crescere. A ben vedere, gli unici stati in vera crisi ontologica sembrano gli stati europei e guarda caso sono poi quelli connotati da due fattori incrociati. Da una parte sono quelli più strettamente definiti intorno al concetto di “nazione”. Cina, India, USA, Russia, Canada, Messico e Brasile sono federazioni di più popoli (anche la Germania, la Svizzera, l’Australia, Nigeria, Etiopia ed il Venezuela sono stati federali) come è normale che sia, e qui interviene il secondo fattore, quando il territorio di vigenza dell’unità di uno stato supera una certa dimensione e giocoforza ci si trova con una pluralità di popoli e dalla nazione si deve passare alla federazione. Spesso gli odierni stati forti, coincidono con uno stato di medio-grande territorio, e relativa demografia. Questo comporta in genere (non certo in via automatica, ma potenziale) più risorse interne, più consumatori interni, un volume maggiore dell’economia ed una maggiore possibilità di diversificazione, una pluralità maggiore e maggior potenza in generale, ma anche più resistenza e resilienza. Gli stati forti, stati in grado di convivere in uno scenario di competizione/collaborazione di dimensione planetaria, non sembrano affatto in crisi ontologica. La narrazione della globalizzazione è una favola che alcuni stati forti (forti militarmente, politicamente, economicamente ma soprattutto finanziariamente come gli USA e l’UK) hanno distribuito come legge del mondo nuovo, solo per rendere più deboli stati già deboli, come gli stati-nazione europei. Sono infatti in crisi gli stati che non sono in grado di mostrare alcuna capacità di collaborare/competere nel nuovo scenario mondiale, stati che diventano prede dell’espansione egemonica degli stati predatori. Cominciamo col dire che la crisi dello “stato” quindi è una crisi che gli stati forti impongono a gli stati deboli, per favorire il proprio adattamento a scapito di questi ultimi. In attesa del finale scontro tra Titani, questi si cibano dei nani che hanno intorno.
- E’ LA GLOBALIZZAZIONE, BABY!
Dopo aver precisato che sono in crisi gli stati deboli e non gli stati forti e che quindi non è assolutamente in revoca il concetto di stato, occorre poi sfatare o meglio “ridimensionare” un altro mito. La planetarizzazione non è dovuta alla globalizzazione. Il concetto di globalizzazione è diventato uno di quei “topos” che ci scambiamo con aria colta e complice di chi sa che tipo di significato ci si stia scambiando, ma tanta certezza meriterebbe più cautela. U. Beck con una efficace immagine diceva che definire la globalizzazione è come provare ad inchiodare un budino alla parete. La globalizzazione deve il suo mito in buona parte ai suoi promotori attivi, ma molta della sua aurea purtroppo è dovuta anche ai suoi detrattori che ne hanno ingigantito il profilo scambiando un trend per un fatto compiuto. In mezzo, le sciagurate ed idealistiche (perché prive di ogni connotato di consistenza storica) fughe in avanti sul “governo mondiale”, sulla democrazia universale, sul sogno kantiano di un mondo Uno, sulla visione biblico-cinematografica delle Moltitudini –vs – Impero. Primo la globalizzazione è effettiva solo dal punto di vista finanziario (che è poi la nuova-antica specializzazione degli stati forti), quella delle merci o ancor più quella del lavoro è assai meno pronunciata di quanto si sostenga. Più che altro si è andata manifestando una internazionalizzazione pronunciata con una decisa preponderanza delle relazioni a corto-medio raggio su quelle a lungo e lunghissimo raggio (che riguardano prevalentemente USA e Cina) e con volumi proporzionali, secondo alcuni studiosi, a quelli della fine XIX° – inizio XX° secolo, nella fase “imperial-britannica”. Da qui a derivare l’Uno-mondo ce ne corre. Secondo, questo movimento della cucitura di molteplici interrelazioni a breve, medio e lungo raggio è vecchia almeno quanto la modernità che parte tra le altre cose, dal 1492, dalla stagione delle grandi navigazioni. Terzo, la pressione su i salari e le delocalizzazioni in Europa, hanno agito più per la necessità di incorporare immediatamente i parenti dell’est Europa in seguito al crollo del Patto di Varsavia che non per ragioni di “globalizzazione”. Quarto, qualche volta dovremmo provare a distogliere lo sguardo da quell’indistinto animale mitico che è il capitalismo e guardare anche il mondo in cui questo ircocervo dovrebbe ambientarsi. Vedremmo allora che spesso questo meta-sistema economico non è affatto il generatore dei fenomeni, esso è piuttosto una elastica forma adattativa che cambia al cambiare delle condizioni in cui è immerso mostrando effettivamente oltre che a facoltà di auto-organizzazione, anche le simmetriche facoltà di modellarsi sul divenire. Vedremo inoltre che questa intelligenza adattativa non è una sua caratteristica intrinseca ma una potenzialità che qualcuno (in genere gli stati forti) usa a propri ben precisi fini.
L’origine prima del fenomeno all’interconnessione generalizzata è che l’umanità planetaria, solo nell’ultimo secolo e pronunciatamente nella sua sola seconda metà, è cresciuta di quattro volte. Poiché ogni comunità umana è anche un sistema che ha un suo interno (che in determinate condizioni tende a crescere demograficamente con più o meno costanza e diverso impeto) ed un suo esterno al quale si riferisce per risorse che o vengono carpite o vengono scambiate, in una massa così repentinamente e significativamente in lievitazione è solo questione di tempo prima che tutti siano, prima in contatto e poi intrecciati, con tutti. La globalizzazione intenzionale, il decalogo del Washington consensus, intendeva seguire e domare questo fenomeno, domare nel senso di garantire una posizione vincente allo stato primo ovvero agli USA (ed in subordine alle facoltà di gestione dei capitali dei britannici), il più forte degli stati forti, ma il fenomeno era in essere per sua propria dinamica. La globalizzazione cercò di dar forma alla planetarizzazione ma non la creò ex-novo. La eventuale reversibilità della globalizzazione pertanto non porterà ad una reversibilità della planetarizzazione. La crisi dello “stato” allora sembra essere una crisi che gli stati forti che volevano adeguarsi alla planetarizzazione, imposero anche attraverso il catalogo globalista, a gli stati deboli. Si può e si deve prender ragionate distanze da certa globalizzazione acritica, iperliberista, teologica (che per altro non sembra più molto in auge), ma rimarranno da fare comunque i conti con la planetarizzazione e per i 42 staterelli europei saranno comunque, conti che non tornano.
- QUANDO LO STATO VA AL MERCATO…
L’ultimo punto di chiarimento necessario, dopo aver ridotto la crisi dello stato alla crisi degli stati deboli e tra questi specificatamente quelli europei e dopo aver circoscritto meriti e demeriti della globalizzazione anch’essa da ricondurre più alle strategie degli stati forti che ad una manifestazione della mano invisibile del “capitalismo assoluto”, è quello del rapporto tra sistema economico e i sistemi politico-territoriali che chiamiamo stati. Anche qui ha agito e continua ad agire una certa cecità selettiva tendente all’ottusità.
I liberali sostengono che non bisogna mettere mano “nel” sistema di mercato altrimenti lo si sregola e sregolato esso non funziona bene e tutti ne hanno nocumento. Rispondono i keynesiani: sì ma non c’è commisurazione 1:1 tra le logiche delle società e la logica del mercato. Tempo che il mercato sviluppa una delle sue dinamiche di ciclo o si riprende da una delle sue vistose oscillazioni magari provocate da quel vero e proprio perturbatore di flussi che è l’interesse finanziario, la società è colpita da un disordine insostenibile. Lo stato deve allora mettere mano “nel” sistema per compensare le sue momentanee disfunzioni. Poi ci sono i marxisti che hanno ipostatizzato l’ircocervo “capitalismo” come se questo fosse nella sua composizione del tutto svincolato da una sua concreta realtà specifica (quella di un certo paese, un certo territorio, una certa entità demografica, di un certo stato, di un certo popolo o gruppi di popoli) in una sorta di “idealismo materialista” (idealizzando il meccanismo di funzionamento materiale di questo sistema economico, considerandone solo taluni aspetti ma non altri, producendo una teoria debole sullo stato, debolezza foriera di molti abbagli). Una versione meno intransigente del marxismo duro e puro è quella socialista, simmetrica contraria a quella liberale del meno stato più mercato, rispetto alla quale predica l’esatto inverso non in forma episodica come i keynesiani, ma in forme strutturali. Alla fine, tutti concentrati ad osservare l’interno del sistema come se il sistema fosse dato (ma dato da chi?), nessuno o molti pochi si sono accorti o si son voluti accorgere di ciò che avviene non al suo interno ma nel suo intorno.
Non “nel” sistema, ma “intorno” al sistema economico, non “nel” mercato ma “intorno” alle condizioni di possibilità per cui si dia un mercato.
Intorno al sistema, fuori dal dominio della provvidenziale o sciagurata mano invisibile le cose sono molto più prosaiche. Ma soprattutto si scopre che per esserci una mano invisibile deve agire un corpo molto ben visibile: lo stato. Infine, si scopre che gli stati, ancora oggi e che ci piaccia o meno, vivono nello “stato di natura”, ovvero guardingamente l’un contro l’altro armati, se non sempre di cannoni, almeno di strategie. Ci sono stati di dimensioni tali che o prendono una minuta specializzazione con la quale mantenere un senso alla loro esistenza come partecipanti al gioco del mercato o questo senso lo perderebbero. E’ il caso ad esempio della specializzazione finanziaria e bancaria-fiscale per la Svizzera e il Lussemburgo e di nuovo quella banco-finanziaria per l’UK, mentre il tax-free puro permette l’esistenza degli anacronistici Andorra, Principato di Monaco, San Marino, Liechtenstein. Guernsey, Jersey, Isola di Man affiancano e potenziano il ruolo della City che sostiene il senso economico dell’intera Gran Bretagna, mentre politiche fiscali privilegiate sorreggono tanto l’Irlanda che l’Olanda. Il colmo della presa in giro è poi doversi sorbire pure le lezioncine del longevo monarca del Lussemburgo J.-C. Juncker (premier per 18 anni fino ad un mese fa) o degli olandesi su come si dovrebbe gestire la propria economia o andare a prendere lezioni di sovranità dall’ultra liberale-conservatore britannico N. Farange, titanico difensore della longeva strategia britannica del “divide et impera”, vera star internettiana dei sovranisti dalla larghe vedute. Perdendo queste enclave la loro specializzazione, darebbero meno senso anche alla circolazione della ricchezza delle élite degli stati europei maggiori che su queste lande fuorilegge fanno conto. Lande fuorilegge che poi, sono le stesse che sottraggono quel gettito fiscale che mette in crisi la gestione del bilancio degli stati ai quali poi si chiede, per il rientro, di tagliare la spesa sociale. Come ha fatto fino a poco tempo fa l’astuto Juncker in qualità di presidente dell’Eurogruppo, in aperto conflitto d’interessi.
Questa specializzazione altre volte è data da una botta di fortuna come la scoperta di giacimenti di petrolio per la Norvegia, altre volte è data da una particolare collocazione geografica che ne favorisce il ruolo di centro di scambio o attraversamento delle merci, come la Turchia. Alternativamente vige la lotteria ricardiana del vantaggio comparato che per breve tempo premiò i vini portoghesi (Ricardo) o più recentemente i telefonini finlandesi. Ma questo tipo di momentanea salvazione dalla distruzione creatrice, dura appunto un momento, un breve ciclo, un decennio se ti va bene. Poi i portoghesi tornano a far la fame e i finlandesi a fare i taglialegna. Ci sono stati la cui politica estera, data da pura intelligenza strategica e/o da una forza militare che sconsiglia la discussione, favorisce o meno la propria economia che imperversa nelle altrui lande. Questo, insieme a gli altri punti di forza è poi ciò che rende gli stati, enti diseguali laddove questi vadano a reperire risorse e materie prime, tra l’altro sempre più scarse, per alimentare le proprie economie. Ci sono stati che sono giovani ed hanno prospettive di crescita e stati molto anziani che la loro crescita l’hanno tutta già fatta ed è un miracolo se riusciranno a mantenersi in un equilibrio tendente alla staticità, se non alla decrescita controllata, nel prossimo futuro.
…IL MERCATO E’ IN BUONO STATO.
Tutti gli stati occidentali sono il primo consumatore della propria economia in percentuali variabili tra il 40 ed il 55%[1] e certo che più grande e ricco è lo stato più potenzialmente grande e ricco è il proprio segmento di capitalismo. Più grande il mercato interno (grandezza dovuta semplicemente alla dimensione della popolazione come produttori+consumatori. Sembrerà banale ma nella teoria economica, l’unica causa certa della mitica “crescita” è la crescita demografica), più forti le compagnie che in esso nascono e prosperano prima di varcare la soglia dell’export. Questa spesa, la spesa pubblica, si volge anche in infrastrutture necessarie alle economie e in spesa sociale a protezione dei lavoratori che in primis, sono poi i cittadini di quella società. Poi ci sono gli investimenti strategici in ricerca ovvero investimenti che accendono le possibilità di specializzazione, del vantaggio comparato, delle competitività, del primato e spesso del monopolio. Cosa sarebbero gli USA senza il sistema ricerca scientifica-finanziamento dei militari-brevetto-sfruttamento commerciale dello stesso? Dalla teoria dell’informazione di Shannon-Weaver alla cibernetica di Weiner, al primo mainframe di von Neumann che realizzò quello che il britannico Turing già aveva reso pubblico molto prima (e che i britannici non avevano potuto realizzare perché a corto di fondi) con i soldi della Marina degli Stati Uniti, ad Arpanet, tutta l’origine dell’unica grande novità del capitalismo recente ovvero la cosiddetta “rivoluzione digitale” ed Internet, ha origini di spesa militare, quindi statale. E da PRISM ai recenti interventi in favore della protezione di Apple vs Samsung, si rivela quanto lo stato americano ritenga strategico questo suo vantaggio comparato che nel libero mercato si sarebbe già perso in favore di una miriade di concorrenti più agili, freschi ed intelligenti. Così per l’Intelligenza Artificiale, le biotecnologie, il sequenziamento del DNA del Progetto genoma, il recente Brain Project. Avrebbe potuto inventare la rivoluzione digitale il Portogallo o la Grecia? O avrebbe potuto l’Italia inventare la tecnologia GPR’s senza mandare in orbita una costellazione di satelliti?[2] E perché mai l’Italia avrebbe dovuto dissanguarsi per mandare in orbita una costellazione di satelliti che tra l’altro sarebbero stati tutti preventivamente abbattuti dagli USA (o forse sarebbero stati preventivamente abbattuti gli ideatori di una tale progetto)? Avrebbe potuto manifestarsi l’imponente globalizzazione finanziaria partita da fondi, banche ed interessi gestiti da anglosassoni senza questa rete delle reti partita dalla preminenza tecnologica Made in USA?
Gli Stati Uniti spendono in fatti militari come i restanti successivi 20 primi spender del mondo (finanziando così una delle proprie prime industrie che poi ottiene facilmente anche la leadership mondiale del “vivace” settore) per una insana ed atavica passione per il Far West? E olandesi, inglesi, francesi, americani avrebbero sviluppato multinazionali ovvero megafauna da mercato, senza aver prima creato flotte ed eserciti per creare colonie ed imperi?
Chi non ha colonie, risorse, eserciti almeno si specializza in politica economica come la Germania (in altro modo, il Giappone), facendo vibrare in consonanza istruzione, finanziamento pubblico locale, leggi, compattamento delle produzioni locali in un brand unico veicolabile per le esportazioni e con qualche aiutino di politica monetaria fatta pagare ai concorrenti (a gli italiani, per esempio), gliela fa. E comunque, la Germania, ha prospicente l’intero Est Europa a può contare su più di 80 milioni di consumatori del mercato interno. E le lobbies, il finanziamento della politica, a cosa servono? Lo sciame di imprese al seguito delle conquiste militari, il miracoloso mantenimento in vita di quei paradisi della fiscalità che sono gli off-shore, le leggi a favore nella asimmetria perdurante della permeabilità o meno delle frontiere, la rimozione dei vincoli di legge che liberano interi settori come accadde nel caso del Glass-Steagall Act con la banco-finanza, il “capitalismo” da chi le ottiene ?
Il sistema banco-finanziario americano che implodeva intorno al Big Crunch iniziato da Lehman da chi fu salvato in barba al liberalismo duro e puro degli austriaci? Ed è la Fed una istituzione tipica del liberalismo o della sua confusa versione “neo”? Lo è la gestione del cambio -yuan- da parte della banca centrale cinese? Sono Moody’s, Standard & Poor’s o Fitch, società dei non luoghi? I russi hanno capitali perché specializzati in bamboline o gli sceicchi perché vendono tour nel deserto in groppa ai cammelli? E l’abbondante nutrizione del capitalismo proprietario americano operata a suo tempo da Freddie Mac e Fannie Mae, non erano queste due GSE –Government sponsored enterprise-?
Se si considerasse tutto ciò, cioè se ci si riferisse alla realtà concreta, dovremmo chiudere tutti i dipartimenti di economia e trasformarli in dipartimenti di geopolitica e relazioni internazionali. Molti liberali ma anche molti marxisti, perderebbero il loro oggetto del primario desiderio: il mercato e il capitale, il merito individuale e le classi sociali, le leggi bronzee scientificamente espresse in matematese e le leggi della storia.
Il capitalismo quale rete senza confini di interessi della somma mondiale dei capitali certo esiste, ma ognuno di quei capitali proviene da una storia locale che vede sempre ben presente un certo territorio e la configurazione politica di un certo popolo, cioè uno stato. Il precedente ordine di Bretton Woods, che ha informato l’economia mondiale post bellica non è stato revocato dalla cupola dei banchieri ma dal presidente degli Stati Uniti d’America Nixon, il 15 Agosto 1971. Forse bisognerebbe ritornare a domandarsi daccapo quali siano la natura e le cause della Ricchezza delle nazioni, prima di esagerare il protagonismo di quella eterogeneità di individui ed istituzioni sovranazionali che in genere non mostrano una intelligenza strategica sofisticata al punto che gli si vuole attribuire. Questi capitalisti apolidi, più spesso rentier ipertrofici, sono come dialitici colti dalla hybris dell’indipendenza, avrebbero piacere ad andare a spasso liberi ma dimenticano che così strapperebbero le radici stesse che li alimentano. Non sono loro la causa della crisi, sono dei semplici profittatori, così come il codazzo di manager senza patria se non quella del loro I-pad, sono materia per svolazzi sociologici ma non formano di per sé un fenomeno solido, che lascerà tracce storiche.
Oggi è preminente il discorso banco-finanziario, ma altre volte banca e finanza sono sembrate proprietarie del mondo, capita sempre dopo una più o meno lunga sbornia di free market. Poi, quando il disordine che hanno per primi contribuito a produrre si fa insostenibile, arrivano i ripensamenti, le barriere selettive, la guerra delle valute (manovrate da banche centrali che rispondono a stati, con la bizzarra eccezione di 17 stati europei) di cui già oggi si paventa il formarsi. Ci si accorge così che la globalizzazione va ridimensionata e così anche la finanziarizzazione. Questa accade sempre in quello che Braudel chiamava l’Autunno, l’avviso che sta arrivando il Grande Inverno. O una guerra. Guarda il caso, tra stati… .
C’E’ STATO e STATO.
Quanto alla crisi dello “stato” possiamo allora tornare alla nostra tesi di partenza. Essa sembra assumere il profilo strategico intenzionale di una crisi che gli stati forti che volevano adeguarsi alla planetarizzazione, hanno imposto anche attraverso il catalogo globalista, la finanziarizzazione in cui hanno preso una specializzazione e la narrazione neo-liberale, a gli stati deboli. Un apolide -Internazionale del capitale- ha certo amplificato e divulgato questi messaggi, ma l’impianto dell’operazione non è stato certo prodotto da banchieri e finanziari e da questi onnipotenti, imposto a gli stati. Se la ricchezza (il capitale) è prodotto dalle più varie iniziative individuali o collettive dell’intrapresa o della speculazione ma tale produzione è possibile solo nelle ben determinate condizioni di possibilità che offrono o non offrono gli stati, se la ricchezza prodotta “nel” mercato è ontologicamente dipendente da ciò che uno stato fa “intorno” a quel mercato[3], come allora pensano di vivere nei prossimi trent’anni gli stati nazione europei, senza una strategia, senza essere competitivi sul piano politico-diplomatico-militare, con una demografia in contrazione, con una banco-finanza colonizzata da quella dei paesi forti, senza congrui investimenti in ricerca, senza mercati di sbocco, con costi sociali e del lavoro propri della posizione privilegiata degli scorsi due secoli colonial-imperiali, senza sofisticate relazioni internazionali appoggiate da reali punti di forza ed oltretutto rinunciando alla manovrabilità della variabile di cambio o della propria valuta e dell’inflazione ed auto-obbligandosi a dipendere dal finanziamento dei mercati dei capitali orientati da ratings e fondi di società di proprietà e management invariabilmente anglosassone? La crisi dello stato nazione europeo è nel non saper o poter rispondere, a queste domande. Lo stato-nazione europeo fondato su ragioni storiche ampiamente passate non ha un piano per il futuro e non lo ha perché l’unico piano possibile si potrà fare solo dopo aver rinunciato allo stato-nazione. Anche se non certo allo stato.
= 0 =
Nei prossimi articoli continueremo a domandarci se lo –stato/nazione- di tipo europeo ha compiuto davvero la sua parabola di esistenza durante questi sei secoli e cosa potrebbe prendere il suo posto. Concentrandoci dalla prossima puntata su quella che sembra la parte più debole della sua definizione: la nazione.
Esiste una lotta per la redistribuzione all’interno di ogni stato (99% vs 1%) ma esiste prima una lotta tra stati per l’accaparramento delle risorse, per la simmetria nelle relazioni internazionali, per dare consistenza al proprio sistema economico, per evitare fuga dei capitali, per avere controllo sulle condizioni di possibilità all’interno delle quali possa svilupparsi un adeguato gioco economico, per difesa dall’altrui ingerenza, come lotta per l’egemonia o per lo meno, per resistere a quella altrui. Questa lotta per l’autonomia senza quella per l’uguaglianza dà un sistema squilibrato ma la seconda senza la prima non da proprio un sistema e senza un sistema da contendersi in termini di equità, a quel punto chi perde saranno sempre quelli del 99%. L’1% non solo si accaparra la ricchezza, si accaparra il potere di decidere il sistema che la produce e il come, il che è anche peggio. Il 99% deve porsi questo problema sistemico o verrà sempre sacrificato sull’altare del realismo senza apparente alternativa.
Porsi il problema di quale stato e rivedere il concetto di nazione significa registrare (magari con un po’ di ritardo) che il XIX° secolo e quelle condizioni di mondo sono ampiamente passate. Stabilire quale stato per i prossimi trent’anni (e sperabilmente anche oltre) significa stabilire quale soggetto possa sedersi ai tavoli multipolari dove si faranno le nuove regole del gioco-mondo. Significa cogliere l’occasione per rivedere cosa intendiamo per quella democrazia che in molti si ostinano a difendere nella versione anglo-francese della Gloriosa rivoluzione e di quella Rivoluzione francese in cui si esprimevano solo le élite. Aver allargato il diritto di voto non ha cambiato la struttura di quegli impianti che nacquero elitari e tali sono strutturalmente rimasti. Significa creare un nuovo soggetto storico che la smetta di adeguarsi senza senno alle forme più hard di globalizzazione, ai dogmi di quel neo-liberismo che è il regolamento di chi dietro la mano invisibile, nasconde una visibilissima potenza coercitiva che nulla a che fare col mercato. Un soggetto che abbia nella moneta, al pari dell’esercito, le due imprescindibili condizioni di minima sovranità senza le quali il soggetto diventa oggetto e la libertà va al tramonto mentre i popoli si incamminano a testa china lungo la via della schiavitù (con buona pace di Hayek). Porsi prima di quello monetario, prima di quello economico, il problema che J. J. Rousseau ben espresse nelle sue Confessioni: “Avevo visto che tutto dipendeva radicalmente dalla politica…”.
Su questo cercheremo di ragionare nelle prossime puntate.
[Seconda parte – continua]
Questa la Prima parte: https://pierluigifagan.wordpress.com/2013/08/08/fenomenologia-dello-stato-nazione-europeo-1-come-e-perche-nacque-come-ha-vissuto/
[1] Spesa pubblica rispetto al PIl: 39% USA; 47% UK, 44% GER, 53% FRA/SWE, 49% ITA. 2011 Index of Economic Freedom] by The Heritage Foundation and The Wall Street Journal, da Wikipedia english version.
[2] Si potrebbe sempre obiettare su casi specifici di stati medi, come la Corea del Sud che nella rivoluzione digitale ha un ruolo di primo piano. Io credo ci sia sempre una spiegazione per queste eccezioni. Quella della Sud Corea la conosco bene per via del mio precedente lavoro. Per ragioni assai curiose che non stiamo qui a spiegare, il governo della Corea del Sud cablò in banda larga l’intero paese (altro che TAV), quando qui non sapevamo neanche cosa la banda larga fosse. Questo investimento massiccio in infrastruttura, fu il preludio (insieme all’obbligo scolastico di una perfetta conoscenza della lingua inglese) ad un inserimento deciso nel business delle nuove tecnologie. Ciò venne “pianificato” che è un altro modo per dire “fare strategie”. A proposito di mercato, in 25 anni di professione nel terziario avanzato (consulenza, advertising, marketing) non ho mai incontrato una impresa che non facesse strategie, cioè che non “pianificasse”.
[3] E’ questo il caso della ricchezza banco-finanziaria creata non più nella produzione materiale, ma direttamente imposta come valore auto-consistente (fondata sul dollaro, garantito dallo stato americano). Questa fase del cosiddetto capitalismo contemporaneo è stata programmata, strutturata, giuridicamente supportata, controllata e favorita a livello internazionale dagli stati anglosassoni (USA, UK e pochi altri).